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MOSTRE
tratto dal n. 01 - 2001

La pittura come registrazione del visibile


Così il critico Roberto Longhi definiva il segreto poetico dell’arte lombarda, «un’arte concreta, fatta di fiducia terrena e scevra di ogni allucinamento». Alcune note sull’esposizione di Palazzo Reale a Milano “Il ’500 lombardo”


di Giuseppe FrangI


È stata la mostra più visitata (oltre 300mila biglietti staccati) ma anche più discussa dell’anno (tante stroncature, più una clamorosa lettera firmata da decine di studiosi per contestare la sospetta approssimazione di tante attribuzioni). E forse si sarebbe evitata tanti problemi se avesse leggermente cambiato il proprio titolo: non “Il ’500 lombardo”, ma “I ’500 lombardi”. Se una cosa infatti è apparsa chiara a chiunque visitasse le sale di Palazzo Reale a Milano, è che i fili conduttori dell’esposizione erano almeno due, e uno in opposizione all’altro. Un’opposizione, per altro, di straordinario interesse.
Per capirla dobbiamo fare un passo indietro e tornare agli studi e soprattutto ai giudizi di quel grande critico, Roberto Longhi, che per ammissione degli stessi organizzatori è la pietra angolare su cui è stata costruita questa mostra. Né poteva essere altrimenti: Longhi non solo era stato il primo a scoprire la grandezza di Caravaggio (era stato il tema della sua tesi di laurea, nel 1911), ma con l’avanzare degli studi, per deduzione, aveva verificato che Caravaggio poteva essere capito soltanto partendo da una tradizione figurativa alternativa a quella fiorentina rinascimentale: era appunto la tradizione lombarda. Intuizioni molto battagliere e precoci, come quelle contenute nel saggio Quesiti caravaggeschi: i precedenti pubblicato nel 1929, dove Longhi polemizzava ferocemente contro «la concezione accademica rinascimentale, come unità di misura del meglio e del peggio». E se perdonava il Vasari «che taceva quasi del tutto di un’arte per lui poco meno che barbara», non perdonava i colleghi suoi contemporanei che insistevano a trattare il Cinquecento lombardo come un Cinquecento di serie B. Non si può definire di serie B ciò che è soltanto anomalo rispetto alla tradizione dominante, ribatteva Longhi. E poi sottolineava, con una formula bellissima, il segreto poetico dell’arte lombarda: «la pittura come registrazione del visibile». «Un’arte concreta», scrive in un’altra pagina, «fatta di fiducia terrena e scevra di ogni allucinamento».
Proprio questa citazione apre la questione che la mostra milanese ha invece eluso. A Milano infatti era arrivato un altro personaggio destinato a lasciare il segno: Leonardo da Vinci, che proprio alla fine del 1400 aveva dipinto il celebre Cenacolo e si era messo al servizio di Ludovico il Moro e poi di Francesco Sforza. Ora, il Leonardo empirista, scienziato e acutissimo osservatore di tutti i fenomeni naturali ha punti di contatto con la tradizione concreta dell’arte lombarda? Per gli organizzatori i punti di contatto ci sono, Longhi invece li aveva decisamente negati. E l’effetto di spaesamento che il visitatore riceveva passando dalle sale di Foppa, Romanino e Moretto a quelle di Leonardo e dei suoi epigoni, conferma l’esattezza di quel giudizio.
Per questo se l’esposizione avesse usato il titolo al plurale, sarebbe stata meno suscettibile di critiche e meno pretenziosa. Del resto il giudizio di Longhi su Leonardo era, per quanto discutibile, ben chiaro. Difficoltà di Leonardo si intitolava un suo saggio del 1952 e il critico con coraggio ne parlava come di un «genio vitalistico e animistico», legato in modo ombelicale alla concezione «astratta del lume universale» propria della cultura rinascimentale fiorentina. Un lume che lui smorzava con «un desiderio di evasione sentimentale, poetica»; una specie di vocazione preromantica a cercare le forme confuse del mistero.
