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COPERTINA
tratto dal n. 09 - 2004

Parla il vicesegretario del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa

La Russia dopo Beslan


La strage in Ossezia, il terrorismo internazionale, l’Iraq, il disarmo nucleare, gli attuali rapporti della Russia con gli Usa e l’Europa. Intervista a tutto campo con Nikolay Spasskiy. Partendo dal suo nuovo romanzo, Le reliquie di san Cirillo, una spy story ambientata nel 1991 tra Roma e Mosca al tempo della dissoluzione dell’Urss


di Roberto Rotondo


Nikolay Spasskiy nel chiostro della Basilica dei Santi Apostoli a Roma. L’ex ambasciatore russo presso lo Stato italiano ha da poco pubblicato il suo secondo romanzo storico, questa volta dedicato ai rapporti tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa

Nikolay Spasskiy nel chiostro della Basilica dei Santi Apostoli a Roma. L’ex ambasciatore russo presso lo Stato italiano ha da poco pubblicato il suo secondo romanzo storico, questa volta dedicato ai rapporti tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa

Roma, autunno 1991. L’ambasciatore sovietico in Italia Fëdor Tregubin deve affrontare la fine dell’Urss. Il suo Paese è sull’orlo del baratro e decide di suicidarsi. Prima però vuole portare a termine un progetto lungamente accarezzato: rimarginare lo scisma tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa, organizzando un viaggio del papa a Mosca e soprattutto recuperando le reliquie di san Cirillo, l’evangelizzatore del mondo slavo. Ma mentre i suoi piani prendono corpo, Tregubin si rende conto di essere la pedina di un gioco molto più grande di lui e con scopi del tutto diversi…
Questa è, a grandi linee, la trama del nuovo romanzo storico di Nikolay Spasskiy, Le reliquie di san Cirillo, in uscita in Italia per Rizzoli, una vera e propria spy story in cui vero e verosimile si intrecciano, così come le vie del potere mondano e quelle dell’altare. Spasskiy, nonostante non sia certo alla sua prima fatica editoriale, non è uno scrittore di professione: a soli 43 anni ha infatti una lunga carriera diplomatica alle spalle, è stato a Roma più di sei anni, come ambasciatore della Federazione Russa presso lo Stato italiano, ed oggi è il vicesegretario del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa. È il numero due di Igor Ivanov (che, a sua volta, è il corrispettivo russo della statunitense Condoleezza Rice, per intenderci), e nonostante sia in prima linea per affrontare lo shock per le conseguenze del terribile attentato terroristico alla scuola di Beslan, accetta di rispondere alle nostre domande sul ruolo attuale della Russia nel mondo, anche perché, come ha notato l’ex presidente dell’Urss Gorbaciov, quello in Ossezia «è stato un attacco a Putin, che sta cercando di rimettere in piedi il Paese». Commenta Spasskiy: «Ciò che affrontiamo è una guerra lunga e dura, vera e autentica. Saremo capaci di vincerla solo se la trattiamo come tale. Sarebbe un errore tragico sia pensare al terrorismo come a uno scontro di civiltà, sia crederlo un fenomeno isolato».

La strage di Beslan è da considerarsi l’11 settembre russo?
Nikolay Spasskiy: A mio avviso il confronto tra la strage a Beslan e l’11 settembre è assolutamente legittimo. Si tratta di una tragedia nazionale, che ha scosso tutto il Paese, tutto il popolo. Nel suo appello televisivo il presidente Putin ha espresso molto bene questo sentimento di rabbia e di cordoglio. Non c’è dubbio, la Russia uscirà cambiata da questa tragica esperienza. Speriamo di ritrovare quell’atteggiamento civico che quarant’anni fa fu riassunto dal presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy con le famose parole: «Chiediti quello che tu puoi fare per il tuo Paese e non quello che il tuo Paese può fare per te».
San Cirillo in un affresco del IX secolo conservato nella Basilica di San Clemente a Roma

San Cirillo in un affresco del IX secolo conservato nella Basilica di San Clemente a Roma

