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PAPI DEL '900
tratto dal n. 02 - 2002

Quando il papa fece proprio il grido dei poveri


35 anni fa Paolo VI firmava la Populorum progressio. Intervista con il cardinale Paul Poupard sull’attualità di quest’enciclica, oggi che l’ imperialismo internazionale del denaro è tanto più feroce quanto più idealista


di Giovanni Cubeddu


Paolo VI in un viaggio pastorale in America latina

Paolo VI in un viaggio pastorale in America latina

In occasione del trentennale della Populorum progressio di Paolo VI, che cadeva il 26 marzo 1997, 30Giorni aveva dedicato un ampio servizio di copertina all’enciclica (cfr. 30Giorni n. 3, marzo 1997, p. 48 e seguenti). L’odierno trentacinquesimo anniversario non costituisce un’occasione, per così dire, canonica. Senonché, tante pagine di quel testo di dottrina sociale, che costò dure critiche a papa Montini (da parte di chi esigeva che egli fosse e restasse il cappellano dell’Occidente), risultano impressionantemente aderenti alla triste realtà di oggi. Triste perché il grido dei poveri, potente nel momento in cui Montini s’apprestava a scrivere l’enciclica, è oggi lancinante. E perché la ferocia di ciò che già Pio XI, ripreso da Paolo VI, chiamava «l’imperialismo internazionale del denaro» è diventata programmatica. Ma ciò che più rende caro e contemporaneo il testo dell’enciclica è, nella lucidità della sua diagnosi, il realismo dello sguardo, tutto compreso in ciò che Montini aveva a cuore: la Tradizione della Chiesa, la compassione per i poveri.
Il cardinale Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio della cultura cattolica, fu tra i pochi testimoni oculari della genesi della Populorum progressio. Lo abbiamo incontrato.

Rileggendo la Populorum progressio colpisce l’attualità di molti paragrafi e più ancora il realismo dello sguardo con il quale la Chiesa di Paolo VI affrontò 35 anni fa la realtà della povertà mondiale, in termini globali, si potrebbe dire oggi.
PAUL POUPARD: L’attualità è quella di un Concilio, il Vaticano II, che ha avuto una dimensione veramente universale.
Quando sono arrivato in Vaticano all’inizio del pontificato di papa Giovanni XXIII (43 anni fa!), Roma, in quanto centro visibile della Chiesa per la presenza del papa e della Santa Sede, stava cambiando il suo modo di percepire i problemi del mondo. Dal mio ufficio al terzo piano della Segreteria di Stato, che s’affacciava su piazza San Pietro, si vedevano vescovi di tutte le razze: le Chiese locali erano lì, a Roma. Era la Chiesa viva che aveva fatto nascere in Paolo VI la constatazione che «la questione sociale è divenuta mondiale». Paolo VI recepiva la prima enciclica sociale, la Rerum novarum di Leone XIII, quando sosteneva che la logica del mercato non bastava per regolare con equità i rapporti tra i ricchi e i poveri, tra i padroni e gli operai. Ma con la Populorum progressio subentra una novità nello sguardo di Paolo VI sulla questione sociale: da una parte ne intuisce la portata ormai mondiale, dall’altra ne propone alla Chiesa una realistica presa di coscienza. E, insieme, suggerisce alcuni interventi che sarebbero stati, già allora, urgenti sulla scena del mondo. Perché la Chiesa non poteva rimanere estranea a tale nuova realtà dopo aver dichiarato, nelle prime parole di Gaudium et spes, che «le gioie e le speranze, le tristezze ed i dolori degli uomini» erano i propri. Questo realismo era emerso nel Concilio dal momento in cui centinaia di vescovi si erano fatti latori delle sofferenze e dei problemi dei loro popoli. Non esisteva più il contesto da cui avevano origine la Rerum novarum di Leone XIII, la Quadragesimo anno di Pio XI e i messaggi di Pio XII. Direi che il realismo della visione di Paolo VI si può connotare come integrale e solidale, tanto che senza uno sguardo così non si poteva – e tanto meno si può oggi – avere pace nell’umanità.
Caratteristica della Populorum progressio fu il fatto che Paolo VI aveva citato in nota non solo fonti ecclesiastiche, ma anche storici ed economisti laici.
POUPARD: Era una novità assoluta…
…che valse a papa Montini critiche strumentali di intellettualismo. Ma nell’affrontare la tragedia del sottosviluppo, Paolo VI attinge a sant’Ambrogio circa la funzione sociale della proprietà privata, cita Pio XI sull’imperialismo internazionale del denaro e si rifà a san Tommaso sulla possibilità dell’insurrezione contro la dittatura. L’amore per la Tradizione e la cura dei poveri sono due filoni essenziali dell’enciclica.
POUPARD: Ricordo l’udienza che mi concesse qualche mese dopo la pubblicazione dell’enciclica, allorché si sottolineava il fatto che la Populorum progressio aveva goduto di grande risonanza per lo più nella seconda parte: quella relativa allo sviluppo solidale dell’umanità secondo le tre prospettive dell’assistenza ai deboli, dell’equità nelle relazioni commerciali e della carità universale. E si constatava che invece era stata dimenticata tutta la prima parte relativa allo sviluppo integrale dell’uomo. Oggi succede lo stesso, e la difficoltà della cultura dominante pro tempore è quella di far proprio un insegnamento che si radica in tutta la tradizione biblica: perché la destinazione universale dei beni inizia col capitolo primo della Genesi. Perché la Bibbia fin dalla prima pagina ci insegna che l’intera creazione è per l’uomo. Ricordo ancora bene la mole di critiche che Wall Street riversò su Paolo VI: si vedeva che quella gente era come minimo estranea a questa rivelazione plurimillenaria e all’idea che la proprietà privata avesse una dimensione sociale. Per loro era una cosa talmente inaudita, che qualcuno scomunicò Paolo VI tacciandolo di “comunismo”, dimenticando che negli Atti degli Apostoli c’è il solo comunismo reale evangelico (nel senso che chi segue Gesù mette in comune i beni). Al di là di queste critiche interessate esisteva, ed esiste, anche il problema di un insegnamento ricevuto ad modum recipientis, cioè la difficoltà della Chiesa di far sì che il suo insegnamento introduca nel pensiero egemone un’altra dimensione, anziché venirne appiattito.
Una distribuzione di cibo

