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SETTIMANE SOCIALI
tratto dal n. 09 - 2004

Bologna 7-10 ottobre

Verso un nuovo Medioevo?


L’erosione della sovranità degli Stati-nazione. L’emergere dopo l’89 di nuove forme di controllo e di comando che coinvolgono vaste aree del mondo. Lorenzo Ornaghi, rettore dell’Università Cattolica, spiega: «Quell’istanza universalistica che percorreva e sosteneva la “società senza Stato” della christiana respublica torna d’attualità». Intervista


di Roberto Rotondo


Lorenzo Ornaghi

Lorenzo Ornaghi

«Il mondo va verso un nuovo Medioevo». Con questa immagine, che evocava soprattutto un contesto caotico segnato da insicurezza e violenza, un politologo inglese, Hedley Bull, alla fine degli anni Settanta, sintetizzò le linee di tendenza dell’ordine politico internazionale. Bull, che pubblicò La società anarchica nel 1977, quando ancora l’ordine internazionale era quello deciso da Yalta, intuì che qualcosa di nuovo stava emergendo: dal tramonto della sovranità esercitata esclusivamente dagli Stati nazionali, carattere tipico dell’età moderna, al mutare di forma del potere reale; dall’unificazione tecnologica del mondo al risorgere della violenza privata internazionale. Uno scenario per molti versi lungimirante, guardando a ciò che è accaduto dopo l’89, ma anche all’attuale instabilità internazionale, alla globalizzazione economica e finanziaria e a quella del terrorismo, che minaccia di colpire ovunque. Una chiave di lettura del presente, quella di Bull, che il professor Lorenzo Ornaghi, rettore dell’Università Cattolica e docente di Scienza della politica, senza mai forzare le tesi del politologo inglese, ha riscoperto e rilanciato in uno dei convegni preparatori della quarantaquattresima edizione delle Settimane sociali dei cattolici, in programma dal 7 al 10 ottobre a Bologna con il titolo “La democrazia: nuovi scenari, nuovi poteri”.

Professor Ornaghi, per Bull il tramonto della sovranità costruita ed esercitata dagli Stati non darebbe luogo all’ascesa di un governo mondiale, a una sorta di “super Stato” ma – e questo giustifica la formula del New Medievalism – a una sorta di riedizione dell’ordine politico universale esistente nell’Occidente cristiano prima dell’età moderna. Può spiegarci?
LORENZO ORNAGHI: Per Bull esiste una sorta di rapporto inverso fra l’epoca storica a cavallo tra il XII e il XIII secolo e la nostra: allora si passò da un sistema universalistico (in cui c’era una molteplicità di fonti di legittimazione, un sistema a rete di autorità locali che alla fine facevano riferimento ai due poteri principali, papato ed impero) a un nuovo sistema basato sul particolarismo delle comunità territoriali, che sarebbero diventate principati e poi Stati sovrani. È la realtà che ebbero davanti agli occhi Tommmaso d’Aquino e Marsilio da Padova. Oggi notiamo un cammino inverso, per cui gli Stati nazionali stanno cedendo parte della loro sovranità ad una molteplicità di soggetti con respiro universalistico. Infatti dobbiamo tener presente che il particolarismo dell’Europa non è mai stato il trionfo del particolarismo in sé, o delle comunità territoriali nazionali in sé, ma ha sempre avuto una vocazione universalista, altrimenti non si spiegherebbe come il sistema degli Stati europei sia diventato il sistema delle relazioni internazionale in quanto tale.
La sovranità degli Stati nazionali si sta dunque dissolvendo?
ORNAGHI: Non porrei così il problema. Il passaggio nel Medioevo da forme universali a forme particolari fu graduale e lento. Per molto tempo le forme più propriamente universalistiche e quelle particolaristiche continuarono a coesistere. Così, secondo Bull, anche adesso che procediamo in direzione opposta, siamo in una fase in cui le forme nuove di universalismo continueranno a coesistere per parecchio con quelle particolari. Non sta sparendo la sovranità propria degli Stati, ma sicuramente stanno ricomparendo forme più universali, come, ad esempio, una vecchia figura di cui avevamo un po’ perso le tracce: l’impero universale. Al di là di valutazioni ideologico-valoriali, infatti, quando parliamo di impero americano, indichiamo una vecchia realtà, quella di uno Stato, ma non solo, perché indichiamo una realtà che si espande collegandosi ad altre realtà, con rapporti talvolta di tipo clientelare, in senso positivo, simili a quelli dell’Impero romano. È una realtà che si espande con un suo sistema di valori e una sua ideologia, che si allarga con forme di controllo e di comando di tipo economico su un’area molto più vasta di quella propriamente politica. Quindi siamo di fronte a una realtà che è diversa da quella tipicamente statuale. Ma pensiamo anche al processo di integrazione europea e alla tendenza al regionalismo nel campo della politica internazionale che coinvolge vaste aree del mondo, come il Mercosur in America Latina o l’Apec in Asia. Certo questi processi non sono a senso unico. Ci sono anche fenomeni in controtendenza. Ad esempio, la dissoluzione del blocco sovietico con l’esplosione delle entità etniche non è stata accompagnata dal declino della forma Stato; anzi, si è verificata una proliferazione di nuove entità statali. Altro esempio: all’interno dell’Europa che si unifica crescono forti rivendicazioni locali e particolari. Inoltre anche le nuove forme di universalismo, il cui motore è costituito dalle organizzazioni internazionali, molto spesso entrano in confusione o magari hanno una scarsa rispondenza ai nostri desideri. Questo perché viaggiano sul crinale tra vecchio e nuovo: sono strutturate con una concezione di organizzazione internazionale di vecchio stampo, in cui i componenti possono essere solo gli Stati, ma funzionano dovendo tener conto di interessi e aspettative che non sono solo quelle dettate dai singoli governi che li compongono.
Alcuni leader mondiali durante l’incontro “Action against hunger and poverty” che si è tenuto alle Nazioni Unite il 20 settembre 2004

