I restauri della Cappella degli Scrovegni
Giotto e lo splendore di una storia semplice
Nel dipingere la vita di Gesù, di Maria e di Gioacchino e Anna, il pittore fiorentino sa di narrare una storia vera, non delle favole. Così tutto viene come da sé, tutto giustifica la propria presenza con potente e tranquilla naturalezza. E sono gli sguardi il vero centro del racconto. Un viaggio negli affreschi che rivoluzionarono la pittura in Occidente
di Giuseppe Frangi
In queste pagine, alcuni particolari degli affreschi di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova. Particolare della Natività di Gesù
Qui a Padova insomma accade qualcosa di molto simile a quello che sarebbe accaduto un secolo più tardi, a Firenze, sui ponteggi della cappella Brancacci. Sotto la spinta prepotente di un altro ventenne, Masaccio, anche lì la storia avrebbe vissuto un’accelerazione travolgente e impressionante. Si volta pagina, nulla può più essere come prima.
Ma torniamo a Padova, 1303, perché i mesi corrono veloci, in ogni senso. Giotto si presenta al ricco padovano non sappiamo con quali credenziali, visto che la critica recente tende a sottrargli la paternità degli affreschi di Assisi. Veniva da Rimini, chiamato dai padri della basilica del Santo per affrescare la sala del Capitolo (qualche segno resta ancora, ma c’è chi giura che cercando con cura potrebbe venir fuori ben altro). Lo Scrovegni ha fretta, è abbastanza anziano e vuole che quella sua cappella di Santa Maria in Arena venga conclusa in tempi rapidi. Lui stesso è stato rapidissimo: l’atto di acquisto del terreno è del febbraio 1300, nel 1302 aveva avuto una controversia con i padri agostiniani della vicina basilica degli Eremitani, che sostenevano essersi allargato troppo, tanto da oscurare quasi il loro pur monumentale edificio. Proteste vane. Nel 1304 il banchiere ha già in tasca l’indulgenza concessa da papa Benedetto XI ai fedeli che avrebbero visitato la sua chiesa, e intanto la squadra di Giotto era all’opera. Il 25 marzo 1305, giorno dell’Annunciazione, era tutto concluso: lo Scrovegni, come attestano i documenti, per la consacrazione aveva fatto arrivare i paramenti da Venezia, con richiesta ufficiale inoltrata (e registrata agli atti) ai Maggiori del Gran Consiglio della città lagunare.
Perché tanta fretta? Forse una risposta può venire dagli stessi affreschi di Giotto. Enrico Scrovegni vi compare sulla contrafacciata, nel mezzo del iudizio universale, mentre porge in dono la cappella, fresca fresca di cantiere, a Cristo giudice, sorretta con l’aiuto di un personaggio misterioso, che probabilmente fu il suggeritore tematico degli affreschi. Questa cappella infatti è un risarcimento che Enrico paga al Padre eterno (e alla sua città) per riparare ai guasti e alla cattiva fama lasciati dal padre Reginaldo, pubblico e celebre usuraio, che Dante incontra (cioè sistema) nell’Inferno, canto XVII. Anche il terribile Inferno giottesco, su quella stessa parete, accentua con realismo crudo le pene subite da chi nella vita ha subito il richiamo perverso del denaro.
Un particolare della Lavanda dei piedi
Il primo a far ricorso al blu, tra lo stupore generale, era stato proprio il maestro di Giotto, Cimabue, che aveva a sorpresa messo quel colore nel braccio trasversale della croce di San Domenico a Bologna, il suo capolavoro. Era appena uno spiraglio, ma sarebbe bastato a Giotto per abbattere l’intero recinto delle convenzioni, spalancando alla pittura quel cielo prezioso ed eternamente terso. Un cielo compatto, felice, fermato da Giotto nell’ora prediletta del mezzogiorno. È sempre intensa, quasi radiosa la luce che getta sulle scene, pulendole di ogni scoria, rendendo squillante ogni particolare, colmando di profondità gli spazi. Giotto «dissoda lo spazio», scrisse Longhi, lo semplifica come fosse un cubista ante litteram, per farlo aderire con meno indugi alla verità di grazia che sta raccontando. Il blu, così, diventa il tramite terso attraverso il quale gli sguardi di tutti i protagonisti (perché sono gli sguardi il vero centro del racconto della Scrovegni) passano senza distrazioni. E il blu diventa anche speculare a quell’incredibile rosa degli incarnati. Un rosa, talora nitido, talora sporcato da ombre, che intesse le pareti della Scrovegni con un ritmo quasi musicale. Un rosa reale. E puro; anzi purificato: purificato dallo sguardo che, per grazia, gli si è posato addosso. Il restauro ne ha esaltati dei particolari che prima sfuggivano, come la sfilata delle anime salvate, con gli occhi, tranquilli e felici, puntati su Cristo giudice; o le guance solcate dalle lacrime delle mamme della Strage degli innocenti. E poi, sempre, al centro di quel timido e tenero rosa («imbrigliato» lo definì Longhi), incontri uno sguardo. È la pupilla spalancata, curiosa e saziata, di Giotto.