Putin ha detto: «Ci hanno dichiarato guerra», facendo capire a chiare lettere che la questione cecena da sola non spiega l’attentato. Cosa, chi e perché hanno voluto colpire i terroristi?
Spasskiy: La guerra è stata dichiarata contro noi tutti, l’America, la Russia, l’Europa, le forze moderate nel mondo islamico. Sì, è vero che la Russia si trova nel mirino del terrorismo. Ma non c’è niente di strano. Il mio Paese non tratta con terroristi, non cede a loro, invece combatte. Spesso i nostri interlocutori occidentali ci chiedono cosa c’entra il separatismo ceceno in tutto questo. Il separatismo come fenomeno di massa non esiste nella Cecenia di oggi. Esistono dei problemi socioeconomici legati al dopoguerra, alla ricostruzione pacifica. E come nelle altre parti del mondo questi problemi vengono strumentalizzati dal terrorismo. Avendo fallito il progetto di creare nel Caucaso un’enclave terroristica, Al-Qaeda ha scatenato contro la Russia la sua furia. In questa situazione la prima cosa da fare è distruggere questa minaccia con tutti i mezzi possibili. Ma è importante che la risposta militare e il rafforzamento della sicurezza pubblica siano inseriti nella strategia globale della lotta contro il terrorismo, che include aspetti politici, diplomatici, economici, massmediatici.
Torniamo al suo nuovo romanzo, al suo interesse per la storia dei rapporti tra la Chiesa ortodossa e quella cattolica e alle conseguenze politiche dell’evolversi di questo rapporto. Non è la prima volta che lei si occupa di questo tema, ma stavolta tutto ci porta a pensare che il protagonista del romanzo che tenta di recuperare le reliquie di san Cirillo sia lei. Troppo facile?
Spasskiy: Sì. Perché in realtà il vero protagonista del libro è il crollo dell’Urss, il 1991, un’epoca di grandissimo caos in cui il mio Paese ha rischiato il tracollo. Tutta la sceneggiatura del libro è stata completamente inventata, ma l’ho fatto tenendo presente il mio Paese, la nostra storia, la conoscenza diretta di certi ambienti e di certi nostri personaggi. Ne è uscita la storia verosimile, e in un certo senso reale, del ritrovamento e della restituzione alla Russia delle reliquie di san Cirillo. Un intrigo inventato, certo. Ma anche la vera storia della scomparsa delle reliquie dell’evangelizzatore degli slavi è un’autentica e bellissima spy story, che percorre un intero millennio. Non le nascondo il mio desiderio di vedere, durante la mia esistenza, la riconciliazione tra le due Chiese. Conseguentemente tengo tantissimo a che le cose della politica mondana non vengano usate per impedire la realizzazione di questo grande sogno. Ma preferirei fermarmi qui.
Insistiamo, invece, lasciando da parte il finale, e chiedendole perché lei nel libro attribuisce un peso politico e strategico così rilevante a un possibile viaggio del papa a Mosca, e, più in generale, a un cammino di riconciliazione tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa russa…
Spasskiy: Si dice che lo scisma sia il più profondo marchio delle porte dell’inferno sul corpo della Chiesa di Cristo. Condivido pienamente questa affermazione e a questo argomento ho dedicato tutti e due i miei ultimi libri: sia Il Bizantino, dove si racconta la storia degli intrighi diplomatici avvenuti nel Quattrocento nel triangolo tra Mosca, Roma e Costantinopoli, sia Le reliquie di san Cirillo. Lo scisma tra ortodossia e cattolicesimo ha avuto la sua storia, la sua mitologia, i suoi protagonisti. Ha avuto il suo prezzo orribile, inclusa la caduta di Bisanzio. Ma oggi è tempo di riavvicinarsi, perché noi tutti, sia cattolici che ortodossi, siamo innanzitutto cristiani.
La Piazza Rossa occupata dai carri armati dei golpisti durante uno dei momenti di maggior caos del terribile 1991 russo

La Piazza Rossa occupata dai carri armati dei golpisti durante uno dei momenti di maggior caos del terribile 1991 russo

