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RIFLESSIONI
tratto dal n. 02 - 2002

Il male, il dubbio, il mistero


L’intervista a Norberto Bobbio contenuta nel volume collettivo Il monoteismo e il racconto autobiografico di Luigi Pintor Il nespolo: l’itinerario di una generazione condotta dalla umiliazione della vita alle domande ultime. Oltre il nichilismo e il fondamentalismo religioso, le due facce di una medesima presunzione


di Massimo Borghesi


Scrive Bobbio: «Un pericolo non meno grave del nichilismo è il fondamentalismo religioso, i cui seguaci, sparsi ormai in tutto il mondo e in rapido aumento, al grido di “Dio lo vuole”, commettono i più efferati delitti. Nichilismo e fondamentalismo minacciano da due versanti opposti l’avvenire dell’umanità. Chi vede nel nostro futuro solo il pericolo del nichilismo, vede i mali del mondo con un occhio solo»
«Tutta intera la storia dell’uomo dalle sue origini, quali che siano le cadenze del tempo, è percorsa dalla volontà di potenza, solo moderata, ma non mai del tutto vinta, dalla volontà buona. Hegel una volta definì la storia un immenso mattatoio. Mattatoio è stata. Non vedo alcuna ragione per cui mattatoio non continui ad essere. Si spegne una guerra, e se ne accende un’altra. […] “Nulla di nuovo sotto il sole”»1. La citazione, tratta da un’intervista a Norberto Bobbio a cura di Vittorio Possenti, è contenuta nel volume collettivo Il monoteismoøappena edito da Mondadori. Nell’intervista, emerge con impressionante chiarezza la «visione non ottimistica della vita e della storia» scrive Bobbio «che mi ha sempre assillato e ancor più mi assilla in questi ultimi anni di affaticata vecchiaia»2. Non fa eccezione a questo quadro il panorama religioso. «Non vorrei esagerare, ma ho l’impressione che oggi la maggior parte dei conflitti etnici che turbano la pace nel mondo siano aggravati, resi più violenti e insolubili, da tradizionali inimicizie di carattere religioso»3. Già in precedenza Bobbio aveva scritto di «un pericolo non meno grave del nichilismo, il fondamentalismo religioso, i cui seguaci, sparsi ormai in tutto il mondo e in rapido aumento, al grido di “Dio lo vuole”, commettono i più efferati delitti. Nichilismo e fondamentalismo minacciano da due versanti opposti l’avvenire dell’umanità. Chi vede nel nostro futuro solo il pericolo del nichilismo, vede i mali del mondo con un occhio solo»4.
Il pessimismo di Bobbio appare radicato, profondo. Nel dialogo epistolare con Augusto Del Noce, pubblicato a suo tempo da Micromega, scriveva che «il male assoluto è […] la Storia che sinora non ha trovato la propria redenzione»5. Il tono amaro reca alla luce una vena sotterranea della riflessione del filosofo piemontese che, latente, è divenuta palese dopo la crisi, in Italia, della “prima” Repubblica e il declino delle speranze suscitate, nel bene e nel male, dal comunismo storico. La fine dell’«illusione di essere entrati nell’età di un nuovo illuminismo»6 e l’avvertenza dei limiti del razionalismo etico-politico riportano in primo piano il tema del male, del dolore, dell’enigma del vivere.

Il corpo di un ragazzino palestinese estratto da una macchina colpita durante un attacco israeliano

Il corpo di un ragazzino palestinese estratto da una macchina colpita durante un attacco israeliano

