Home > Archivio > 01 - 2001 > Il poeta dello stupore
CHARLES PÉGUY
tratto dal n. 01 - 2001

Il poeta dello stupore


30Giorni sta per raccogliere in un libro tutti gli articoli che ha dedicato negli ultimi anni allo scrittore francese. Ne anticipiamo l’Introduzione


di Gianni Valente


"Un bambino cristiano" scrive Charles Péguy in una delle sue opere più polemiche e più attuali (Un nouveau théologien, M. Fernand Laudet) "non è null’altro che un bambino al quale migliaia di volte è stata presentata dinanzi agli occhi l’infanzia di Gesù". Quando il piccolo Charles apre gli occhi il 7 gennaio 1873 a Orléans, in Faubourg Bourgogne al numero 50, le opere e i giorni degli uomini sono ancora irrigati da tracce e umori della Francia cristiana. Nei ritmi e nelle parole quotidiane si sorprendono ancora riflessi inconsapevoli di quel popolo cristiano fatto di poveri cristi "che andavano e cantavano" e che "impagliavano seggiole con lo stesso spirito con cui scolpivano le loro cattedrali". Eppure non si può dire che il fanciullo Charles rientri nella descrizione di bambino cristiano cara all’adulto Péguy. Intorno a lui, nell’ambiente familiare e scolastico della sua infanzia, non si scorgono persone che vivono così, con uno sguardo familiare e affettuoso rivolto a Gesù.
Orfano di padre (il falegname Désiré Péguy è morto quando il piccolo Charles aveva solo 11 mesi), con una madre forte e tanto affaticata nel suo lavoro di impagliatrice di sedie da non trovare il tempo per la messa la domenica, il piccolo Péguy recita certo le preghiere del mattino e della sera. Frequenta con la dedizione che gli è propria i corsi di catechismo prima alla scuola elementare e poi presso la parrocchia di Saint-Aignan, dove dal 1882 le lezioni di dottrina cristiana vengono confinate dalle leggi laiche di Jules Ferry. Ma tutto l’insegnamento religioso impartitogli rifluisce in una morale del dovere, del lavoro e del sacrificio, quella che il sensibile fanciullo vede ogni giorno impersonata nella fatica senza requie di sua madre.
Sono tempi in cui la Francia repubblicana celebra i suoi fasti laici. Ideologia del lavoro e della patria. Giovanna d’Arco e Michelet. San Luigi e Victor Hugo. Anche i simboli cristiani, i racconti e le immagini della storia sacra ebraico-cristiana vengono arruolati per illustrare i principi morali di questa religione civile. Ma fin dalle scuole elementari, i maestri del piccolo Charles e le persone che lo segnano di più si ispirano a un laicismo aggressivo e diffidente verso il cattolicesimo, lo stesso che in quegli anni respinge le lezioni di dottrina cattolica fuori dall’insegnamento statale. Péguy studia sui manuali di storia del Lavisse, che tratteggiano la Chiesa insieme alla monarchia come un fossile dell’Ancien Régime spazzato via dalla Rivoluzione. Mentre un rapporto dell’epoca avverte che la parrocchia di Saint-Aignan, quella di Péguy, "è poco frequentata, la classe operaia, il popolo, non viene raggiunto" e la domenica, "eccetto poche solennità, la chiesa è deserta". Eppure, al di là delle contrapposizioni di schieramento, preti e educatori laicisti sembrano spendere i loro sforzi nel medesimo orizzonte, propagandano la medesima pedagogia del dovere: "Gli uni e gli altri — e i nostri genitori prima di essi — ci insegnavano quella stupida morale che ha fatto la Francia; che oggi ancora le impedisce di disfarsi […]. Gli uni paternamente, maternamente; gli altri scolasticamente, intellettualmente, laicamente; gli altri ancora devotamente, piamente; tutti […] insegnavano, credevano, constatavano quella stupida morale".