Alcuni leader mondiali durante l’incontro “Action against hunger and poverty” che si è tenuto alle Nazioni Unite il 20 settembre 2004

Se è fondata questa tendenza verso la struttura neomedioevale di cui ci parla Bull, qual è l’assetto politico che si va delineando?
ORNAGHI: Quello di cui parla Bull è un assetto multilaterale del mondo. Ma attenzione, perché pure questo è un caso esemplare di come le trasformazioni della politica, anche della politica internazionale, molto spesso precedono il pensiero e la nostra capacità di spiegarle. Noi, infatti, intuiamo alcune trasformazioni irreversibili o alcuni orientamenti futuri, ma siamo costretti inevitabilmente a ricorrere agli strumenti che abbiamo per spiegarli, quindi a schemi che a volte sono obsoleti. Così, quando parliamo di multilateralismo, usiamo una vecchia categoria che non coglie fino in fondo il problema. Il multilateralismo verso cui andiamo non è quello di qualche decennio fa, che si basava sull’assunto formale, e molto spesso fittizio, della parità di tutti gli Stati. Fittizio perché il più forte assicurava un ombrello di protezione agli alleati e in cambio pretendeva fedeltà e obbedienza. L’assetto multilaterale che si va delineando è diverso. In esso la partecipazione a una sicurezza complessiva, per esempio, sarà un elemento di responsabilità diretta per tanti soggetti diversi, non solo per i governi. Questi nuovi regimi internazionali – per cui è importante il ruolo degli Stati, ma in cui entrano anche Ong, chiese e gruppi di pressione provenienti dalla società civile di diversi Paesi – potranno svolgere un’azione importante in alcune specifiche aree di policy, ed è probabilmente da un loro consolidamento che potrà venire un contributo importante alla soluzione della questione dell’insicurezza globale.
Proprio il tema dell’insicurezza a livello internazionale è stato ultimamente uno dei temi più d’attualità. E uno dei temi su cui Bull si è più soffermato…
ORNAGHI: È più o meno a partire dall’89 che la questione dell’insicurezza globale ha cominciato ad affacciarsi insistentemente, alimentata da un’escalation di violenza che ha trovato nell’11 settembre 2001 la conferma più evidente, anche se, probabilmente, non un vero e proprio punto di svolta. È infatti a partire dalla rapida dissoluzione del blocco sovietico che la transizione da un sistema bipolare a un sistema unipolare ha iniziato a suggerire le immagini – forse solo all’apparenza divergenti – di una nuova potenza imperiale, di un nuovo disordine internazionale o di un imminente “scontro di civiltà” come l’ha definito Huntington. Sta di fatto che a partire dall’89, con il venir meno di uno dei due poli della contrapposizione, anche il rapporto dinamico tra la pace d’equilibrio e la pace egemonica si trova privato delle proprie basi, con il risultato che quelle organizzazioni internazionali, progettate durante la guerra fredda per limitare e regolare la conflittualità internazionale, si trovano, per un verso, incapaci di agire nel nuovo contesto e, per l’altro, oggetto di pressioni “revisioniste” da parte della nuova potenza egemone.
“Scontro di civiltà”, un’espressione molto usata... Il presidente Ciampi ha detto che andrebbe abolita.
ORNAGHI: C’è un aspetto diremmo “culturale” e di civiltà nell’affrontare seriamente il tema della pace e della sicurezza degli Stati, ma non sulla linea dello scontro tracciata da Huntington. Mi spiego: gli eventi recenti ci dimostrano che la vulnerabilità, anche psicologica, di ciascuna comunità è molto più forte che nel passato. Oggi il sistema della sicurezza è un tema che ci tocca da vicino e che diventerà sempre più rilevante nella nostra vita. Ma come viene garantita la sicurezza? Noi ci sentiamo al sicuro o quando pensiamo di essere così forti che l’altro non possa neanche tentare di recarci del male, oppure quando ipotizziamo che il sistema di regole che si va costruendo sia un sistema che verrà rispettato anche dall’altro. Per ipotizzare il rispetto delle regole occorre però che dall’altra parte ci sia una serie, quantomeno minima, di valori condivisi. In questo senso sì, c’è un aspetto “di civiltà” alla base del problema della sicurezza.
La moschea di Roma. Dice Ornaghi: «L’universalismo, la tensione ad estendersi senza schiacciare i valori degli altri, è un carattere che l’Europa ha sempre avuto dentro di sé»

