CERVENO
Il realismo della fede popolare
I Sacri monti delle Alpi furono un grande evento corale dell’arte del nord Italia a partire dal XVI secolo. Sono luoghi di culto dove grandi artisti, che sembrano sbucati dal nulla, hanno raccontato la storia di Gesù. In particolare a Cerveno lo scultore Beniamino Simoni realizzò nel legno una Via Crucis degna di Caravaggio
di Giuseppe Frangi
Gesù inchiodato alla croce, cappella XI, particolare
La Val Camonica era terra di frontiera, come s’era accorto san Carlo Borromeo in occasione della sua celebre e capillare visita pastorale del 1580. Qui, spesso, superstizione e tradizione si mescolavano senza distinzioni. Il vescovo aveva dettato regole e disposizioni precise, in modo che neanche la più sperduta frazione restasse scoperta ai rischi dell’eresia. Aumentò la presenza dei francescani, cioè di coloro che sono, guarda caso, alla radice della storia di tutti i maggiori Sacri monti delle Alpi. Più tardi, ad inizio Settecento, sarebbe stato proprio un francescano, Leonardo da Porto Maurizio, a diffondere la devozione alla Via Crucis e a regolarne la pratica. Fu lui, ad esempio, a fissare in quattordici il numero delle stazioni, come risulta dalle disposizioni che il 3 aprile 1731 papa Clemente XII aveva approvato (Monita ad recte ordinandum devotum exercitium Viae Crucis). È su questo sfondo che prese il via, pochi anni più tardi, il cantiere del Sacro monte di Cerveno.
Alcuni particolari dei volti delle statue che compongono la Via Crucis (cappelle VIII, X, I) di Beniamino Simoni
Dal 1752 trovò casa con la famiglia a Cerveno e si mise febbrilmente all’opera per otto anni. Ogni sua spesa, dal cibo ai materiali, è accuratamente annotata nel registro parrocchiale, con una trasparenza pedante e innocente. Simoni rivelò un’energia magistrale nel lavorare il legno di pioppo, materia principale con cui vennero fatte le statue. Ma per un motivo che nessuno ha ancora saputo spiegare, nel 1763 abbandonò l’opera a un passo dalla conclusione. Certamente ci fu del veleno nel rapporto tra lui e i committenti, in particolare con il nuovo parroco, don Bartolo Bressanelli, insediatosi nel 1761. Nella lettera che il parroco scrive di nuovo agli eredi di Andrea Fantoni per implorarli di venire a finire la Via Crucis, parla di uno «scultore Bressano» senza neppure nominarlo, arrivato lì per «un accidente». E poi rende noto che «non è in caso di terminare detta nostra Fabbrica».
Che cos’era successo? Documenti recenti attesterebbero che a Simoni sarebbe arrivata un’importante commessa a Brescia: la realizzazione della macchina effimera per festeggiare la nomina a cardinale del vescovo Giovanni Molino il 10 gennaio 1762. Ma la vicenda mantiene qualche tinta oscura, perché le lettere e i documenti hanno tutta l’aria di una damnatio memoriae per l’artista. Una damnatio che produsse i suoi effetti: Simoni venne cacciato dalla storia e per quasi due secoli nessuno ne fece più cenno, per quanto la popolarità della Via Crucis di Cerveno restasse invece intatta, come dimostra la tradizione dell’imponente Via Crucis vivente, chiamata la “Santa Crus”, che, a partire dal 1800, si svolge ogni dieci anni per le strade del paese, in mezzo ad una folla immensa.
Per riscoprire Simoni ci volle l’occhio febbrile di Giovanni Testori che negli anni Sessanta salì sin qui, restò folgorato e si fece dare tutte le fotografie possibili, che portò al suo grande maestro, Roberto Longhi. Il colpo di fulmine fu immediato e unanime: quelle cappelle con le sculture di Simoni rappresentavano uno dei più formidabili episodi di continuità del caravaggismo nell’arte italiana. Testori ovviamente s’innamorò anche della storia, della cancellazione che una cultura compassata e bigotta aveva operato sulla pelle del povero, irruente scultore della Val Saviore. Ma ora la sua grandezza riemergeva violentemente dal buio in cui l’ufficialità l’aveva cacciata. Le foto, accuratamente scelte, ridavano corpo a uno scultore di un realismo violento, che s’accanisce sulla materia con passione e con forza, che non si sottrae alla durezza delle azioni raccontate e della realtà. Simoni, artista di popolo, come tanti grandi della tradizione bresciana – Romanino su tutti – non si sente affatto minore. Testori sottolinea sì la sua «compattezza dura e inesorabile», il suo «digrignante e ribelle realismo»; ma poi evidenzia anche «la chiarezza dell’imposto scenico che egli dimostra di possedere nell’idear le cappelle». Una chiarezza – suppone lo studioso lombardo – che può essergli venuta solo dall’aver conosciuto e approfondito la struttura degli altri grandi Sacri monti, Varallo in particolare.
Gesù incontra le pie donne, cappella VIII, particolare
Simoni, come detto, per motivi in parte oscuri lasciò l’impresa a pochi passi dalla conclusione. A sostituirlo arrivarono due epigoni della dinastia dei Fantoni. E oggi è esemplare e persino imbarazzante il confronto tra il realismo accanito e rude di Simoni e il distacco così educato e clericale di chi ne prese il posto. A dimostrazione di come i Sacri monti si reggessero sempre sull’invenzione espressiva di qualche grande artista, magari sbucato dal nulla. Fosse stato per gli abili e svolazzanti Fantoni avremmo avuto una specie di Disneyland della fede ante litteram. Grazie a Simoni abbiamo invece un commovente, realissimo, per quanto imperfetto, racconto della Passione.