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ARTE
tratto dal n. 02 - 2002

I restauri della Cappella degli Scrovegni

Giotto e lo splendore di una storia semplice


Nel dipingere la vita di Gesù, di Maria e di Gioacchino e Anna, il pittore fiorentino sa di narrare una storia vera, non delle favole. Così tutto viene come da sé, tutto giustifica la propria presenza con potente e tranquilla naturalezza. E sono gli sguardi il vero centro del racconto. Un viaggio negli affreschi che rivoluzionarono la pittura in Occidente


di Giuseppe Frangi


In queste pagine, alcuni particolari degli affreschi di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova. Particolare della Natività di Gesù

In queste pagine, alcuni particolari degli affreschi di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova. Particolare della Natività di Gesù

Spesso anche le date hanno una loro scarna e potente efficacia: quando nel 1303 Giotto mise per la prima volta piede nella cappella che Enrico Scrovegni, banchiere padovano, si stava facendo costruire a fianco della sua residenza, sopra le rovine dell’antica arena romana, Giotto stesso non aveva neppure trent’anni. Era certamente uno sicuro dei propri mezzi, baldanzoso nella sua giovinezza, visto che lo attendeva un impegno mai visto, con quei 900 metri quadri di pareti da tappezzare di pitture e una squadra di artisti, artigiani e carpentieri pronta a scattare ai suoi ordini. Ma qualche altra data può ancora essere utile. Un anno prima era morto Cimabue, il suo maestro, colui che aveva tradotto la pittura dal greco al latino, che aveva rotto per sempre la fissità orientale innestando nel corpo della pittura il senso del tempo e della storia. Eppure quel ragazzone fiorentino, come avrebbe scritto Dante pochi anni, o forse pochi mesi, più tardi, era già pronto a oscurare la fama di quel grande (Dante ne riferisce nel Purgatorio, canto XI, per bocca di Oderisi da Gubbio). In quel 1303 Duccio e Simone Martini hanno ancora da venire: i loro due capolavori, le due Maestà conservate a Siena, una ad antico polittico, l’altra ad elegante affresco, sono datate 1315.
Qui a Padova insomma accade qualcosa di molto simile a quello che sarebbe accaduto un secolo più tardi, a Firenze, sui ponteggi della cappella Brancacci. Sotto la spinta prepotente di un altro ventenne, Masaccio, anche lì la storia avrebbe vissuto un’accelerazione travolgente e impressionante. Si volta pagina, nulla può più essere come prima.
Ma torniamo a Padova, 1303, perché i mesi corrono veloci, in ogni senso. Giotto si presenta al ricco padovano non sappiamo con quali credenziali, visto che la critica recente tende a sottrargli la paternità degli affreschi di Assisi. Veniva da Rimini, chiamato dai padri della basilica del Santo per affrescare la sala del Capitolo (qualche segno resta ancora, ma c’è chi giura che cercando con cura potrebbe venir fuori ben altro). Lo Scrovegni ha fretta, è abbastanza anziano e vuole che quella sua cappella di Santa Maria in Arena venga conclusa in tempi rapidi. Lui stesso è stato rapidissimo: l’atto di acquisto del terreno è del febbraio 1300, nel 1302 aveva avuto una controversia con i padri agostiniani della vicina basilica degli Eremitani, che sostenevano essersi allargato troppo, tanto da oscurare quasi il loro pur monumentale edificio. Proteste vane. Nel 1304 il banchiere ha già in tasca l’indulgenza concessa da papa Benedetto XI ai fedeli che avrebbero visitato la sua chiesa, e intanto la squadra di Giotto era all’opera. Il 25 marzo 1305, giorno dell’Annunciazione, era tutto concluso: lo Scrovegni, come attestano i documenti, per la consacrazione aveva fatto arrivare i paramenti da Venezia, con richiesta ufficiale inoltrata (e registrata agli atti) ai Maggiori del Gran Consiglio della città lagunare.
Perché tanta fretta? Forse una risposta può venire dagli stessi affreschi di Giotto. Enrico Scrovegni vi compare sulla contrafacciata, nel mezzo del iudizio universale, mentre porge in dono la cappella, fresca fresca di cantiere, a Cristo giudice, sorretta con l’aiuto di un personaggio misterioso, che probabilmente fu il suggeritore tematico degli affreschi. Questa cappella infatti è un risarcimento che Enrico paga al Padre eterno (e alla sua città) per riparare ai guasti e alla cattiva fama lasciati dal padre Reginaldo, pubblico e celebre usuraio, che Dante incontra (cioè sistema) nell’Inferno, canto XVII. Anche il terribile Inferno giottesco, su quella stessa parete, accentua con realismo crudo le pene subite da chi nella vita ha subito il richiamo perverso del denaro.
Un particolare della Lavanda dei piedi