Già alle soglie dell’adolescenza, per questo giovinetto sensibile e studioso, che prende tutto sul serio, allievo prediletto di insegnanti laici misticamente impegnati nel programma di ricostruzione civile repubblicana di Ferry, il cristianesimo sembra diventare un fardello del passato, di cui liberarsi quasi con noncuranza. Scrive ad uno dei suoi insegnanti: "Ho fatto ieri la mia prima comunione. Immaginate lo scombussolamento per me e la mamma. Questa cosa mi ha distolto dal mio impegno scolastico; da domenica, non ho potuto studiare una sola lezione… Meno male che è finita". Nei primi anni della scuola primaria superiore, il liceo di Orléans che frequenta grazie a una borsa di studio del comune, lo inebriano di entusiasmo i classici greci e latini, con il giardino delle declinazioni. A sedici anni, il liceale abbandona i corsi facoltativi di istruzione religiosa. A diciassette, mentre frequenta il primo anno di corso propedeutico all’École normale supérieure, senza troppi tormenti interiori, smette di recarsi alla messa domenicale.
Dopo due prove di concorso andate male, e dopo aver adempiuto i propri obblighi di leva presso il 131� reggimento di fanteria, Péguy viene ammesso all’École supérieure nell’agosto del 1894.
Per l’universitario Péguy, giovane "ardimentoso, cupo e stupido" come si definirà lui stesso quasi vent’anni dopo, le parole che infiammano il cuore sono quelle del socialismo utopista e rivoluzionario, quello di Proudhon di Leroux. Nel maggio 1895 aderisce ufficialmente al partito socialista. Scrive a un suo amico: "Questa conversione resta forse il più grande avvenimento della mia vita morale". Nel corso di quello stesso anno, chiede un periodo di congedo dall’École, impara il mestiere di tipografo, e fonda con alcuni suoi compagni di militanza il Groupe d’études sociales d’Orléans, un laboratorio di studi sociali d’ispirazione socialista. Due anni dopo, scrive a un altro suo amico: "Il socialismo è una vita nuova e per nulla affatto semplicemente una politica".
La militanza rivoluzionaria che Péguy abbraccia come una religione alle soglie della giovinezza si nutre tutta della rabbia per l’ingiustizia e dell’impeto per un riscatto possibile per tutti gli oppressi. "Noi non ammettiamo che ci siano uomini respinti dalla soglia di nessuna città", scriverà in un suo manifesto socialista del 1900.
Il socialismo di Péguy esprime il bisogno viscerale di una salvezza reale, temporale, quella che, come desiderio, è nel cuore di tutti; la lotta a quello che lui definisce "il male universale"; l’attesa di una liberazione, da quella esclusione che la modernità capitalistica borghese ("l’imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è lì dove c’è guadagno", come lo definirà anni dopo Pio XI nell’insuperata enciclica Quadragesimo anno) ha imposto come condizione esistenziale per milioni di persone. "Era sconosciuta" scriverà Péguy nella sua opera L’argent, del 1913 "questa stretta economica, questo strangolamento scientifico, freddo, rettangolare, regolare, costumato, netto, senza una sbavatura, implacabile, accorto… una stretta in cui si è presi senza che si abbia nulla da ridire e dove chi è strangolato ha l’aria di avere così palesemente torto".
Agli occhi del giovane socialista Péguy, la Chiesa cattolica appare sfigurata da due piaghe. Sul piano temporale, ha stretto alleanza con la borghesia capitalistica, puntella il nuovo ordine borghese e benedice lo scialo di oppressioni e di crimini che in esso si consumano. Sul piano spirituale, ostenta una coscienza tranquilla, ragionieristica, davanti alla possibilità reale che la perdizione temporale e quella eterna, l’inferno, siano il destino di molti. Nondimeno, quando nel 1897 porta a termine il suo primo dramma, per simboleggiare il desiderio di salvezza radicale che anima il suo socialismo, Péguy sceglie una figura cristiana: Giovanna d’Arco, la contadina di Domrémy. In apertura, l’opera è dedicata "A tutte quelle e a tutti quelli che saranno morti della loro morte umana per l’instaurazione della Repubblica socialista universale".
