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PALAZZO DI VETRO
tratto dal n. 02 - 2004

Come dire di no agli USA senza antagonismi




L’Onu vive momenti di vitalità e di impatto internazionale impensabili negli ultimi tempi. Un contingente di caschi blu si prepara a partire per la Costa d’Avorio; si profilano contorni sempre più precisi per la Conferenza di pace per la regione dei Grandi Laghi; una delegazione Onu è appena rientrata dall’Iraq con valutazioni di prima mano che permetteranno di stendere un calendario per la ricostruzione democratica del Paese; la crisi di Haiti è subito rimbalzata nel Consiglio di sicurezza che tiene d’occhio e coordina le proposte di soluzione. Intanto, esce una poderosa pubblicazione sul Consiglio di sicurezza, The Un Security Council. From the Cold War to the 21st century (Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Dalla guerra fredda al XXI secolo). L’ha curata, in tempi record, l’intraprendente David Malone, presidente della prestigiosa Accademia internazionale per la pace. Diagnosticata una crisi che poteva essere cronica, Malone ha invitato al capezzale dell’inferma Onu diplomatici, politici, accademici, esperti vari. Senonché, ne è uscita una diagnosi franca e aperta alla speranza nel futuro dell’istituzione.


Posto di blocco statunitense a Baghdad

Posto di blocco statunitense a Baghdad


L’analisi proposta dagli esperti interpellati è basata su un approccio pratico e non teorico. E l’esperienza dice innanzitutto che l’euforia seguita alla prima guerra del Golfo è stata sostituita, nei giorni della crisi internazionale causata dal secondo eüpiù solitario intervento americano in Iraq, da un profondo pessimismo sul futuro dell’istituzione. È indubbia la preminenza statunitense nell’agenda dell’Onu, come la crisi irachena nel bene e nel male ha dimostrato. Questa preminenza può da un lato far temere che il Consiglio di sicurezza non abbia la forza di resistere a Washington, dall’altro suggerisce invece di utilizzare positivamente le spinte statunitensi nell’orizzonte della riforma e della rivitalizzazione del Consiglio e dell’Onu nel suo insieme. E segni di vitalità, come si è detto all’inizio, ci sono.



Nell’era post guerra fredda la tentazione fu quasi subito quella di immaginare che il Consiglio di sicurezza fosse assimilabile al “modello romano”, dove un senato (il Consiglio) poneva vincoli all’imperatore (il presidente Usa). Ma l’esperienza, affermano gli autori della pubblicazione, ci sta insegnando a diffidare di tale schema e a seguire gli eventi, pur mantenendoci nell’assunto fondamentale per cui, dopo la guerra fredda, il ruolo del Consiglio è stato inteso come prevenzione della possibilità di una terza guerra mondiale.


Affrontando il tema delle innovazioni dell’istituzione Onu, a partire dagli anni Novanta (ci fu un preciso summit del Consiglio di sicurezza del gennaio 1992 sui “nuovi orientamenti”), ciò che balza agli occhi è l’ampliamento dell’agenda del Consiglio, incoraggiato a superare i limiti delle tradizionali operazioni di peacekeeping, assumendo localmente anche compiti civili e di polizia, al fine di mantenere universalmente la pace. Sebbene Boutros Ghali nel 1995 dovette ammettere che di fronte alla mancanza di risorse né il Consiglio né il segretario generale potevano permettersi di portare ordine in tutto il mondo, è vero comunque che il trend dell’allargamento delle competenze è stato mantenuto, ed ha condotto l’Onu ad introdursi in questioni spesso interne ai singoli Paesi (reinterpretando il concetto di sovranità) e a contendere con soggetti non statali (vedi terrorismo). Data la delicatezza di tali interventi, si può ben comprendere il malumore dei membri non permanenti del Consiglio di sicurezza per la crescente pratica di “consultazioni informali” tra i 5 permanenti, e di questi col segretario generale…



Altro mutamento notevole post guerra fredda è stato il maggiore ricorso all’uso delle sanzioni, in base al capitolo VII della Carta dell’Onu (più problematico nel caso di intervento militare, ben più consensuale ove si è trattato di sanzioni economiche). Malone si chiede se non si sia prodotta una regola non scritta che in fondo esonera gli Stati dal richiedere l’esplicito consenso del Consiglio prima di agire unilateralmente. Il braccio di ferro (che può trasformarsi in cooperazione) tra Consiglio e Washington è difatti, secondo gli autori, il vero tema di fondo su cui gli addetti ai lavori dell’innovazione dell’Onu devono confrontarsi. Al fine di evitare che l’Onu sia sempre più percepita dagli Stati Uniti come un ente di peacebuilding, competente solo a curare la ricostruzione di un Paese oggetto di un breve ma decisivo intervento militare americano, e così legittimando tale atto di guerra a posteriori.
Peraltro, alla miopia del Consiglio nell’impostare efficacemente un peacebuilding all’infuori del legame con un’azione militare previa, si cerca meritoriamente già dal 2001 di porre rimedio tramite il rafforzamento del Consiglio economico e sociale dell’Onu (Ecosoc). E questo è uno dei meriti del Palazzo di Vetro, assieme agli interventi dell’Onu a tutela dei diritti umani, nel caso di crisi umanitarie, di terrorismo (affrontato dal Consiglio prima dell’11 settembre più di quanto non si creda generalmente), e nella lotta contro l’Aids (curando allo stesso modo più decisamente lo sviluppo africano).
Ma per Malone il ruolo di Washington per i destini dell’Onu resta oggi dirimente. Se è vero che ad alcuni membri permanenti del Consiglio come Francia e Gran Bretagna il seggio permanente permette talvolta di influenzare gli Stati Uniti (spesso su questioni di geopolitica africana), questi ultimi invece non devono in alcun modo all’Onu la loro influenza internazionale.
Dunque, citando un ambasciatore all’Onu, per costruire assieme, e senza pregiudizi, bisogna prima stabilire se si ha «il coraggio di dissentire con gli Usa quando sbagliano e la maturità di essere d’accordo quando hanno ragione». Poi sarà possibile dirgli di no senza antagonismi e dirgli di sì senza perdere la stima di se stessi…


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