Nulla di più distante quindi tra un Leonardo che si sporge sul mondo ermetico dell’inconscio e quei precursori di Caravaggio, curiosi e innamorati del reale. Il Cinquecento lombardo, quello che Longhi aveva tolto dall’oblio in cui una critica un po’ accademica l’aveva relegato, naturalmente riguarda solo i secondi. Non sono artisti dai nomi altisonanti; spesso fanno gruppo, come se l’essere insieme ne rafforzasse le convinzioni. Pasolini, che lombardo non era, se ne era innamorato per la straordinaria immediatezza della loro pittura. Giovanni Testori invece, che proprio su invito di Longhi li avrebbe studiati per molti anni, li definì, con efficacia, pittori che anziché parlare in lingua facevano leva sulla potenza espressiva del dialetto. Altra caratteristica che li unisce è il fatto di provenire dalla provincia più che dal capoluogo. Brescia, Bergamo, Cremona (e Varallo nel Piemonte più contiguo alla Lombardia) furono delle vere fucine di talenti. Del resto anche Caravaggio, per quanto ci sia l’ipotesi che possa essere nato a Milano, veniva dal paese, tra Bergamo e Cremona di cui aveva preso il nome: o, per lo meno, da lì venivano i suoi genitori, Fermo e Lucia.
Il patriarca, il precursore di questa famiglia è Vincenzo Foppa, un bresciano da cui non per niente prendeva avvio la mostra milanese; il pittore più orgogliosamente antitetico alla cultura rinascimentale che si possa immaginare. È un grande pittore contadino, che all’orizzonte tutto mentale e formale dei fiorentini oppone con fierezza, quasi con rabbia, la bellezza del “tangibile”. I suoi santi non hanno la carnagione luminosa e linda dei santi botticelliani. Hanno i piedi ben piantati per terra; sono reali, concreti, assolutamente imperfetti. Eppure il loro aspetto comunica la commozione che si prova solo davanti a persone vere, in cui la bellezza non fa a meno della miseria. Foppa è il primo, e a Brescia apre una scuola formidabile in cui svettano il Romanino, tanto amato da Pasolini, il Moretto e il Savoldo. I loro quadri sono popolati da personaggi solidi, che ingombrano quasi fisicamente le tele, tanto da dare la sensazione, in taluni quadri, di fuoriuscirne. Poco distante, a Bergamo, si muoveva Lorenzo Lotto, di cui in mostra mancavano purtroppo i quadri degli ultimi anni, quelli conservati a Loreto, che hanno una essenzialità quasi da artista neoromanico. E a Bergamo, a cavallo della metà del secolo, si afferma Giovan Battista Moroni, un ritrattista dal sorprendente realismo quasi fotografico. A Cremona, intanto, la Cattedrale affrescata a più mani diventa una specie di Cappella Sistina padana, grandiosa e fragorosa nella sua concretezza. Infine c’è il capitolo, appena sfiorato dalla mostra, di Varallo. Un piccolo borgo ai piedi della valle che porta al monte Rosa e che per decenni diventa una vera capitale dell’arte, capace di generare quel grandioso progetto, il Sacro Monte, che è una ricostruzione, in 50 cappelle abbarbicate tra i boschi, della storia di Gesù. È un desiderio di adesione all’avvenimento concreto di Cristo che arriva quasi alla mimesi, quella che muove Gaudenzio Ferrari, un grande artista, scultore e pittore insieme, e lo porta a creare il cantiere di Varallo. Ma spostare Varallo è impresa che neanche la più oliata e potente organizzazione culturale può permettersi. E così chi vuole vederlo deve salire sin lassù (ed è viaggio che vale assolutamente la pena...).
Sono tanti altri i nomi sorprendenti che si affacciavano dalle sale della mostra milanese. Ognuno preparava, a modo suo, la strada all’arrivo del personaggio che avrebbe portato la specificità lombarda alla ribalta del mondo. Un peccatore concreto, un personaggio dalla vita violenta, un pittore sempre al centro di contestazioni, di clamorosi rifiuti. Ma che aveva dalla sua una forza non sua. Come scrisse Longhi (anno 1929): Caravaggio dipingeva «l’accaduto e nient’altro che l’accaduto. Donde la sua inesorabile naturalezza e la sua inevitabile varietà, la sua incapacità di “scelta”». Il Cinquecento lombardo, davvero, non poteva avere conclusione migliore.


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