In quello stesso anno, a ottobre, il 23enne Charles si sposa civilmente con Charlotte Beaudin, sorella dell’amico e compagno di militanza Marcel Beaudin, morto nel 1896, con il quale aveva scritto il suo Marcel, premier dialogue de la cité harmonieuse, che sarà pubblicato sotto pseudonimo l’anno dopo. Si tratta di un matrimonio tra militanti. Quella di Charlotte è una famiglia di liberi pensatori votati al socialismo mistico e con simpatie per la Comune. A novembre del ’97 lascia l’École, ma ottiene il permesso di seguire, come uditore esterno, i corsi di Georges Lyon e, a partire dal febbraio 1898, quelli di Henri Bergson. A maggio, apre la libreria socialista George Bellais a Parigi, trasformandola in un’officina editoriale. Investimento in cui va in fumo la cospicua dote della moglie. Nel settembre dello stesso anno nasce Marcel, il primogenito dei coniugi Péguy.
Seguono anni faticati e convulsi, dove alle difficoltà materiali per arrivare a fine mese si accompagna l’avvilente disincanto degli ideali socialisti. La "città armoniosa", quella terra del riscatto sognata in gioventù, si polverizza infrangendosi sui limiti, le meschinità, le cattiverie degli stessi costruttori della città.
Un punto di svolta è l’affare Dreyfus, che in quei tempi divide tutta la Francia in due partiti. Péguy si getta con tutta la foga di cui è capace nella difesa di questo militare ebreo, ingiustamente accusato di spionaggio e condannato per tradimento, sottoscrivendo le petizioni per la revisione del processo che l’esercito francese cerca di impedire. Si scontra prima con quei socialisti che, in nome della lotta di classe, boicottano le iniziative in difesa del "borghese" Dreyfus, finendo per trovarsi sulle stesse posizioni dei clerico-reazionari. Ma poi finisce per entrare in rotta di collisione con tutto il socialismo ufficiale, parlamentare, intellettuale. Quei dreyfusardi che, giunti al potere, danno vita a una maggioranza di garanzia repubblicana che con il ministero Combes si trasforma in un regime di persecuzione religiosa, con l’appoggio dei socialisti di Jaurès. Quest’ultimo, in nome della necessaria riunificazione dei gruppi socialisti, ha accettato nel 1899 l’istituzione della censura nelle pubblicazioni di partito. Contro questo diktat Péguy si ribella, fondando nel gennaio del 1900 i Cahiers de la Quinzaine, la rivista che riuscirà a pubblicare fino alla sua morte, tra mille espedienti e con una esistenza sempre precaria.
I Cahiers saranno fino alla fine l’officina editoriale e letteraria entro cui si distende l’esperienza umana e creativa di Péguy. All’insegna della libertà di giudizio, la bottega che ospita la redazione, trasferita nell’autunno del 1901 al numero 8 di rue de la Sorbonne, diventerà un animato cenacolo, un luogo d’incontro in cui la strana truppa degli amici di Péguy — sindacalisti anarchici, ebrei agnostici, socialisti, liberi pensatori con ambizioni letterarie — trova uno spazio libero, dove intervenire con animati articoli sull’attualità e sulle sorti del socialismo. Nel corso degli anni, la fisionomia della rivista cambierà, accentuando il suo profilo letterario e critico. Un’impresa editoriale, quella dei Cahiers, sostenuta dagli abbonamenti ma soprattutto dalle sovvenzioni di pochi amici fedeli che ne condividevano lo spirito, e si sentivano vicini a quell’imprenditore editoriale sui generis.
Sulle pagine dei Cahiers Péguy pubblicherà in anteprima tutte le sue opere, e combatterà tutte le sue solitarie battaglie contro quel blocco che più tardi identificherà come "il partito intellettuale". In primis, la sua invettiva colpisce quei dreyfusardi arrivisti che, giunti al potere, si sono rivelati dei borghesi travestiti, più intenti a democratizzare il vizio borghese che non a creare una "vita nuova". "Tutti questi grandi demagoghi" scrive "non hanno mai fatto in modo che un solo borghese in più lavorasse. Al contrario, con ammirevole successo essi hanno ottenuto che la stragrande maggioranza dei produttori perdesse il gusto e la coscienza, il senso e il sapore del lavoro". Quando non rifluisce nel sistema di potere borghese, il sogno socialista si corrompe in incubo totalitario. Già nel 1901 Péguy scrive: "Associare al socialismo un sistema, legare al socialismo, fosse anche in nome della ragione, un sistema scientifico, artistico, o filosofico, significa letteralmente commettere un tradimento nei confronti dell’umanità… Ben lungi dall’essere definitivo, il socialismo è preliminare, è condizione necessaria, ma non sufficiente". Tra il 1904 e il 1905 arriverà a tratteggiare con visione profetica questa deriva totalitaria, raffigurandola in una "repubblica socialista governativa" dove i medici, con l’internamento negli ospedali psichiatrici, "rimpiazzano gli antichi carnefici".
