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ANNIVERSARI: DON GNOCCHI
tratto dal n. 10 - 2002

Don Carlo Gnocchi

Un figlio un po’ speciale della tradizione ambrosiana


Si sta per chiudere l’anno di celebrazioni per il centenario della nascita del fondatore dell’Opera per i mutilatini. Per l’occasione è uscita una nuova biografia curata da Giorgio Rumi ed Edoardo Bressan. Intervista con gli autori


di Gianni Valente


L'abbraccio affettuoso a Don Carlo Gnocchi dei suoi mutilatini

L'abbraccio affettuoso a Don Carlo Gnocchi dei suoi mutilatini

«Amiamo di un amore geloso il nostro tempo, così grande e così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante […]. Se avessimo potuto scegliere il tempo della nostra vita e il campo della nostra lotta, avremmo scelto il Novecento senza un istante di esitazione». Così don Carlo Gnocchi, prete ambrosiano, esprimeva la sua passione per l’umanità afflitta e vitale in mezzo alla quale gli era toccato di vivere. Era nato il 25 ottobre 1902, sulla soglia di quel secolo che avrebbe segnato di morte, dolore e iniquità le vite di milioni di persone. Morì il 28 febbraio del 1956, nell’Italia che sembrava voler dimenticare, nell’euforia della ripresa e del boom economico, quelli che portavano impressi per sempre nella propria carne gli effetti devastanti della follia bellica. In mezzo, una vita mai seduta: cappellano militare sul fronte russo, poi impegnato sostenitore della Resistenza, e infine fondatore dell’Opera per i mutilatini, un miracolo della carità che ancor oggi, adattandosi alle nuove situazioni, raggiunge e trasforma la vita di bambini, uomini e donne di tutto il mondo. L’ultimo suo dono, le cornee dei propri occhi trapiantate a due ciechi, impressionò una società dove la donazione di organi era un tabù e suscitava ancora qualche riserva morale anche in ambienti cattolici.
Il centenario della nascita di don Gnocchi, celebrato con un fitto programma di manifestazioni in tutta Italia, si concluderà il 30 novembre, quando membri e amici della Fondazione che porta il suo nome saranno ricevuti da Giovanni Paolo II. Tra le pubblicazioni uscite per l’occasione, spicca la biografia pubblicata nella collana Le Scie della casa editrice Mondadori e curata dai professori Giorgio Rumi ed Edoardo Bressan, docenti di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Milano (Don Carlo Gnocchi. Vita e opere di un grande imprenditore della carità, pp. 357, euro 17,60). Ai due autori 30Giorni ha chiesto di raccontare la figura di uomo e sacerdote tratteggiata nella loro opera. Fuori dai ritratti stereotipati e dalle immagini zuccherose.
La figura e l’opera di don Carlo Gnocchi spesso è descritta coi tratti del prete eccezionale, fuori misura. Una sorta di benefattore solitario. Su quale terreno fiorisce un simile “caso”?
GIORGIO RUMI: Don Gnocchi è solo il figlio un po’ speciale di una tradizione secolare. Incarna in forme e situazioni inedite la pastoralità del tipico prete ambrosiano. Preti senza carriera, che “sposavano” la propria parrocchia. «Patres, non domini», come recitava la formula classica. Sono abbastanza vecchio per ricordare la figura di questi preti ambrosiani che leggono il loro breviario fuori dalla parrocchia. Per Milano erano passati re, imperatori, francesi, spagnoli, austriaci, tedeschi e repubblichini, pesti e carestie, e solo il prete non aveva mai abbandonato la propria gente. Era rimasto al suo posto. Senza aspettare ordini, direttive e linee guida calati dall’alto. Il vescovo, al massimo, arrivava alla fine a benedire e a sancire opere e iniziative in cui il parroco aveva rischiato il suo tempo, i soldi, le sue energie, per rispondere alle esigenze materiali e spirituali dei suoi parrocchiani. Insomma, anche don Carlo viene fuori da una parrocchialità così, che vuol dire una fede per tutti. Non elitaria. Un cristianesimo generico, non etichettato, non rivolto a sottogruppi privilegiati. C’era, nel clero ambrosiano, addirittura una sorta di prudenza verso gli ordini religiosi, o verso i modelli particolari di devozione e di spiritualità.
Dunque, don Gnocchi non è un “solista” della carità…
RUMI: Come scrive nella prefazione del libro don Giovanni Barbareschi, l’amico prete che ha assistito don Gnocchi negli ultimi giorni della sua vita, «don Carlo viveva così la sua fede: un bisogno di esser guidato, preso per mano». A lui, don Carlo confidava: «La fede non è qualcosa del singolo, della sola persona, la fede è corale. Più di una volta io ho chiesto la fede di mia madre. Certe volte sono andato a dir messa così, con la fede della mia mamma». Questa immanenza tutta ambrosiana al proprio popolo, alla coralità del pezzo di umanità in cui le circostanze ti hanno inserito, segna tutto il suo ministero sacerdotale, fin dall’inizio. E dopo il seminario, quando da giovane prete viene inviato come coadiutore in due parrocchie, il suo popolo è la gioventù milanese di quegli anni, gli studenti che frequentano gli oratori e che lui incontra anche all’istituto Gonzaga, la scuola d’élite dei Fratelli delle scuole cristiane che lui comincia a frequentare e di cui sarà nominato direttore spirituale nel 1936.
Seguire i giovani di allora, vuol dire imbattersi fatalmente nella politica giovanile del regime.
RUMI: È la sorte della generazione che vive la sua adolescenza a metà degli anni Trenta, nata nella crisi dello Stato liberale, e che fino ad allora non ha visto altro che il fascismo. Tutto il suo orizzonte è occupato dal regime mussoliniano. Con questa realtà tocca fare i conti, come accade con le guerre, con le epidemie e con tutti i casi della vita. Tutti i giovani di allora sono inquadrati d’ufficio nelle organizzazioni premilitari fasciste, che in quegli anni, dopo la Conciliazione, si aprivano all’azione della Chiesa. Per seguire i suoi giovani, don Carlo arriva alle opere giovanili del fascismo. Già dal 1928 diventa cappellano dell’Opera nazionale balilla, e nel 1933 è nominato cappellano della seconda Legione universitaria della Milizia di Milano. In quegli anni, all’Opera balilla sono iscritti più di quattro milioni di ragazzi e ragazze. In un articolo scritto nel 1934 per la Rivista del Clero Italiano don Carlo definisce questa realtà «un magnifico campo d’apostolato moderno» da coltivare «per far rientrare Cristo al possesso dei cuori e del mondo». Dopo la guerra, per spiegare il suo percorso, dirà che «un sacerdote che in quegli anni si occupava dei giovani non poteva esimersi dalla loro sorte».
Ma in quegli anni, davanti al fascismo, tanti uomini di Chiesa non furono immuni da abbagli. Capitò anche a lui?
RUMI: Molti, allora, partivano da un sillogismo: il fascismo è italiano, e siccome gli italiani sono intrinsecamente cattolici, il fascismo deve essere cattolico. Il fascismo agli occhi di molti si presenta come un’occasione per cristianizzare la nazione, o come l’argine a difesa dell’Occidente cristiano dal bolscevismo. Anche don Gnocchi, che pure dopo l’8 settembre avrà contatti con la Resistenza armata e sarà anche messo in prigione per dieci giorni dalle SS, riecheggia in alcuni interventi ufficiali la propaganda che identificava nel regime la manifestazione presente della civiltà italica e cattolica. La circolare del cappellano don Gnocchi per la Pasqua del 1936 accenna alla conquista dell’Etiopia quasi nei termini di una crociata, dimenticando che gli etiopi erano cristiani prima di noi: «È Pasqua di resurrezione. Tempo di impetuosa resurrezione anche per la patria fatta nel mondo spettacolo di unità e di potenza, portatrice di civiltà cristiana fra la barbarie e ora baciata in fronte dalla vittoria delle armi gloriose». In quegli anni scrive anche quello che è stato definito il suo lavoro più “scomodo”: quel volumetto pro manuscripto tirato in quattromila esemplari che raccoglieva in forma antologica i pensieri spirituali tratti dagli scritti e dai discorsi di Mussolini, che lasciavano trasparire una concezione legata al cattolicesimo.
Poi, nelle steppe russe, accade ciò che il vostro libro definisce come il disincantamento…
I mutilatini del Centro di Don Gnocchi in una immagine del dopoguerra

