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CINEMA
tratto dal n. 01 - 2001

Imperfetti, come noi


Incontro con il regista Carlo Mazzacurati: il suo ultimo film, La lingua del santo, la terra d’origine, il Veneto, e l’affetto per alcuni suoi film definiti «incompiuti e rimaneggiati»


di Antonio Termenini


Schivo per natura, lontano dai riflettori della mondanità anche quando l’occasione, festival, anteprime, lo imporrebbe, Carlo Mazzacurati si è imposto negli ultimi dieci anni come uno dei registi più originali e personali nel panorama del cinema italiano. Cresciuto alla scuola di Nanni Moretti grazie al quale ha esordito nel 1988 con Notte italiana, il regista padovano se ne è distaccato gradualmente indirizzando il suo sguardo a un universo di emarginati, di perdenti alla ricerca di un impossibile riscatto. E a fare da sfondo a questa ricerca, nel suo ultimo film La lingua del santo, è la sua terra d’origine, il Veneto: il Nord-est del benessere, ma anche del disagio sociale, degli immigrati, dei razzismi striscianti. «È strano» dice Mazzacurati «come da alcuni anni non si chiami più questa terra Veneto, ma “Nordest”. È uno dei segnali che fanno capire quanto profondamente sia cambiata. Mi ricordo quando ero ragazzo della grande fatica, del sacrificio che c’era anche solo per condurre un’esistenza dignitosa. Poi gli enormi progressi economici, il miglioramento della qualità della vita nel Veneto hanno provocato un profondo mutamento antropologico ben descritto da giornalisti come Paolo Rumiz e scrittori come Mario Rigoni Stern. I problemi non riguardano più l’esistenza, ma la coesistenza tra sensibilità e culture diverse. Sono anche venuti meno i tradizionali punti di riferimento come la Chiesa, e sono emersi nuovi fenomeni politici come la Lega Nord. È in questo nuovo contesto che ho ambientato La lingua del santo».

Il film si ispira a un reale fatto di cronaca avvenuto nel 1991, quando due ladruncoli sequestrarono la reliquia di sant’Antonio…
CARLO MAZZACURATI: Leggo sempre le pagine dei giornali locali che si occupano di cronaca nera, ma il fatto in sé non mi interessava più di tanto. Conteneva, però, al suo interno, alcuni umori, atmosfere e episodi emblematici del cambiamento di questa terra e, soprattutto, ero rimasto affascinato da questi due personaggi dal passato tormentato e dal futuro ancora più incerto, protagonisti di una vicenda per certi versi paradossale. La storia di La lingua del santo è immersa in una società opulenta, refrattaria a qualsiasi cambiamento, cristallizzata nel suo immobilismo. Dietro a una cornice realistica a cui la vicenda e la narrazione sono saldamente ancorate, come in tutti i miei film, questa volta ho voluto introdurre dei toni favolistici, con Willy e Antonio che picarescamente vagano e mettono in subbuglio la comunità padovana. Lo stesso sant’Antonio rappresenta per noi qualcosa più di un santo, è una figura che evoca tante cose, ha un fascino particolare. E per l’alone di devozione che lo circonda si può paragonare a un santo del sud, una sorta di san Gennaro veneto!
Quando l’imprenditore Maritan cerca di recuperare la reliquia offrendo un riscatto, sembra mosso dalla necessità di restituire alla comunità un simbolo di identificazione collettiva…
MAZZACURATI: Ho descritto Maritan come un cavaliere nero medioevale alla ricerca di un tesoro perduto. Sant’Antonio rappresenta un simbolo di coesione, un elemento unificante. Gli abitanti di Padova vivono spaesati, privati del loro naturale punto di riferimento. La struttura narrativa e i personaggi della Lingua del santo sono assimilabili agli exempla medioevali, con le forze del bene (Maritan) e del male (Willy e Antonio) che si fronteggiano per la conquista di un oggetto che ha un grande valore spirituale.
Secondo te il sacro è rappresentabile?
MAZZACURATI: Si tratta di una questione molto delicata. Il sacro, la dimensione spirituale, la religione è sempre stata fonte inesauribile di ispirazione per artisti e registi. A mio parere l’atteggiamento più corretto sarebbe di fermarsi a un passo dal mistero, a un metro dalla rivelazione. In questo senso penso che ci sia molto più di sacro nelle parabole pessimistiche di Robert Bresson, nel Messia o nel San Francesco rosselliniani piuttosto che in tutta la “paccottiglia” televisiva uscita quest’anno, da Jesus a San Paolo.
Nel 1990 hai adattato per lo schermo il romanzo di Goffredo Parise Il prete bello. Com’è cambiato il tuo approccio nei confronti della religione in questi dieci anni?
MAZZACURATI: In quel film raccontavo la storia di tre adolescenti e di un mondo ancora ingenuo, rurale, quel Veneto che ora non esiste più. Anche la figura del prete è profondamente cambiata. Pur mantenendo il filtro ironico del romanzo di Parise, in quegli anni nel Veneto il parroco era la massima autorità all’interno della comunità, a tutti i livelli. Ora, come dicevo prima, la situazione è profondamente cambiata.
La tua formazione è cattolica?
MAZZACURATI: Sì, come per la quasi totalità della gente nata in queste zone. E anche se spesso sono in disaccordo con alcune prese di posizione della Chiesa, mi accorgo che ci sono tanti sacerdoti e vescovi che continuano a lavorare per affermare i diritti dei più deboli.
Nei tuoi film precedenti ritrai personaggi in fuga, in viaggio, apolidi, perennemente insoddisfatti del reale, perdenti alla ricerca di un mondo migliore. Riflettono un tuo particolare stato d’animo?
MAZZACURATI: Mi affascina la gente problematica, che fatica a vivere, l’umanità marginale. Mi occupo di persone semplici. Il loro non si configura come un viaggio di conoscenza, all’interno del proprio animo, non sono racconti di formazione come i romanzi tedeschi settecenteschi e ottocenteschi. Cerco insieme a loro nuove esperienze, di racimolare affetti, sensazioni. Sono viaggi che iniziano per caso e che il più delle volte è un ritorno alle origini, ai propri inizi, come L’estate di Davide, la mia opera più anomala, soprattutto dal punto di vista produttivo, girato per la Rai con un miliardo e quattrocento milioni. Il film è nato da una serie di conversazioni con lo scrittore Claudio Piersanti, in cui abbiamo riversato i nostri amori letterari, cinematografici. È un’opera a cui sono molto legato perché imperfetta, e come tutte le cose non perfettamente compiute la sento mia; mi piace riconoscermi più nelle imperfezioni, nei lavori rimaneggiati che in quelli perfettamente compiuti.


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