Anni dopo, ripensando al tempo in cui aveva vissuto e lottato per un ideale di giustizia, Péguy accennerà con ineguagliato realismo alla dinamica, inevitabile, alla lunga di tutti gli ideali che nascono dall’uomo, compresi quelli religiosi, quando scriverà che per chi vive e lotta per un ideale (di verità, di bellezza, di giustizia), dopo l’inizio, è inevitabile con il tempo assumere "una certa maschera", una certa "deformazione teatrale". È inevitabile che a un certo punto, anche rimanendo in buona fede, uno si scopra a fare teatro.
Péguy comunque si astiene dal recitare la parte che a quel punto gli risulterebbe più comoda, quella del militante deluso e inasprito, del pentito che rovescia sui suoi ex compagni di strada un moralistico "ve l’avevo detto". Continua a considerare i suoi Cahiers come "l’ultimo baluardo della libertà". Guerreggia senza requie coi neoborghesi socialisti: la loro ostilità si unisce a quella dei borghesi reazionari nel denigrare e nel condannare all’ostracismo quanto esce dalla piccola impresa editoriale di rue de la Sorbonne. Vive anni in cui la minaccia di fallimento sempre pendente sul suo lavoro di editore si unisce alle crescenti difficoltà di una famiglia sempre più numerosa: nel settembre 1901 è nata la prediletta Germaine, mentre nel giugno 1903 è arrivato Pierre, il terzogenito. Per di più, le fragili finanze di casa Péguy devono mantenere anche la suocera e il cognato di Charles. Intanto, proprio in quei frangenti difficili, Péguy sente incrinarsi e sfiorire anche la mistica intesa laica che lo legava alla moglie Charlotte, mentre s’insinua nei suoi giorni affaticati una tenerezza inconfessabile per Blanche Raphaël, una giovane ebrea che frequenta la bottega dei Cahiers.
Ennesimo strazio, vista la ferma volontà di Péguy di resistere alla passione e di rimanere fedele ai suoi doveri coniugali.
È un padre di famiglia affaticato dalle mille preoccupazioni di una vita senza tregua, quello che giunge tra il 1907 e il 1908 a un grave stato di prostrazione, con un conseguente calo della salute fisica. Nel settembre 1908 una malattia al fegato lo costringe a letto per quattro settimane, e prova la sensazione di essere arrivato alla fine. Sembra sul punto di un crollo totale, materiale, in cui arrivano a insinuarsi pulsioni suicide. Scrive all’amico Pesloüan, nel novembre 1908: "Se tu venissi a sapere che ci siamo suicidati tutti e sette, ne avresti dispiacere per l’eternità; nondimeno è questa la tentazione contro la quale cerco di difendermi con risultati ogni giorno più deboli".
Ma intanto, nella vita Péguy inizia qualcosa di nuovo. Un particolare percepito in mezzo ai mille affanni, come una esile sorgente che comincia a zampillare, dapprima marginale, silenziosa, intima, ma che pure a poco a poco cresce, e diventa una corrente, proprio dentro il deserto di questa quotidianità così affaticata, così modernamente fragile. Proprio gli anni della conclamata debolezza sono gli stessi in cui Péguy percepisce nella propria vita questo nuovo inizio. Tutte le biografie citano le confidenze all’amico Jacques Maritain e il racconto dell’amico Joseph Lotte come le prime occasioni in cui Péguy racconta ad altri questo fatto nuovo. Scrive Lotte ricordando una visita al capezzale di Péguy ammalato, nel settembre del 1908: "L’ho trovato prostrato, esaurito, malato. Il medico diagnosticava una malattia al fegato. Era stata l’enorme fatica sostenuta per 12 anni senza tregua che alla fine lo aveva spossato. […]. Mi ha parlato del suo sconforto, della sua fame di riposo; una classe piccola dove insegnare filosofia, in qualche liceo lontano, vicino a me, in provincia: avrebbe potuto esprimere tutto quello che aveva dentro senza scontri, senza traversie, senza angosce… Ad un certo momento si alzò sul gomito, gli occhi pieni di lacrime: "non ti ho detto tutto… ho ritrovato la fede… sono cattolico"".