I mutilatini del Centro di Don Gnocchi in una immagine del dopoguerra

RUMI: Sempre per seguire i suoi giovani, il pezzo di popolo di Dio che gli è stato affidato, il cappellano Gnocchi si trova insieme agli alpini “là dove si muore”: in Albania, Grecia, Montenegro, Polonia, Ucraina, fino alla campagna di Russia. L’impresa, all’inizio, gli appare giustificabile con motivi patriottici e religiosi: i russi sono comunisti, sono slavi e non sono cattolici. Ma nelle campagne russe si imbatte in povere genti contadine cristiane come lui, che non mostrano alcun trasporto per l’ideologia bolscevica, e che la guerra condanna a una vita fatta di miserie, sofferenze e morte. Le stesse che riserva agli alpini decimati dal gelo e dalle battaglie. È lì che vengono spazzati via tutti gli orpelli ideologici, e la condizione umana si rivela nella sua nudità sofferente, incapace di redimersi da sola: crudeltà, egoismi, dolore senza ragione. Scrive don Gnocchi nel libro Cristo con gli alpini: «Ho visto contendersi il pezzo di pane e di carne a colpi di baionetta; ho visto battere col calcio del fucile sulle mani adunche dei feriti e degli estenuati che si aggrappavano alle slitte come il naufrago alla tavola di salvezza… Ho visto un uomo sparare nella testa del suo compagno che non gli cedeva una spanna di terra, nell’isba, per sdraiarsi freddamente al suo posto e dormire…». Egli stesso si salva dalla morte per freddo in maniera fortuita. Un tenente medico, riconoscendolo in mezzo alla colonna di disperati che si trascina nella neve durante la ritirata, lo carica quasi a forza su una slitta.
Quale effetto ha questo impatto duro sulla vicenda umana e cristiana di don Gnocchi?