Pintor e il dolore di Giobbe
Un documento significativo di questa peculiare temperie è il racconto autobiografico di Luigi Pintor Il nespolo, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2001. Il disincanto che separa l’esistenza dalla politica è netto. Alcuni aforismi: «La politica è un surrogato scadente, […] eppure era il sale della terra e non si capisce se sia cambiato il sale o sia cambiata la terra»7; «Nessuno vuol più migliorare il mondo, tutti vogliono arricchirlo e pensano che sia la stessa cosa»8; «Il Papa romano ha dichiarato che il computer ha cambiato la sua vita. La macchinetta al posto della grazia, internet al posto della comunione dei santi»9. Ciò che rimane, nel deserto, non è la profondità delle idee, ma dei sentimenti. «Più di tutto contano e resistono gli affetti, anche quelli perduti e uno solo che rimane. Non occorre essere l’Ecclesiaste per accorgersi che il resto è vento»10. Nel libro è la morte precoce di due figli, Giaime (Junior) e Roberta (Beba), la solitudine della vecchiaia, che percuotono la vita. «Ogni tanto il dolore si deposita sul fondo, poi riaffiora per uno stimolo occasionale ma prepotente, poi torna sul fondo […] il tempo non è un medico sapiente ma un puntiglioso aguzzino che non risana ma infetta»11. Junior è morto, Junior che aveva regalato al padre, nel Natale 1985, una Bibbia con una dedica tratta da san Paolo: «Tutto ciò sarà chiaro il giorno in cui Dio, per mezzo di Gesù Cristo, giudicherà ciò che è nascosto nella vita degli uomini». E poi anche Beba è morta: «Il male ha una fantasia illimitata»12. Che «rapporto c’è fra la bambina che guardava gli aquiloni sulla spiaggia di Ostia e la donna incenerita in quella piccola urna? La stessa persona, la stessa bambina. Questa assurdità inasprisce il dolore. “Non esistono persone insostituibili e vuoti incolmabili”: questa asserzione di Senior è molto laica ma è falsa o può essere vera solo a vent’anni. Si prova invece una vertigine prima e un furore poi»13. Lo sgomento di fronte alla perdita assale alla gola, toglie il respiro. È il dolore di Giobbe, l’«instancabile combattente capace di tener testa al suo dio che lo trattava come uno straccio»14. In realtà il problema è che «nessuno ci guida per verdi pascoli»15. La musica e la teologia costituiscono «l’integrazione del mondo offeso»16, la «religiosità è una domanda di risarcimento contro questo destino, ma affidarsi alle religioni costituite per trovare risposta è un cattivo espediente»17.
Religiosità e scetticismo, imperativo di risposta e dubbio si legano qui in una morsa in cui aperture e chiusure procedono assieme. Il dolore lascia sgomenti, attoniti. Palesa i limiti del razionalismo che non può impedire il prorompere di una domanda, di un perché, anche se poi ne vieta ogni possibile risposta. Il nespolo, nella sua dolente testimonianza, è un documento importante. Vi trova espressione quell’itinerario a ritroso da Marx a Pascal che rovescia quello suggerito in un noto libro di Lucien Goldmann del 1955, Le dieu caché. Etude sur la vision tragique dans les “Pensées” de Pascal et dans le théâtre de Racine, teso a delineare un percorso ideale da Pascal a Marx, dall’esistenzialismo al comunismo. Il ritrovamento di Pascal, dell’“agostiniano” Pascal, non è solo nelle tematiche, nel domandare inquieto dinnanzi all’universo muto, nel realismo disincantato, nella scelta del destino, nell’esigenza di redenzione. Esso è oggetto anche di un rimando esplicito. Nel suo Alla ricerca della morale perduta, del 1995, Eugenio Scalfari mostrava già di optare per Pascal in un confronto a distanza con il “suo” Voltaire. «Non stupisca dunque» scriveva «se l’ateo che io sono si sente più vicino […] al solitario di Port-Royal che non al principe degli illuministi. La morale di Voltaire è un succedaneo della felicità individuale, quella di Pascal punta dritta al fondamento della questione, […] per Pascal è la grazia che rende possibile l’identificazione con Cristo, con la carità e quindi con l’umanità tutta intera superando la peccatrice finitezza del se stesso»18.

Bobbio e i limiti della ragione
L’inquietudine pascaliana è una inquietudine che, in una generazione di formazione rigorosamente laica, emerge tra le maglie del razionalismo. In Norberto Bobbio ciò è particolarmente evidente. Persuaso che il sapere scientifico, ben più di quello filosofico, abbia contribuito ai progressi della ragione e al superamento delle superstizioni, Bobbio confessa, tuttavia, che «più noi sappiamo, più sappiamo di non sapere»19. Ciò che non sappiamo è, in particolare, ciò che maggiormente ci preme, il senso complessivo dell’essere, del nostro esistere. Si tratta di questioni che la filosofia analitica vorrebbe eliminare e che, al contrario, costituiscono il «punto infiammato» (Pavese) dell’io. Domande che, nel solco della vecchiaia, sono gravi e penose. «Quando sento di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una risposta alle domande ultime» scrive nel saggio Religione e religiosità pubblicato in Micromega «la mia intelligenza è umiliata, umiliata»20.
Un miliziano cristiano nella Beirut degli anni settanta