Una distribuzione di cibo

Anche a seguito dell’11 settembre s’è riacceso un forte dibattito sul nesso tra globalizzazione, poteri finanziari e povertà.
POUPARD: Il Concilio Vaticano II ricordava che l’economia è per l’uomo, mentre l’economismo pretende di imporre le sue regole ferree; e non può essere accettato dalla Chiesa. Questo è pure l’insegnamento della Populorum progressio, tanto profetico che se fosse stato ascoltato non saremmo nella situazione attuale del mondo. Vediamo Paesi interi fallire sotto il peso dei debiti e l’odio diventare criminale. Tale odio non troverebbe però una cassa di risonanza se non ci fosse un terreno favorevole.
Quel dibattito è vivace anche all’interno della Chiesa. Lei alludeva al caso dell’Argentina, Paese cattolico.
POUPARD: Quello che dicevo circa l’ad modum recipientis incolpa i cristiani stessi. È evidente il dramma dell’attuale situazione mondiale. Pensiamo al dibattito sul Terzo Mondo. Ebbene, noi facciamo fatica, e il Papa in prima persona, a mostrare che la Chiesa non è occidentale, non si identifica con il mondo occidentale. E in parte ciò significa che la Chiesa non è riuscita a convertire i fedeli nei Paesi occidentali, restii nel soccorrere i Paesi poveri. Ma se torniamo all’Argentina, il caso è diverso. Per tenere una conferenza sull’evangelizzazione delle culture e l’inculturazione del Vangelo, sono andato a Buenos Aires molti anni fa, e ho scoperto che dopo la seconda guerra mondiale l’Argentina era arrivata ad essere il sesto Paese più ricco del mondo. Monsignor Karlic, il presidente della Conferenza episcopale argentina, ha detto bene: la colpa viene attribuita a politici o politicanti che però, attenzione, sono interni all’ambiente cattolico e dunque ciò significa che c’è stata nei cristiani la perdita del senso del bene comune, secondo i termini della dottrina sociale della Chiesa.
Torniamo all’enciclica. L’economista francese François Perroux così scrisse a proposito della Populorum progressio: «Propone un programma di azione privo di qualsiasi ambiguità. Essa suggella con forza suprema l’alleanza di universalismi che si sono storicamente manifestati: quello del Decalogo, quello del Vangelo e quello della Dichiarazione dei diritti dell’uomo».
POUPARD: Sì, ricordo questo commento. Perroux, che era grande amico di padre Lebret (il domenicano bretone Joseph Lebret, ai cui studi notoriamente Paolo VI attinse nella stesura dell’enciclica, ndr), aveva percepito la Populorum progressio come una nuova alleanza tra la rivelazione giudeo-cristiana e la Magna Charta dei diritti dell’uomo, che è di matrice laica ma che sarebbe difficilmente concepibile senza il legame con la cultura cristiana dei diritti della persona, e della persona nella società. C’è un rapporto tra i due testi che io credo riporti a quanto san Tommaso sempre insegna alla Chiesa: la grazia non distrugge la natura ma la porta a compimento.