Un particolare della Lavanda dei piedi

Ma tutto questo è ancora affascinante aneddotica che non spiega e neanche annuncia lo splendore inatteso che Giotto invece spalancò sui muri della cappella lunga, stretta e alta, quasi provocatoriamente gotica per un pittore “largo” come fu Giotto. O meglio ancora “spazioso”, come lo definì icasticamente Roberto Longhi. Giotto allarga, dilata, sfonda, anche se la sua narrazione procede ordinata per riquadri, alla maniera antica, lungo tre fasce orizzontali. Tre le storie che gli erano state affidate: quella di Gioacchino e Anna, quella di Maria e quella di Gesù. Tre storie che Giotto racconta aderendo a un criterio di assoluta essenzialità. Non ha la pretesa di riempire tutto, di chiamare comparse come figurine. Sa di raccontare una storia vera, non una favola, così tutto viene come da sé, tutto giustifica la propria presenza con potente e tranquilla naturalezza. E questa assenza di concitazione, questa drastica eliminazione di ogni effetto speciale dovette apparire già una shockante novità. Ma c’è un particolare, semplice e decisivo, che chiarisce la svolta impressa da Giotto: ed è l’uso del blu. Il blu è il colore che prende, cattura, commuove chiunque ancor oggi entri nella cappella Scrovegni. Il blu è il colore delicato che tante preoccupazioni e cautele ha destato nel recente, appena concluso, restauro. È il blu splendente della notte di Betlemme, che Giotto prende come paradigma per staccare le sue Storie dalla consuetudine appagante dei fondi oro. Il blu per lui deve avere lo splendore di quell’oro, ma deve essere più reale. È blu la volta stellata della cappella, sono blu i cieli di tutte le scene, blu il mantello di Maria (anche se oggi in gran parte dei riquadri ne resta solo qualche traccia), blu il mantello che gli angeli reggono mentre Gesù si fa battezzare nel Giordano. Un colore profondo e splendente, luminoso e reale. Giotto lo dava a secco, cioè a calce asciutta, perché il pigmento dell’azzurrite non legava con la calce. È forte quel blu, ma quindi anche tremendamente fragile. Si sfarina sotto il lavorio dell’umidità e dell’inquinamento. La pietra che, macinata, lo produceva veniva dall’Afghanistan, ed era scoperta recente, tant’è vero che, come ha sottolineato un recente studio di uno storico francese, greci e romani non sapevano come produrre il blu. Del resto blu e azzurro sono parole derivate, una dalle lingue sassoni, l’altra da un idioma mediorientale: perché prima, no colore, no nome...
Il primo a far ricorso al blu, tra lo stupore generale, era stato proprio il maestro di Giotto, Cimabue, che aveva a sorpresa messo quel colore nel braccio trasversale della croce di San Domenico a Bologna, il suo capolavoro. Era appena uno spiraglio, ma sarebbe bastato a Giotto per abbattere l’intero recinto delle convenzioni, spalancando alla pittura quel cielo prezioso ed eternamente terso. Un cielo compatto, felice, fermato da Giotto nell’ora prediletta del mezzogiorno. È sempre intensa, quasi radiosa la luce che getta sulle scene, pulendole di ogni scoria, rendendo squillante ogni particolare, colmando di profondità gli spazi. Giotto «dissoda lo spazio», scrisse Longhi, lo semplifica come fosse un cubista ante litteram, per farlo aderire con meno indugi alla verità di grazia che sta raccontando. Il blu, così, diventa il tramite terso attraverso il quale gli sguardi di tutti i protagonisti (perché sono gli sguardi il vero centro del racconto della Scrovegni) passano senza distrazioni. E il blu diventa anche speculare a quell’incredibile rosa degli incarnati. Un rosa, talora nitido, talora sporcato da ombre, che intesse le pareti della Scrovegni con un ritmo quasi musicale. Un rosa reale. E puro; anzi purificato: purificato dallo sguardo che, per grazia, gli si è posato addosso. Il restauro ne ha esaltati dei particolari che prima sfuggivano, come la sfilata delle anime salvate, con gli occhi, tranquilli e felici, puntati su Cristo giudice; o le guance solcate dalle lacrime delle mamme della Strage degli innocenti. E poi, sempre, al centro di quel timido e tenero rosa («imbrigliato» lo definì Longhi), incontri uno sguardo. È la pupilla spalancata, curiosa e saziata, di Giotto.


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