Un miliziano cristiano nella Beirut degli anni settanta

Questo sapere di non sapere è ciò che Bobbio chiama la “mia religiosità”. «Religiosità significa per me, semplicemente, avere il senso dei propri limiti, sapere che la ragione dell’uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infimo rispetto alla grandiosità, all’immensità dell’Universo»21. Questa sproporzione, pascalianamente tra il nulla e l’infinito, tra il piccolo e il tutto che lo circonda, si traduce in una percezione del mistero. «L’unica cosa di cui sono sicuro, sempre stando nei limiti della mia ragione […] è semmai che io vivo il senso del mistero, che evidentemente è comune tanto all’uomo di ragione che all’uomo di fede. Con la differenza che l’uomo di fede riempie questo mistero con rivelazioni e verità che vengono dall’alto, e di cui non riesco a convincermi. Resta però fondamentale questo profondo senso del mistero, che ci circonda, e che è ciò che io chiamo senso di religiosità»22. Un “senso”, questo, che “assilla”, “agita”, “tormenta”. Una “religiosità del dubbio”, non delle risposte certe. «Io accetto solo ciò che è nei limiti della stretta ragione, e sono limiti davvero angusti: la mia ragione si ferma dopo pochi passi, mentre, volendo percorrere la strada che penetra nel mistero, la strada non ha fine»23. La via interrotta passa «dal dubbio alla verità e di nuovo al dubbio»24. La ragione non può consentire alla Rivelazione, non può credere ai miracoli, al peccato originale, all’Antico Testamento, al volto antropomorfico del Padre. Non può credere neppure all’immortalità personale. Bobbio non può credere: «La risposta della fede è consolatoria»25. Cresciuto cattolico, ha perso la fede verso i vent’anni. Cionostante non si sente “ateo”. «Qualcuno dice: “sono ateo”, ma io non sono sicuro di sapere cosa significa. Penso che la vera differenza sia tra chi, per dare un senso alla propria vita, si pone con serietà e impegno queste domande, e cerca la risposta, anche se non la trova, e colui a cui non importa nulla»26. Come in Pascal l’umanità si divide qui tra chi cerca risposta alla domanda che la vita pone, e chi invece rinunzia a cercare. La religione è “consolatoria”, epperò non è solo questo. Essa “rivela” anche verità su problemi cui il sapere non arriva: «risposte a domande che ciascuno si pone sulla soglia della morte»27. Bobbio confessa di aver «continuato a riflettere sui grandi temi dell’esistenza e nessuna delle risposte della religione mi ha mai convinto. Però, nello stesso tempo, neppure io sono riuscito a dare risposte. E dunque, di nuovo, dico che ho un senso religioso della vita proprio per questa consapevolezza di un mistero che è impenetrabile. Impenetrabile!»28.
Nell’oscillare tra Epitteto e Montaigne, tra razionalismo e scetticismo, la ragione misura qui pascalianamente la propria impotenza. E questo proprio in relazione alle risposte che più urgono. La Rivelazione è una risposta che, però, non può mai divenire tale. Lo vietano i “limiti” della ragione. Lo vieta, soprattutto, il «problema più difficile, più ostico»: quello del male. Non tanto il male procurato dall’uomo ma quello che proviene dai limiti della natura, dalla sofferenza inutile, dal dolore immotivato. «La gran parte delle sofferenze non dipendono da noi. Il cancro, che cosa c’entra con la colpa?»29. Non v’è una spiegazione finalistica della sofferenza. «Il perché finalistico non c’è. Allora tutto accade per caso? Ma non potremmo dire egualmente “per necessità”? Effettivamente abbiamo due possibili spiegazioni di qualsiasi evento, il caso e la necessità. Anche se mi accade spesso di dire che il caso spiega troppo poco e la necessità prova troppo. Un amico mio carissimo attraversa la strada e viene investito e muore senza dire una parola. Puoi dare una risposta al perché di questa morte?»30.