Perroux poteva anche alludere al fatto che l’enciclica, per essere operativamente recepita, sperava in un dialogo religioso fra gli «universalismi che si sono storicamente manifestati» (peraltro la Dichiarazione universale sui diritti dell’uomo è sottoscritta dai Paesi islamici). Proprio il realismo di sguardo sui problemi del mondo che è tipico di quest’enciclica invitava a un’azione comune in forza di un lodevole “ecumenismo pratico”.
POUPARD: Rispondo con un episodio. Paolo VI mi fece incontrare Jacques Maritain l’8 dicembre 1965, giorno della chiusura del Concilio Vaticano II, quando all’intellettuale francese aveva consegnato il suo messaggio per gli uomini di pensiero.
C’è stata molta compenetrazione fra il pensiero di Maritain e quello di Paolo VI. Fu il generale De Gaulle, dopo la guerra, ad inviare Maritain come ambasciatore presso la Santa Sede ed egli, da prestigioso intellettuale cattolico, ha sanato diverse difficoltà grazie alla sua amicizia con l’allora sostituto della Segreteria di Stato Montini. Non ricordo per defezione di chi, ma fu Maritain a presiedere in Messico la Conferenza delle Nazioni Unite nella quale si decise la creazione dell’Unesco. Mi sono riletto diverse volte il discorso che lui tenne in quell’occasione. Eravamo all’inizio della guerra fredda, e Maritain esordì affermando che le guerre nascono nello spirito degli uomini. Diceva che siamo in una situation de détresse, di sconforto, miseria – ricordo bene le parole – perché su tutti i punti fondamentali (la concezione dell’uomo, dell’umanità, del lavoro) c’erano nel mondo delle opposte visioni. E allora, continuava, la sola via pratica è quella del Decalogo, perché non siamo più capaci d’altro in questa situazione di détresse. Dobbiamo stabilire l’accordo sulle prescrizioni del Decalogo, iniziando dal negativo (“tu non prenderai la moglie altrui”, eccetera), e, così procedeva, giungendo fino a giudicare l’arena mondiale, in cui lo Stato forte non doveva prendere quello che era dello Stato debole. Prima ancora di affermare la necessità della pacifica convivenza della posterità di Abramo e più in generale di tutti gli uomini di buona volontà, Maritain si appellava alla coscienza, cioè auspicava un testo essenziale che fosse capace di trovare l’adesione della coscienza dell’umanità. Personalmente, così interpreto quella frase di Perroux. E con questo si ritrova anche qualcosa del pensiero genuino di Newman, cui attingeva Paolo VI nel discorso del 4 ottobre 1965, prima visita di un papa alle Nazioni Unite a New York, quando affermava che la Chiesa è «esperta in umanità». Disse così per esprimere con quale umiltà la Chiesa di Dio si presenta all’uomo per partecipargli il suo Vangelo, in modo che possa essere ricevuto da ogni coscienza umana. Questa umiltà è anche condizione della pace, e in tale ottica si colloca così il recente incontro di Assisi, voluto da papa Giovanni Paolo II.
Due immagini di papa Montini durante 
il viaggio in Uganda  nell’agosto 1969; 
sopra, in visita a un ospedale pediatrico; a destra, davanti al monumento ai martiri ugandesi

Due immagini di papa Montini durante il viaggio in Uganda nell’agosto 1969; sopra, in visita a un ospedale pediatrico; a destra, davanti al monumento ai martiri ugandesi