Sul piano pratico cosa potrebbe voler dire la riconciliazione tra le Chiese? Anzitutto dobbiamo ricordare che si tratta di due enormi comunità di cristiani, presenti in una parte considerevole della terra. Così, naturalmente, questa riappacificazione contribuirebbe notevolmente all’approfondimento dei rapporti tra i popoli. Perché i popoli e le società civili si sviluppano, progrediscono e si integrano non solo quando ci sono rapporti di tipo economico, ma anche di tipo spirituale, familiare, culturale. Poi c’è il problema del terrorismo. Per combattere il quale non basta la collaborazione tra i governi. Quest’azione deve essere anche sostenuta dalla società civile. E la riappacificazione tra le due Chiese contribuirebbe anche a questo scopo.
Inoltre nel mondo, oltre al terrorismo ispirato dal radicalismo islamico, ci sono molte cose che ci preoccupano: diffusi atteggiamenti di intolleranza che sfociano nella violenza; totalitarismo e xenofobia che emergono a volte anche a livello della politica ufficiale; il moltiplicarsi di sette che predicano un’ideologia disumana e diabolica. In queste condizioni, se la Chiesa ortodossa russa e la Santa Sede riuscissero a unificare i loro sforzi, potrebbero contribuire molto, oltre che alla lotta al terrorismo, al salvataggio delle anime dalla trappola dell’odio e dell’intolleranza.
Un interesse diretto da parte di un governo laico a un riavvicinamento tra le Chiese non potrebbe essere letto come ingerenza? Anche perché questo rapporto è passato da periodi di gelo artico a periodi di cauto dialogo, ma nulla di più…
Spasskiy: Credo invece, ed è la cosa che mi conforta, che, anche se non in maniera appariscente, stia maturando una certa comprensione tra le due Chiese. La rimarginazione dello scisma ecclesiastico è compito proprio delle due Chiese, e lo Stato non ha il diritto di interferire. Nell’Unione Sovietica si aspirava ad una regolamentazione totale della vita ecclesiastica e ancora oggi paghiamo il conto di quel passato. Però lo Stato e la società civile non possono dire di guardare con una imparzialità distaccata a questa impresa. Lo Stato può facilitare il dialogo ecclesiastico, può creare condizioni favorevoli, ma l’intesa sulla riconciliazione deve essere raggiunta solo tra Patriarcato e Santa Sede. Altrimenti non può funzionare.
Il separatismo come fenomeno di massa non esiste nella Cecenia di oggi. Esistono dei problemi socioeconomici legati al dopoguerra, alla ricostruzione pacifica. E come nelle altre parti del mondo questi problemi vengono strumentalizzati dal terrorismo
Il problema del radicalismo islamico. Alcuni studiosi fissano il punto di partenza di questo fondamentalismo aggressivo nel Caucaso nel 1988, quando l’Urss festeggiò in modo solenne il millennio del Battesimo della Rus’. Fu allora che si uscì dal rigido ateismo statale, ma nacque anche un sentimento di frustrazione in una parte dell’islam che sentì di avere meno riconoscimenti rispetto alla religione cristiana…
Spasskiy: Diciamo sempre che non c’è coincidenza tra islam e terrorismo, ed è vero. L’islam è una civiltà e una religione tra le più grandi del mondo, e merita tutto il dovuto rispetto, mentre il terrorismo è un’altra cosa. È un fenomeno che ha sempre accompagnato la storia dell’uomo. Potremmo anche discutere se l’uccisione di Giulio Cesare fu un atto di terrorismo o no. La Russia ha avuto a che fare con il terrorismo anche negli anni Settanta ed Ottanta del XIX secolo, e quell’esperienza ha lasciato delle tracce profonde nella nostra cultura. Ma tornando alla sua domanda, io a quei tempi ero un giovane funzionario del Ministero degli Esteri membro del Partito comunista, anche se nel mio cuore ero cristiano, e non avevo la possibilità di analizzare i fenomeni di cui parliamo, perché a quell’epoca non erano tanto pubblicizzati. Si trattava di cose che esistevano un po’ nell’ombra. Non credo che la celebrazione del Battesimo della Rus’ abbia provocato un desiderio di rinascita islamico, ma non escludo che alcuni atteggiamenti possano aver influito in questo senso.
Più semplicemente, quando il Partito comunista dell’Urss ha ammorbidito il suo controllo del Paese, sono venute alla luce e si sono affermate cose assolutamente diverse tra loro: da un lato una volontà di democrazia, di libertà, di valori umani, di rinascita religiosa da parte del popolo. Dall’altro la presenza di un radicalismo estremista che riceveva dall’estero degli appoggi fortissimi. Perché è un fatto che di solito l’estremismo cresce quando viene finanziato e strumentalizzato dall’esterno. L’ideologia di Al-Qaeda si ispira al filone più aggressivo, estremista, intollerante e disumano dell’islam. E non dobbiamo censurare questa realtà per motivi di political correctness. Bisogna impedire che i terroristi possano accreditarsi come portavoce di aspirazioni popolari. Bisogna togliergli la base socioeconomica. I giovani devono capire che un futuro è possibile, che è possibile lavorare e partecipare pacificamente alla vita del proprio Paese. E che c’è un destino migliore che morire come kamikaze indottrinati da Al-Qaeda.
Una donna tra le macerie della scuola di Beslan, dopo il terribile attentato che Spasskiy definisce l’11 settembre russo