Un mondo che non conosce più la grazia
Scrive Pintor: «Nessuno vuol più migliorare il mondo, tutti vogliono arricchirlo e pensano che sia la stessa cosa»; «Il Papa romano ha dichiarato che il computer ha cambiato la sua vita. La macchinetta al posto della grazia, internet al posto della comunione dei santi»
L’apparente “casualità” della morte non distingue tra buoni e cattivi, il sole risplende su entrambi. Ciò rende ancor più fitto il mistero. «Non c’è risposta al problema della cattiva distribuzione della giustizia. Stalin muore nel proprio letto, Pinochet morirà nel proprio letto, e Anna Frank in un campo di sterminio. I tiranni che muoiono nel loro letto e una ragazzina innocente in un campo di concentramento: non c’è nessuna giustificazione, è semplicemente terribile»31. Dalla constatazione di questa ingiustizia Max Horkheimer, nei suoi ultimi anni, ne treava la nostalgia del totalmente Altro, di Dio, «nostalgia secondo la quale l’assassino non possa trionfare sulla sua vittima innocente»32. Bobbio non arriva a tanto. Gli «riesce difficile capire come l’Inspiegabile possa essere un principio di spiegazione, l’Inafferrabile un punto fermo per dare risposta, l’Inconoscibile possa essere fonte di conoscenza, l’Insondabile possa essere una sonda che ci permette di arrivare al fondo delle cose»33. Nel suo “pessimismo religioso” si ferma a Leopardi, non procede oltre, verso Pascal. In un saggio mirabile, dedicato a Giuseppe Rensi tra Leopardi e Pascal34, il suo amico Augusto Del Noce aveva delineato la possibilità di un tale itinerario. In Bobbio l’impianto razionalistico non può procedere così innanzi, teme il volto “antropomorfico” della risposta. La domanda è destinata a rimanere un dolore covato in solitudine. La domanda è una protesta di fronte ad un mondo ferino «che non conosce più la grazia». L’espressione, di Renato Serra, è ricordata da Bobbio nel suo Profilo ideologico del ’90035. Essa segue di poco l’elogio di Benedetto XV per la sua assoluta condanna della guerra. Nella vita del novantenne Bobbio la “grazia” ha assunto il volto di una persona, la moglie Valeria non più presente. Al termine della sua intervista Vittorio Possenti rileva la commozione dell’uomo nel ricordo della consorte: «È stato un amore purissimo, delicatissimo, dolcissimo. […] Con Valeria, per Valeria, attraverso Valeria ho capito che cosa è la morte e che cosa l’amore. […] Lei è presente, è qui nel mio petto. Continua ad amarmi. […] Ho imparato che l’amore è più forte della morte. Amor omnia vincit»36.
«Forte come la morte è l’amore» recita il Cantico dei cantici. Questa forza è il cuore di ogni grande espressione religiosa; è, in qualche modo, il “varco” attraverso cui il mistero si rende presente. L’Ineffabile, di cui non si può dire nulla, trova il suo punto di contatto con l’umano in un volto amato, non soggetto a rapina. La dolorosa altalena “dal dubbio alla verità e di nuovo al dubbio” può, almeno su un punto, essere sospesa. Se ciò è vero si precisa la forma autentica dell’interrogativo religioso, anche di quello di Bobbio. Essa non sorge primariamente da un pessimismo radicale, il quale facilmente può degenerare in cinismo e in odio, anche in odio “religioso”, quanto piuttosto dall’amore a qualcuno, da un bene riconosciuto che provoca, per contrasto, l’enigma del nulla, della morte, della perdita di ciò che, gratuitamente, dona felicità. Il “religioso”, come scrive Pintor, è una «domanda di risarcimento contro questo destino», è «l’integrazione del mondo offeso». Per chi ha passato l’esistenza nel tentativo di rendere l’uomo artefice del suo destino questa, come osserva Bobbio, è un’affermazione che comporta una ferma umiliazione. In ciò però v’è della grandezza. L’itinerario di una generazione può rispecchiarvisi senza ipocrisie, senza le faustiane e decadenti celebrazioni della forza o le ridicole lodi del nulla e del non senso. Documento prezioso, la confessione di Bobbio al pari di quella di Pintor, è tra le poche cose umanamente vere nel vuoto culturale e ideale che ci circonda.


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