Paolo VI fu da taluni definito come il Papa del dubbio. Altrove può esserci la tentazione di “imporre il bene”?
POUPARD: La Segreteria di Stato compilava ogni giorno la rassegna stampa per Paolo VI e il monsignore addetto certe volte era un po’ “impaurito” di fargli pervenire quegli attacchi sul “Papa-Amleto”. Una volta Paolo VI mi disse: «Ma caro monsignore, dicono di me che sarei dubbioso… non lo sono affatto, ma quando le cose sono gravi, gravissime, anche il papa ha il diritto, anzi avrebbe il dovere, di informarsi su tutta la consistenza della problematica, di leggere, discutere, pregare prima di decidere. Poi», mi guarda, «quando la decisione è presa, è irrevocabile». Molti non hanno capito questo. Sull’Humanae vitae, ad esempio, lui voleva leggere tutto e come responsabile all’epoca in Segreteria di Stato della sezione francese, gli passavo davvero di tutto…
È l’atteggiamento che Paolo VI già esprime nella sua prima enciclica programmatica, l’Ecclesiam Suam: la Chiesa prima di parlare ascolta. Questa è una novità per una “certa” tradizione della Chiesa, ma non rispetto alla Tradizione.
Sulle amicizie di Paolo VI, lei ha molti ricordi personali…
POUPARD: Quando Paolo VI mi chiese di presentare la Populorum progressio alla sala stampa della Santa Sede, il martedì di Pasqua del 1967, mi sono fatto autorizzare da lui stesso esplicitamente per dire alcune cose che sapevo circa la conoscenza e la stima di papa Montini verso molte persone. Ho già citato Maritain, ma anche il padre Lebret, come molti altri, veniva ricevuto da monsignor Montini quando era sostituto della Segreteria di Stato. Poi, divenuto Montini papa, ciò è chiaramente risultato più difficile. Ricordo una volta che padre Lebret era stato inserito dall’allora maestro di camera nell’udienza di “baciamano” (il Papa usciva dal suo appartamento e veniva salutato con un breve baciamano dalla gente che era in attesa nelle sale vicine alla biblioteca privata. Il prelato di anticamera annunciava la persona, cui il Papa donava un rosario ed impartiva una benedizione). A fine mattina arriva Lebret da me in Segreteria di Stato e mi dice: «Mi spiace disturbarla, caro monsignore, ma è il Papa stesso che me lo ha chiesto!». Ed allora mi ha raccontato che dieci minuti prima, nella sala dei paramenti, il Papa s’era sorpreso di trovarlo lì con gli altri: «Ma che cosa fa lì?». «Santo Padre, mi hanno messo qui…», aveva replicato Lebret. «Quando riparte?» chiede il Papa. «Domani». «Ma non è possibile! Allora lei vada da monsignor Poupard, gli esprima tutta la mia insoddisfazione per l’accaduto e dica a lui quanto deve dire a me, perché poi mi riferirà». Più o meno lo stesso capitò con Maritain il giorno prima della chiusura del Concilio, perché il Papa era impegnato con le varie delegazioni ufficiali…
Infine, nel dibattito odierno su economia finanziaria e povertà a cui accennavamo prima, cosa citerebbe oggi della Populorum progressio?
POUPARD: Paolo VI era stato molto preciso nella stesura del paragrafo 26, quello sul capitalismo liberale, che aveva irritato tanto ma era stato compilato in modo rigoroso: «Su queste condizioni nuove della società si è malauguratamente instaurato un sistema che considerava il profitto come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto senza limiti né obblighi sociali corrispondenti». A chi affermava che con ciò il Papa s’era iscritto tra i critici della libera iniziativa economica, Paolo VI replicò che bisognava fare attenzione ai termini, perché egli criticava il profitto inteso come «motore essenziale», la concorrenza assunta come «legge suprema», la proprietà privata «senza limiti né obblighi». E poi, continuava il Papa ancora nel paragrafo 26, «tale liberalismo senza freni conduceva alla dittatura, a buon diritto denunciata da Pio XI come generatrice dell’imperialismo internazionale del denaro». L’11 settembre non ha forse reso tutto ciò più evidente? Il chiaro riferimento è alla Quadragesimo anno del 1931, perciò, ciò che aveva espresso Paolo VI già dai tempi di Pio XI, era il giudizio della Chiesa. Quindi, concludeva il paragrafo 26, «non si condanneranno mai abbastanza simili abusi, ricordando ancora una volta solennemente che l’economia è al servizio dell’uomo. Ma se è vero che un certo “capitalismo” è stato la fonte di tante sofferenze, di tante ingiustizie e lotte fratricide, di cui perdurano gli effetti, errato sarebbe attribuire alla industrializzazione stessa quei mali che sono dovuti al nefasto sistema che l’accompagnava. Bisogna al contrario, e per debito di giustizia, riconoscere l’apporto insostituibile dell’organizzazione del lavoro e del progresso industriale all’opera dello sviluppo».
E dunque, sì all’economia reale, no ai nefasti fondamentalismi della finanza globale.


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