Quando nei suoi scritti accenna a questo cambiamento, è Péguy stesso a sottrarsi con foga quasi arrabbiata al cliché del convertito. Non si tratta di una propria "operazione di ritorno e di rimpianto". Non è l’esito di tormentate riflessioni sui propri fallimenti esistenziali che lo portano a "convincersi" delle verità eterne della Francia cristiana. In questa scoperta di essere cattolico Péguy non attribuisce nulla a sé e ai suoi pur intensi approfondimenti interiori, ma mette tutto sul conto del "lavoro della grazia", che lavora i cuori in modo misterioso ed efficace, intimo e reale.
Proprio questa esperienza reale, fisica dell’azione della grazia come unico punto sorgivo della vita cristiana ("Senza di me non potete far nulla"), fa di Péguy un cristiano straniero alla cristianità costituita del suo e del nostro tempo.
I suoi contemporanei non conosceranno la prima opera, che nell’estate 1909 Péguy inizia a scrivere dopo che si scopre cattolico: Véronique. Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle. Il testo, incompiuto, verrà pubblicato solo postumo, nel 1955. Già in esso si percepisce la distanza che separa il direttore dei Cahiers dal sistema di pensiero egemone nel mondo cattolico ufficiale. La sua intuizione della natura e delle dimensioni della scristianizzazione è lontana anni luce dalle pulsioni dei cattolici reazionari, che davanti alla modernità lavorano per la restaurazione dell’ordine cristiano, o dalle analisi di quegli intellettuali per i quali si tratta di escogitare nuovi metodi per suscitare nei propri contemporanei un interesse culturale per il cristianesimo. Quello che Péguy ha intravisto dal suo punto di osservazione negli anni dei Cahiers è "la rinuncia di tutto il mondo a tutto il cristianesimo". I suoi maestri laici al tempo delle elementari, pur nel loro anticlericalismo, vivevano ancora la loro morale del buon cittadino dentro un flebile riverbero di civiltà cristiana. Quella che si affaccia sull’orizzonte della modernità è un’assenza radicale di rapporti, un’estraneità totale, una totale cancellazione ("Abbiamo il dolore di vedere mondi interi, umanità intere vivere e prosperare dopo Gesù. Senza Gesù gli uni e gli altri").
Di questo stato di cose, Péguy non incolpa i liberi pensatori, gli atei militanti o i relativisti. Scrive: "Non è un segreto per nessuno, e nelle scuole non lo si può più nascondere, se non forse nei seminari, che la scristianizzazione è venuta tutta dal clero. Essa non viene dai laici. Viene dai chierici. "Procedit a clericis"". Nella descrizione di questo disastro, il Péguy cristiano non accantona quanto già il Péguy socialista aveva colto: il loro crimine politico è di aver fatto del cristianesimo "una religione da borghesi, una religione da ricchi, una specie di religione superiore per classi superiori" in virtù della loro alleanza con l’ordine costituito. Ma più in profondità, il disastro della scristianizzazione è radicato in un "errore di mistica" che consiste nell’aver tolto "il mistero e l’operazione della grazia", misconoscendo, negando, non riconoscendo l’accadere della grazia nel tempo, ciò che il Signore opera efficacemente e quindi anche visibilmente nel presente. Così si è negato "il meccanismo stesso del cristianesimo", ossia che la grazia può incontrare e commuovere il cuore dell’uomo, solo se brilla nella carne, solo se si vede l’effetto del suo accadere nel temporale, nello spazio e nel tempo della condizione umana.