Una donna tra le macerie della scuola di Beslan, dopo il terribile attentato che Spasskiy definisce l’11 settembre russo

Le guerre si possono anche perdere. Come potrebbe essere perduta questa guerra?
Spasskiy: La cosa peggiore sarebbe trovarci di fronte alla scelta tra la capitolazione e l’instaurazione di un regime poliziesco.
Nel durissimo discorso fatto dopo la strage in Ossezia Putin ha ricordato che la Russia è una potenza nucleare. Un problema legato per certi versi al terrorismo, ma più in generale alla sicurezza mondiale, è proprio quello delle armi di distruzione di massa. E non sembra siano stati fatti grandi passi in avanti dalla fine della guerra fredda. Anzi, oggi ci sono nuovi Paesi dotati dell’atomica. Come riprendere il cammino verso il disarmo nucleare?
Spasskiy: Non c’è una risposta semplice. Indubbiamente oltre al terrorismo il più grande problema che minaccia la comunità internazionale oggi è la proliferazione delle armi di distruzione di massa e, in un certo senso, la situazione è più complicata che ai tempi della guerra fredda dove, nella situazione di mutually assured destruction, bastava un accordo tra le due superpotenze per ridurre il pericolo di una guerra nucleare a un livello più o meno accettabile. Oggi, quando parliamo di Paesi in possesso di armi di distruzione di massa, non parliamo solo di quelli che possiedono armi nucleari da molto tempo, ma anche di quelli che sono entrati da poco nel giro dei Paesi armati con l’atomica o che lavorano per entrarci. Questo perché ancora oggi l’atomica è considerata una polizza d’assicurazione, sia a livello regionale, quindi per dissuadere o minacciare i vicini, sia a livello globale, per evitare possibili attacchi se si è finiti nell’elenco dei Paesi pericolosi stilato dagli Usa. Quindi non è realistico pensare di sederci tutti allo stesso tavolo dei negoziati e risolvere di comune accordo il problema delle armi di distruzione di massa. Secondo la dottrina militare della Federazione Russa noi potremmo usare armi nucleari solo nel caso in cui fossimo attaccati con armi di distruzione di massa o in una situazione critica per la nostra sicurezza nazionale, risultante da una massiccia aggressione con armi convenzionali. La dottrina militare Usa su questo argomento, malgrado sia più elastica, viaggia su queste nostre stesse linee. Noi in Russia abbiamo dimezzato il nostro arsenale in pochi anni, ma il fenomeno è più complesso. Se ci fosse un Paese del Terzo mondo che cercasse di arrivare alla costruzione dell’atomica, potremmo intervenire, ma con molta attenzione, e contribuire a trovare una soluzione pacifica ai motivi della crisi regionale. Inoltre possiamo cercare di attenuare la preoccupazione nei confronti degli Stati Uniti, anche se tocca a loro dimostrare che dopo l’Iraq non ci sarà una catena di interventi militari in altri Paesi, perché altrimenti tra due o tre anni avremo un incremento notevole della corsa all’arma atomica. Dobbiamo, insomma, rimuovere quei motivi che fanno nascere in un Paese l’esigenza di armarsi. È una strada lunga e complessa ma, se i Paesi che hanno una certa influenza e che godono di un certo rispetto nei rapporti internazionali si muovessero, si potrebbe vedere la luce in fondo al tunnel.