La moschea di Roma. Dice Ornaghi: «L’universalismo, la tensione ad estendersi senza schiacciare i valori degli altri, è un carattere che l’Europa ha sempre avuto dentro di sé»

Dobbiamo concludere che l’unica via per andare d’accordo è esportare la democrazia come dicono alcuni? Una tesi che sta creando parecchi guai a livello internazionale…
ORNAGHI: Bisogna intendersi su cosa intendiamo per “esportare”. Chiunque segua la linea dell’universalismo si trova a chiedersi qual è l’estensione della nozione di diritto, o qual è l’estensione della nozione di cittadinanza. E si accorge che non c’è un’astratta figura di democrazia valida per tutti, come non c’è una astratta nozione di diritto valida sotto tutti i cieli e sotto ogni latitudine. Questo universalismo, questa tensione ad estendersi senza schiacciare i valori degli altri, è un carattere che l’Europa ha sempre avuto dentro di sé, avendolo ereditato dalla civiltà romana e cristiana. Ed è un contributo fondamentale per la postmodernità. È il contributo di chi, sulla base di una lunghissima storia, pensa di avere valori universali che non sono in contraddizione con i valori particolari. L’universalismo del pensiero cristiano, infatti, può contribuire molto più alla postmodernità che un astratto e generico schema tardorazionalista da cui può derivare una imposizione agli altri di un dato sistema di pensare. Perché se tutto è relativo – i miei valori come i tuoi – la pace sociale la si trova su un altro piano, quello della legge del più forte. Ma se noi siamo convinti che ci sono valori fondanti comuni, l’accordo lo troveremo sul mantenimento di questi valori, sul rispetto della diversità e sul ricercare regole comuni che garantiscano la sicurezza di tutti. Anche il politologo statunitense Amitai Etzioni ha recentemente osservato che all’origine dei molti insuccessi del tentativo di portare la democrazia nei Paesi in via di sviluppo, c’è un problema culturale di fondo. Proponendo, infatti, una concezione della democrazia interamente secolarizzata, in cui le identità religiose e le professioni di fede sono soltanto appendici marginali rispetto alla dinamica della società, l’Occidente ha finito con l’espellere una delle dimensioni costitutive della vita associata, e ha invece indicato, come possibile modello da seguire, proprio quello che, in alcuni Paesi europei, fonda sulla “sussidiarietà” la collaborazione tra enti pubblici e forme associative non statali. Il modello della “sussidiarietà” evocato da Etzioni – con la sua valorizzazione delle comunità locali e dei legami associativi – richiama (a differenza di Bull per cui il nuovo Medioevo sarebbe uno scenario fondamentalmente caotico) quell’istanza universalistica che percorreva e sosteneva la “società senza Stato” della christiana respublica.
Un timore, che emerge anche dal programma delle Settimane sociali, è che i cosiddetti poteri forti siano in grado di svuotare il concetto stesso di democrazia.
ORNAGHI: I poteri forti ci sono sempre stati. In ogni situazione c’è sempre un potere più forte dell’altro tanto che, come la vicenda umana ci insegna, il problema non è l’azzeramento del potere ma l’equilibrio, la limitazione della presenza costante dei poteri forti con l’altrettanto costante presenza di contrappesi, di regole, di poteri di altra natura, che in qualche modo li bilancino. Ma la novità di questi poteri forti, oggi, è che sono poteri di natura economico-finanziaria, che si pongono in questo sistema globale in termini radicalmente diversi rispetto a quelli del tardo Ottocento. I poteri forti della comunicazione, i poteri forti della tecnologia, sono storia già vista, ma quello che è nuovo è la loro capacità di agire su scala globale. Hanno trasversalità, una non localizzabilità, che li rende sia nella percezione che nella realtà molto più potenti e difficili da bilanciare se si resta solo su un piano particolarista. Oggi la democrazia è molto più che poter decidere chi è il custode dei processi interni di un Paese. Un sistema è democratico se fa sì che le pressioni internazionali non diventino distruzione dei processi interni e, parallelamente, se compone i processi interni facendo in modo che il loro sviluppo guardi sempre più verso l’esterno.
Nonostante la consapevolezza che esistono poteri forti su scala globale siamo però portati ad attribuire i destini del mondo alle capacità del potere politico. Specie se si tratta del presidente dell’unica potenza globale rimasta. In altre parole, il mondo va dove lo porta il presidente degli Usa o è quest’ultimo a dover scegliere in base a come va il mondo?
ORNAGHI: Difficile rispondere. La storia politica è sempre fatta da un insieme di così tanti eventi che è impossibile ricondurre tutto a una volontà e necessità sola. Anche perché il potere comporta grandi rischi pure per i poteri forti, che preferiscono molto spesso non essere così esposti come lo sono i poteri tradizionali. Il mondo dei poteri forti magari vuole vincere sul presidente degli Stati Uniti, ma non ci tiene affatto a prendersi le stesse sue responsabilità.


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