RUMI: Lì tutto viene ricondotto alla realtà nuda. Anche la fede. Svanite le teorie astratte sulla civiltà cristiana, le sovrastrutture ideologiche, le aure gladiatorie, emerge che l’unica cosa reale, che agisce, è la tenerezza di Gesù stesso verso gli uomini afflitti e bisognosi di salvezza. E siccome, come dice il cardinal Biffi, gli angeli non hanno le mani, le mani del Signore diventano le opere di carità di chi crede in Lui. È sul fronte che prende corpo la sua vocazione. Nel settembre 1942 scrive a un suo cugino: «Sogno dopo la guerra di potermi dedicare per sempre ad un’opera di carità, quale che sia, o meglio quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia carriera».
De Gasperi, presidente del Consiglio, all'inaugurazion del Centro a Roma nel 1950

De Gasperi, presidente del Consiglio, all'inaugurazion del Centro a Roma nel 1950

Perché la sua opera si rivolge proprio ai mutilatini?
RUMI: C’è, forse, nella scelta di don Gnocchi, un desiderio di espiazione della colpa storica di aver seguito il fascismo per un tratto non piccolo. Nell’Italia del dopoguerra c’è una pulsione generale di ripresa, una voglia di lasciarsi alle spalle gli orrori e le sofferenze. Ma il dolore innocente dei mutilatini è tagliato fuori anche da questo flusso. Appare senza possibilità di riscatto. Rimangono ai bordi della strada, come testimoni muti e dimenticati che portano per sempre impressi nella propria carne gli effetti del disastro di tutta una generazione. Alla fine della guerra ottiene di essere nominato direttore dell’Istituto grandi invalidi di Arosio. Così descriverà le impressioni avute nel suo incontro con Bruno, il primo ragazzo mutilato ospitato presso quella struttura: «Le sue lacrime e il suo sangue mi accusano insopportabilmente. Quando noi si farneticava di spazi vitali e di supremazie di razza egli non chiedeva che di vivere e di giocare un poco».
Don Gnocchi parla di educazione al dolore. Dopo la creazione della Federazione pro infanzia mutilata, una delle sue iniziative sarà quella delle settimane del dolore. In queste formule non c’era il rischio di un certo “dolorismo”?
RUMI: È il contrario. Don Gnocchi vede bene che il dolore, di per sé, rende cattivi. Inaridisce. Spegne i volti e i cuori. Racconta egli stesso, come una delle sue esperienze più decisive, l’incontro con Marco, un mutilatino che era saltato su una mina e a cui erano state amputate le gambe. Don Carlo gli chiese: «Quando ti strappano le bende, ti frugano nelle ferite e ti fanno piangere, a chi pensi?». E lui rispose: «A nessuno». La sua opera di carità partiva proprio dallo sgomento davanti all’“irreparabile sciagura” del dolore innocente che si perde nel vuoto. E dall’esperienza fatta tante volte di come la grazia di Gesù poteva prendere in braccio i poveri e i sofferenti che da soli si sarebbero perduti, redimendo misteriosamente anche il loro dolore. Come scrive don Gnocchi, «la redenzione di Cristo deve estendere i suoi benefici anche alle conseguenze materiali della colpa originale e perciò deve mirare anche a sanare o almeno attenuare il dolore fisico e combatterne tutte le cause. Sanare il dolore non è allora soltanto un’opera di filantropia, ma è un’opera che appartiene strettamente alla redenzione di Cristo». Tutta la vita di don Gnocchi è una lotta al dolore. Per questa ragione giungerà a occuparsi di meccanica, di leghe metalliche, di marchingegni tecnologici. A servirsi di tutti i ritrovati messi a disposizione dalla più avanzata ricerca tecnica e medico-sanitaria.
Il suo vescovo, il cardinale Schuster, aveva qualche riserva sulle scelte di don Gnocchi…
EDOARDO BRESSAN: Schuster era un padre che considerava don Gnocchi un figlio un po’ irrequieto. Il vescovo aveva su di lui un progetto diverso. Pensava di affidargli una parrocchia, e che tutte le sue esperienze avrebbero ben potuto confluire in un ministero parrocchiale ordinario, quello di tutti gli altri preti ambrosiani. Ma per don Gnocchi la parrocchia era la sua opera per i mutilatini, quella che chiamava «la mia baracca». Non era facile resistere al vescovo benedettino con quel cognome così tedesco. Ma alla fine Schuster lasciò fare, e benedì i frutti inattesi di quella grande Opera.
Nel dopoguerra, l’Opera per l’infanzia mutilata (che dal 1951 diventa Fondazione pro iuventute) assume rilevanza nazionale nel settore dell’assistenza. Riceve finanziamenti dal governo. C’è anche qualche bisticcio con chi vuole preservare il carattere statale degli istituti di cura.