Non le nascondo il mio desiderio di vedere, durante la mia esistenza, la riconciliazione tra le due Chiese. Conseguentemente tengo tantissimo a che le cose della politica mondana non vengano usate per impedire la realizzazione di questo grande sogno
Nonostante tutto si può essere ottimisti?
Spasskiy: Non completamente, perché se è vero che il pericolo di una guerra nucleare globale non c’è più, tuttavia rimane il pericolo di un incidente nella gestione sia degli arsenali militari sia delle centrali nucleari. Inoltre il pericolo dell’impiego di armi nucleari nei conflitti regionali non è del tutto scongiurato, e dobbiamo affrontare il pericolo – un decennio fa quasi inesistente – di un attentato terroristico con armi di sterminio di massa, non necessariamente nucleari. Questo è un pericolo reale. Procurarsi bombe chimiche o biologiche è più facile, ed esse sono altrettanto letali delle bombe atomiche. Lo scenario di un attentato potrebbe essere estremamente semplice, quasi banale. Nella letteratura sull’argomento viene sempre citato un esempio allucinante: il caso di un kamikaze che si infetti con l’antrace e giri per un giorno nella metropolitana di New York causando un’epidemia con decine di migliaia di infetti. E nei prossimi anni c’è la possibilità che l’umanità debba affrontare un attentato terroristico di questo genere.
Quindi, sono problemi diversi. Certo bisogna continuare il processo di riduzione degli arsenali nucleari coinvolgendo anche le altre tradizionali potenze nucleari come Inghilterra, Francia, Cina, e dobbiamo lavorare con i Paesi che hanno esploso anche solo un ordigno nucleare per farli entrare nel regime di non proliferazione. Bisogna rafforzare le garanzie della Iaea [International Atomic Energy Agency, Agenzia internazionale per l’energia atomica, ndr] anzitutto a proposito di threshold countries. Il direttore generale dell’Agenzia Mohammed El Baradei ha delle idee interessanti in proposito. Bisogna rafforzare la sicurezza tecnica dello sviluppo del settore dell’energia nucleare. E, ovviamente, occorre prevedere tutte le misure necessarie per prevenire un attentato terroristico con armi di distruzione di massa e, nell’ipotesi che questo disgraziatamente avvenga, prevedere tutte le misure per limitare i danni.
Citavamo gli Usa. Come è lo stato attuale dei vostri rapporti?
Spasskiy: Per il loro peso reale nella politica e nell’economia mondiale, gli Usa occupano un posto molto importante tra i partner della Russia. Ma non c’è niente di strano in questo, oggi tutti i Paesi attribuiscono un’importanza particolare ai rapporti con gli Usa. E i rapporti tra noi e loro incidono molto sulla stabilità strategica nel mondo. Senza una collaborazione stretta tra i nostri due Paesi è impossibile trovare una risposta alle sfide come il terrorismo, la proliferazione delle armi di sterminio di massa, le crisi regionali. E la Russia è interessata ad una collaborazione più ampia e dinamica con gli Usa non solo nel campo strategico, ma anche in campo economico e culturale. Nonostante le nostre divergenze su un certo numero di questioni, continuiamo a lavorare molto intensamente.
Il presidente russo Vladimir Putin  con il patriarca di Mosca Alessio II