Perché è stato commesso un simile peccato mistico? Ultimamente — suggerisce Péguy — per una questione di dominio. Per non esporsi a quella vertiginosa insecuritas, a quel tratto di precarietà che segna la condizione di chi, con cuore e occhi di bambino, rimane umilmente sospeso ai continui ricominciamenti dell’azione della grazia. Una condizione che gli ecclesiastici e gli intellettuali religiosi non tollerano: "Perdono continuamente di vista quella precarietà che è per il cristiano la condizione più profonda dell’uomo; perdono di vista quella profonda miseria; e non tengono presente che bisogna sempre ricominciare". Per questo hanno speso tutti i loro sforzi per far scivolare il cristianesimo in un idealismo religioso, un sistema di idee eterne (l’idea della creazione, l’idea dell’incarnazione, l’idea della grazia, l’idea di Cristo) che loro stessi, in qualità di competenti, "con un particolare orgoglio professionale" possono padroneggiare per affermare il proprio potere sui fedeli rimasti e tentare rivincite di egemonia temporale in nome dell’Eterno, come suggerirà nella sua ultima opera, la Note conjointe sur M. Descartes et la philosophie cartesienne (iniziata nella primavera del 1914, sarà pubblicata, postuma e incompiuta, dieci anni dopo). "Poiché non hanno la forza (e la grazia) di essere della natura credono di essere della grazia. […]. Poiché non hanno il coraggio di essere del mondo credono di essere di Dio. Poiché non hanno il coraggio di essere di uno dei partiti dell’uomo, credono di essere del partito di Dio. Poiché non sono dell’uomo, credono di essere di Dio. Poiché non amano nessuno, credono di amare Dio".
Così, per la pretesa di dominare e di cambiare religiosamente il mondo, invece di pregare per chiedere al Signore di salvarlo, è stata "cancellata l’efficacia di tante preghiere generalmente fatte bene, di tanti sacramenti generalmente ben conferiti, ben amministrati, generalmente ben ricevuti". I chierici "lavorano per demolire il poco che resta… La proprietà dei loro interventi è di contrastare sempre l’operare della grazia, di andare contro sempre, con una terrificante pazienza".
Ma anche questo sguardo profetico nel descrivere il crollo cristiano nella modernità, lungi dal confondersi con gli anatemi dei profeti di sventura clericali, è reso possibile da qualcosa che viene prima. Péguy già in Véronique suggerisce come proprio questo tempo di deserto e di demolizione è il più esaltante. Perché proprio in questo deserto pieno di macerie e percorso da "infami parodie" del cristianesimo, può riaccadere lo stupore dell’inizio. E se in tale condizione riattecchisce come inerme germoglio la vita cristiana, si vede meglio che questo nuovo inizio non viene da sé ma deve tutto al miracolo, a ciò che il Signore, vivo, può operare oggi. Proprio come ha fatto all’inizio, quando venne e "non incriminò, non accusò nessuno. Salvò. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo. Eppure c’erano i mali del tempo. Del suo tempo. Arrivava il mondo moderno. E lui tagliò corto. In modo molto semplice. Facendo il cristianesimo".
È il racconto di questa possibilità che il cristianesimo sia un nuovo inerme inizio di grazia, analogamente sperimentata nel germogliare gratuito della speranza cristiana dentro i giorni amari della propria vita, il filo d’oro che scorre dentro tutte le opere cristiane di Péguy, in particolare nei tre Misteri, e che anima dal fondo anche le sue battaglie e gli scritti polemici.
Nel 1910, a gennaio, sui Cahiers esce Le mystère de la charité de Jeanne d’Arc, che riprende la struttura del dramma scritto dal socialista Péguy nel 1897. Nelle intenzioni, si tratta del primo di una serie di misteri che verranno rappresentati per celebrare Giovanna d’Arco a Orléans. Nella nuova stesura Péguy lavora aggiungendo note e inserzioni senza cancellare una riga della versione precedente. Conferma che il Péguy cristiano non ha rinnegato nulla del suo passato. La prima opera cristiana di Péguy diviene oggetto di dibattito pubblico. Ne nasce un "caso Péguy", coi cattolici reazionari che tentano di annettere l’ex anarchico dreyfusardo alla destra monarchica, dicendo che si è pentito e gettando allo stesso tempo pesanti sospetti sull’ortodossia cattolica dello scrittore. Un esempio: Georges Dumesnil, intellettuale cattolico e direttore de L’Amitié de France, scrive a Lotte: "Mi sembra che il suo Péguy sia sotto questo aspetto molto sospetto. Mi sembra enorme che Gesù, che è il Logos incarnato, si sgomenti. Se la ragione divina si sgomenta, allora buonasera!". Dall’altra parte, i vecchi compagni, tra cui l’ebreo Daniel Halévy, sostengono che il loro amico ha fatto ritorno "ai vecchi miti religiosi e patriottici che avevano nutrito la sua infanzia". Péguy reagisce scrivendo sui Cahiers, Notre jeunesse, fiera rivendicazione del proprio passato: "Il nostro socialismo era una religione della salvezza temporale; lo era positivamente e non era nulla di meno… Il cristianesimo stesso, il quale è la religione della salvezza eterna, è impantanato in quel pantano, il pantano del malcostume economico, industriale; non se ne trarrà fuori senza una rivoluzione economica, industriale… insomma non c’è luogo di perdizione fatto meglio, meglio ordinato, meglio attrezzato, non c’è strumento di perdizione meglio costruito della fabbrica moderna".