BRESSAN: Le difficoltà si superarono senza troppe guerre ideologiche. Le disposizioni giuridiche tendevano a ribadire un controllo pubblico del settore, ma nell’attuazione pratica la legge stessa diventò lo strumento per riconoscere alla Pro juventute la leadership di fatto nella gestione del problema. In don Gnocchi non c’era alcuna animosità o competizione nei confronti dello Stato e delle istituzioni pubbliche. Lui cercava il loro sostegno, e il governo De Gasperi appoggiò con decisione l’inizio della sua impresa. Nella sua vicenda ci fu una collaborazione e compenetrazione concreta tra pubblico e privato vantaggiosa per lo Stato. In termini attuali, fu un caso esemplare di applicazione del criterio della sussidiarietà.
Don Gnocchi in Russia

Don Gnocchi in Russia

Insomma, la carità fa bene anche allo Stato…
BRESSAN: Don Gnocchi diceva: «Non si può fare la carità in carta da bollo. Ma lo Stato ci costringe spesso a fare questo». Nell’Istituto grandi invalidi di Arosio, don Gnocchi aveva visto negli adulti mutilati durante la guerra gli effetti negativi della “burocratizzazione del dolore”. Descriveva così la situazione: «Il dannunzianesimo e il fascismo hanno lasciato in eredità a queste anime sofferenti (più di 600mila) uno spirito esasperato, esaltato, pretenzioso soltanto di diritti, inquieto e senza consolazione». Sperava che ai mutilatini non toccasse la stessa sorte. E secondo lui solo chi era mosso dalla carità cristiana poteva aiutarli a non ripiegarsi e incattivirsi. «Noi» scriveva «non vogliamo assolutamente che diventino come sono spesso gli altri, degli esosi il cui scopo principale della vita è quello di mirare al 27 del mese per far coda impaziente davanti agli sportelli delle pensioni contando avaramente il denaro ricevuto e bestemmiando il governo. Vogliamo farne degli uomini superiori, capaci di far dono del tesoro della loro sofferenza a Dio e agli uomini, per la ricchezza di tutti».
Nel sottotitolo del vostro libro, don Carlo è definito imprenditore della carità…
BRESSAN: In una lettera, una volta, don Gnocchi scrisse: «Io ammiro le persone e le istituzioni che tutto attendono dalla Divina Provvidenza, nulla cercando e nulla rifiutando, ma io non ho la loro Grazia speciale. Nella ricerca dei mezzi per la vita dei miei poveri, io cerco di ispirarmi più a don Bosco che “cercava” che al Cottolengo che “attendeva”». Forse era un paragone un po’ ingiusto per il Cottolengo… ma certo don Gnocchi ebbe un’energia fantasiosa, una imprenditorialità tutta milanese nel trovare mezzi e occasioni per far crescere la sua “baracca”. Usava con totale libertà i contatti umani, il mondo dei mass media, le sue entrature con l’alta società lombarda per far affluire fondi e risorse all’Opera. Inventò iniziative come le catene di solidarietà o altre, più spettacolari, come il volo aereo del cosiddetto “Angelo dei bimbi” da Milano a Buenos Aires, o come la collaborazione con Cesare Zavattini nel film Tutti i bambini del mondo: tutto poteva esser utile per sensibilizzare l’opinione pubblica sul dramma dei mutilatini. E fu rapido ed efficace anche nel “riconvertire” la sua opera alle nuove situazioni. Man mano che ci si allontanava dalla guerra, e diminuiva il numero dei mutilatini, tutte le case della Pro juventute cominciarono ad ospitare i poliomelitici, e altre categorie di persone bisognose di assistenza…
Il processo di beatificazione di don Gnocchi ha superato la sua fase diocesana e adesso è “fermo” a Roma. Il sempre più vasto e vitale mondo del volontariato potrebbe prendere a cuore questa causa…
BRESSAN: Potrebbe essere un’idea: san Carlo Gnocchi, patrono del volontariato e del no profit…


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