Il presidente russo Vladimir Putin con il patriarca di Mosca Alessio II

Divergenze che si sono palesate anche nella campagna dell’Iraq…
Spasskiy: Sì, è vero. Ma dobbiamo tener presente che nell’establishment politico americano convivono linee di pensiero e sentimenti diversi. Ci sono i cosiddetti neocons che, vedendo l’America come l’unica superpotenza globale, preferiscono che essa si muova in modo unilaterale. Questo approccio si è manifestato nell’azione militare americana contro l’Iraq che noi fin dall’inizio abbiamo ritenuto un grave errore. Ma non è possibile definire la politica estera statunitense come asservita all’ideologia dei neocons, perché è una cosa molto più articolata e complessa. Inoltre il fatto che nella politica americana esistano queste tendenze non significa che possiamo permetterci di lasciare che gli Usa le seguano in maniera indiscriminata. Perché la stabilità del mondo verrà danneggiata sia da una dottrina di interventismo unilaterale americano sia da una dottrina isolazionista. Noi non vorremmo che gli Usa si chiudessero costruendo una “Fortress America”.
Ma sull’Iraq non avete posto dei veti definitivi…
Spasskiy: Noi abbiamo avuto fin dall’inizio un parere negativo, ma gli Usa sono andati avanti. Cosa avremmo dovuto fare? Ritirarci offesi e aspettare che si impantanassero? Se gli Stati Uniti si cacciano in un guaio, sarà un guaio per tutti. Noi possiamo impegnarci in una politica non demagogica cercando di incidere nelle scelte degli Usa. Il fatto che è stata approvata la risoluzione 1546 dell’Onu ha significato un passo importantissimo, fondamentale per lo sviluppo della situazione in Iraq. Certo non si possono fare miracoli e non si può pensare che dopo la risoluzione dell’Onu la situazione si rappacifichi in un batter d’occhio. Dobbiamo ricostruire la stabilità nel Paese perché oggi questo è il vero problema, la stabilità e la sicurezza elementare. Non possiamo permettere che il territorio dell’Iraq diventi il magazzino del terrorismo internazionale. Questo sarebbe lo scenario peggiore da immaginare. Noi non siamo d’accordo con la linea dei nostri amici americani, ma seguiamo i loro sforzi con simpatia. E ribadiamo che ci deve essere la piena e totale sovranità dell’Iraq, che faciliterebbe anche l’intervento dell’Onu.
Come seguite la campagna delle presidenziali negli Stati Uniti?
Spasskiy: Noi sulle elezioni Usa seguiamo una regola di ferro: non commentiamo mai. Perché il nostro non è un interesse per le persone, con cui ci possono essere o no dei rapporti umani. Si tratta di un altro piano. Per noi è importante che, nonostante la campagna elettorale, continui lo sviluppo positivo dei rapporti tra i nostri Paesi, che non ci siano sorprese, che i nostri progetti in cantiere vadano avanti. Insomma, che si cammini sulla strada nella quale siamo riusciti, dopo anni, a porre i nostri rapporti. Inoltre non dobbiamo dimenticare che il periodo della campagna elettorale negli Stati Uniti è anche un periodo di fragilità del loro sistema politico. È un periodo in cui noi vicini, partner, amici degli Usa, dobbiamo stare attenti che la politica interna statunitense non incida sui loro rapporti con gli altri Paesi del mondo. Questo è lo spirito con cui, con grandissima attenzione, seguiamo questa campagna.
Sopra, Vladimir Putin, nella sua residenza 
di Sochi, tra il presidente francese Jacques Chirac e il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder ; sotto, Il presidente George W. Bush durante un incontro alla Casa Bianca con i responsabili della sicurezza nazionale e della comunicazione

Sopra, Vladimir Putin, nella sua residenza di Sochi, tra il presidente francese Jacques Chirac e il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder ; sotto, Il presidente George W. Bush durante un incontro alla Casa Bianca con i responsabili della sicurezza nazionale e della comunicazione