Nella sua avventura cristiana trova compimento quella passione per una redenzione temporale, reale degli uomini, che costituiva il cuore del suo socialismo. Allo stesso tempo, questa fede vissuta come grato stupore e domanda davanti all’accadere della grazia presente non ha come orizzonte un proprio darsi da fare, né come premessa né come conseguenza da sviluppare. Il direttore dei Cahiers non escogita cose nuove, un cristianesimo nuovo. L’azione della grazia percepita nella propria vita è prima di tutto un aiuto a rimanere nella tradizione, a riscoprirne e a gustarne i tesori inesauribili, il loro efficace conforto di liberazione. Nel 1911 Péguy scrive l’opera polemica Un nouveau théologien, M. Fernand Laudet, contro un "nuovo teologo" rappresentante del modernismo più ottuso, che aveva stroncato il Mystère de la charité. È in quelle pagine che Péguy si confessa, dichiarando le fonti a cui si abbevera il suo cristianesimo generico, da peccatore che "frequenta la messa domenicale in parrocchia" e gode dei "tesori della grazia divina": la messa e gli uffici, il catechismo e la divina liturgia, il vangelo, la devozione per la Vergine e i santi, la passione per Giovanna d’Arco e la cristianità francese. Quella formazione cristiana che aveva ricevuto da piccolo, a scuola e in parrocchia, e che poi sembrava aver dimenticato, riaffiora dalla memoria come una gradita sorpresa, un dono prezioso che non ci si era accorti di aver ricevuto. In fondo la sua fede, dichiara Péguy, è tutta intera nel catechismo della diocesi di Orléans, "il catechismo della parrocchia natale, quello dei bambini piccoli".
Eppure, proprio questa agognata condizione di ordinarietà cristiana Péguy non può attingerla fino in fondo. A lui mancherà per sempre il conforto dell’eucarestia e della confessione, per la particolare condizione familiare che fa di lui un irregolare.
Quando Péguy si scopre cristiano, la novità viene accolta con rigida freddezza dalla moglie atea e dal suo clan familiare comunardo. Charlotte non vuol sentire parlare né di matrimonio in chiesa né di far battezzare i bambini. Così, per la legge della Chiesa, Péguy diventa un concubino, un pubblico peccatore che non può ricevere i sacramenti. Per condizione costituita deve vivere al limitare della Chiesa, sulla soglia, nello spazio che nelle prime chiese cristiane era riservato ai catecumeni. Questo sarà per lui un dolore costante. Ma anche, in questo dolore, un paradossale richiamo d’umiltà, e una misteriosa occasione propizia a permanere per condizione nella precarietà del principiante, nell’apparente fragilità del primo germogliare della speranza cristiana.
Oltre al dolore intimo per non potersi accostare ai sacramenti, Péguy dovrà subire negli ultimi anni della sua vita l’assillo costante di quegli amici "devoti" (preti e intellettuali del mondo cattolico ufficiale) che lo accusano di lassismo morale per le sue esitazioni a "normalizzare" il suo ménage familiare, riportandolo entro i confini della morale cattolica. Alcuni gli consigliano di battezzare segretamente i figli, e di provare un’azione di forza nei confronti della moglie, e gli suggeriscono addirittura di abbandonarla, se lei non scende a patti. Contro le intemperanze di questi chierici Péguy inveisce più volte nelle sue opere. Descrive già in alcune pagine di Véronique la condizione vertiginosa del padre di famiglia, i cui legami carnali con i figli e la moglie possono diventare motivo di apprensione, materia di ricatto da parte dei chierici e degli intellettuali, di coloro che non hanno legami reali con niente. Nella citata Note conjointe sur M. Descartes scriverà: "Le persone oneste non si lasciano bagnare dalla grazia. È una questione di fisica molecolare e globulare. Ciò che si definisce morale è uno strato che rende l’uomo impermeabile alla grazia. Da ciò deriva che la grazia agisce sui più grandi criminali e rialza i più miseri peccatori. Perché essa ha cominciato col penetrarli, col poterli penetrare. E da ciò deriva che gli esseri che sono a noi più cari, se sono sfortunatamente ricoperti di morale, sono inattaccabili dalla grazia, impenetrabili. […] Perciò niente è più contrario a ciò che si definisce (con un nome un po’ vergognoso) religione, quanto ciò che si definisce morale. La morale ricopre l’uomo contro la grazia".
Difficoltà e fatiche degli ultimi anni Péguy le attraversa attingendo al conforto della preghiera, quello a cui continua ad avere accesso. È commovente l’accento con cui esalta la forza di conforto di grazia accessibile a tutti i cristiani attraverso le preghiere più semplici. È come un bambino che si entusiasma del dono più semplice e per questo più caro che gli è stato regalato dalla mamma. Ma così Péguy testimonia che bastano le briciole della grazia a confortare la vita, se il Signore vuole. Scrive: "Poiché i parroci curano la somministrazione dei sacramenti, essi lasciano credere che non vi sia nient’altro oltre i sacramenti. Dimenticano però di dire che c’è anche la preghiera. Essi detengono i primi, ma noi disponiamo sempre della seconda". Sono quelle che lui chiama "preghiere di riserva": "Nel meccanismo della salvezza, l’Ave Maria è l’estremo soccorso. Con questo non ci si può perdere". A Maria Péguy chiede tutto ciò che gli sta più a cuore. Quando i bimbi sono malati, va in pellegrinaggio da Nostra Signora di Chartres, per chiedere la grazia della guarigione. La devozione per la Madonna della Beauce punteggerà di preziose occasioni di conforto gli ultimi anni del poeta.
Negli ultimi cinque anni di vita anche la produzione letteraria, sempre ospitata nelle serie dei Cahiers, vede un crescendo. Nell’ottobre 1910 pubblica Victor-Marie, comte Hugo. L’anno dopo escono il citato Un noveau théologien, M. Fernand Laudet e Le porche du mystère de la deuxième vertu. Nel 1912 è il turno di Le mystère des saints Innocentes e di La tapisserie de sainte Geneviève et de Jeanne d’Arc. Nel 1913 vengono pubblicati di seguito L’argent e L’argent suite, La tapisserie de Notre-Dame (che raccoglie tutte le poesie e le preghiere germogliate lungo il cammino, durante i pellegrinaggi a Nostra Signora di Chartres) e, a dicembre, l’imponente poema Ève. Segue, nell’aprile 1914, la Note sur M. Bergson et la philosophie bergsonienne. Ad agosto, mentre sta lavorando alla citata Note conjointe sur M. Descartes, deve sospendere tutto e lasciare la bottega dei Cahiers. Nel pieno di questa vita concitata, piena di mille cose da dire e da fare, irrompe in controtempo l’uragano della Grande Guerra. Il primo agosto, il sottotenente Péguy deve partire per il fronte. Prende parte col 276� reggimento di fanteria alla campagna di Lorena, e poi, agli inizi di settembre, alla ritirata su Parigi. Il 5 settembre, all’inizio della battaglia della Marna, nei pressi di Villeroy, una pallottola lo colpisce in piena fronte. Cinque mesi dopo, il 4 febbraio 1915, nascerà Charles-Pierre, il suo quarto figlio.
Aveva scritto una volta al solito amico Lotte, raccontandogli della fatica sopportata durante un pellegrinaggio estivo a Chartres: "Ho rischiato di morire. Faceva un caldo! Sarebbe bello morire lungo una strada e andare in cielo in men che non si dica".


Español English Français Deutsch Português