E lo stato dei rapporti con l’Europa? Non vi preoccupa il fatto che con l’entrata dei nuovi Paesi dell’Est, che una volta facevano parte integrante del sistema economico dell’Urss, la Ue è arrivata quasi alle porte della Russia?
Spasskiy: I nostri rapporti con l’Europa sono un’altra cosa rispetto a quelli che intratteniamo con gli Usa. Per noi l’Europa non è una terra estranea. Anzi, la Russia fa parte integrante dell’Europa. Quindi siamo interessati alla formazione di un’Unione europea forte, che potrebbe diventare un partner effettivo della Russia. Ma non nascondiamo che abbiamo i nostri interessi. Quindi non possiamo accettare che l’Ue cerchi di separarsi dalla Russia, ad esempio con il muro dei visti d’ingresso. Siamo molto preoccupati quando per l’intransigenza e l’inerzia della burocrazia non si promuovono progetti di collaborazione importanti; quando l’allargamento della Ue crea delle complicanze nei nostri rapporti con i nuovi Paesi membri. Riteniamo, infatti, che i rapporti tra Russia ed Ue non debbano essere inferiori ai rapporti bilaterali che la Russia intrattiene con i singoli Paesi membri dell’Unione, come ad esempio l’Italia. Ma siamo anche convinti che l’Ue e la Russia hanno un interesse simmetrico nella loro reciproca collaborazione. La Russia non pensa di entrare nella Ue, almeno in un prossimo futuro. Ma senza uno stretto collegamento con il nostro Paese, l’Unione non riuscirà mai ad affermarsi come un polo forte e autonomo nella politica mondiale.
Dobbiamo tenere presente che nell’establishment politico americano convivono linee di pensiero e sentimenti diversi. Ci sono i cosiddetti neocons che, vedendo l’America come l’unica superpotenza globale, preferiscono che essa si muova in modo unilaterale. Questo approccio si è manifestato nell’azione militare americana contro l’Iraq che noi fin dall’inizio abbiamo ritenuto un grave errore. Ma non è possibile definire la politica estera statunitense come asservita all’ideologia dei neocons, perché è una cosa molto più articolata e complessa
La situazione economica della Federazione Russa migliora, ma spesso vengono sollevate perplessità sullo sviluppo sociale del Paese.
Spasskiy: La rifondazione dell’economia russa è risultata una sfida molto più ardua di quello che avevamo immaginato quando furono avviate le riforme nel 1991. Negli anni Novanta l’economia si è spostata sulle rotte del libero mercato, ma il processo è stato accompagnato da una profonda differenziazione nei redditi della popolazione e da una considerevole caduta della produzione. Questa situazione va spiegata anche con una serie di gravissimi errori commessi dalla dirigenza russa dell’epoca. Ma forse è inutile fare i processi al passato. Oggi la presidenza e il governo russi considerano la crescita della competitività del Paese, anzitutto in economia, il principale compito della nazione per segnare una nuova tappa storica. Per ora una svolta decisiva non si è ancora manifestata, ma una ripresa c’è e molto promettente. Basta dire che il Pil e la produzione industriale stanno crescendo del 7 per cento all’anno.
Ma molte volte venite accusati di dipendere troppo dalla vendita delle materie prime, come petrolio e gas, e che questo crea poca occupazione…
Spasskiy: Certo che nell’ultimo periodo hanno svolto un certo ruolo anche i prezzi favorevoli di petrolio e gas. Ma questo non vuol dire che la Russia sia malata di dipendenza da petrolio. La strategia economica del nostro governo punta alla rinascita della base industriale del Paese, alla crescita delle esportazioni delle merci industriali.
Questo cambiamento di rotta ha anche portato dei pesanti scontri con alcuni settori leader nella produzione di materie prime…
Spasskiy: Gli anni Novanta ci hanno lasciato un’eredità pesantissima, che qualche volta trabocca nella nostra vita di oggi. Ma i nostri interlocutori a Occidente devono capire che è assurdo cercare di intravvedere un piano e una regia generali dietro a tutto quello che accade in Russia. Siamo un Paese normale, democratico e di mercato come voi, con l’unica differenza che, per motivi evidenti, deve affrontare problemi più complessi e pesanti.


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