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SETTIMANE SOCIALI
tratto dal n. 09 - 2004

Bologna 7-10 ottobre

«Cantori delle diversità»


La Chiesa delineata dal Vaticano II è la società più poliarchica del mondo. E le tante voci diverse sono una ricchezza. Intervista con Giuseppe De Rita, sociologo e segretario generale del Censis


di Roberto Rotondo


Giuseppe De Rita

Giuseppe De Rita

No… la tavola rotonda no! Parafrasando la vecchia battuta di Nanni Moretti sul dibattito in Ecce Bombo, si ottiene un’immagine realistica della reazione di Giuseppe De Rita quando iniziamo ad interrogarlo sulle Settimane sociali. Il fondatore e segretario generale del Censis, cattolico, in passato ha anche fatto parte del comitato organizzatore delle Settimane sociali, e non nasconde le sue riserve. Le sue riflessioni, che sintetizza sempre in immagini nuove, hanno il vantaggio di andare subito al nocciolo del problema.

Professore, cos’è che non la convince?
GIUSEPPE DE RITA: Partirei dal fatto che quando furono riprese le Settimane sociali, credo con l’edizione di Torino, la parola d’ordine era “fare accumulazione”, cioè realizzare una grande capacità di leggere e controllare la situazione sociale, economica e politica del Paese. Oggi non è più così, anche perché le Settimane sociali del secondo ciclo hanno sempre avuto un nemico nella partecipazione interna. Non nella partecipazione della politica, ma nella coralità della Settimana sociale. Tutto si è strutturato sempre in tante tavole rotonde. Ma la tavola rotonda è nulla in termini di accumulazione culturale. Sembra che non abbiamo mai letto il Gramsci dell’“organizzazione culturale”, per il quale scegliere uno schema organizzativo significa anche scegliere l’operazione culturale che si vuole fare.
Insomma, c’è un problema di fondo…
DE RITA: Sì, mi sembra uno strumento usato molto male. E ho l’impressione che si tradisca non tanto una tradizione ma, piuttosto, un bisogno. In parte anche una tradizione, perché le vecchie Settimane sociali, quelle che furono abbandonate negli anni Sessanta e Settanta, questo senso dell’accumulazione ce l’avevano, e ruotavano spesso intorno a un’idea o a un personaggio. Ma il problema è che si tradisce il bisogno di focalizzare un tema preciso su cui il confronto sarebbe forse più duro, ma certo più utile. Anche se alla fine si concludesse che non siamo in grado di far nulla. Le faccio un esempio usando un pallino che ho da alcuni anni e a cui ho dedicato anche un libro, Il regno inerme: la crisi della politica e del modello piramidale e gerarchico, del paradigma statuale. Per me c’è l’esigenza di far crescere un nuovo modello poliarchico e, tra l’altro, la Chiesa delineata dal Concilio Vaticano II può essere una grande maestra su questa strada. Perché è una Chiesa molto più poliarchica che in passato, organizzata in maniera abbastanza decentrata, con un’architettura dei poteri molto più distribuita di quando tutto dipendeva dalla Curia romana. Se fosse per ipotesi questo il tema delle Settimane sociali, chiederei: chi è d’accordo? Chi non lo è? Ragioniamo, ma senza allontanarci dal tema. Naturalmente qualcuno potrebbe ribattere che il vero problema sono i poteri forti, la massoneria, le congreghe trasversali. Tutti quei poteri che, ormai, invadono i gangli dello Stato e rendono la partecipazione della società civile inutile, perché alla fine decidono i soliti. Sono solo esempi per dire che è il metodo che conta; se è una rassegna di temi che rimbalzano tra una tavola rotonda e un’altra, non ne usciremo mai e ci ritroveremo come al solito a parlare di sussidiarietà...
Perché, cosa c’è che non va nella parola sussidiarietà?
DE RITA: Il meccanismo di tirar fuori la parola sussidiarietà tra i cattolici è diventato una sorta di ideologia, buona in ogni occasione. Quando non sai che dire, tiri fuori il principio di sussidiarietà, orizzontale e verticale. Ma che significa sussidiarietà verticale? Devolution? Stato per le autonomie? Federalismo dal basso? E la sussidiarietà orizzontale che significa? E la figura delle formazioni sociali? Quale figura è il volontariato e l’impresa sociale? È l’impresa sociale singola o le trentamila imprese sociali della Compagnia delle opere? Oppure Confindustria, che è comunque “sociale” rispetto all’intervento dello Stato? Se la sussidiarietà orizzontale e verticale, e, peggio ancora, la solidarietà, restano sostanzialmente delle espressioni da dottrina sociale, non hanno più forza di spinta, non dicono più niente a nessuno. Dicono qualcosa solo a noi quando siamo stanchi di ragionare e allora buttiamo lì una frase facile. Ecco, i cattolici, quando sono stanchi, scrivono “sussidiarietà orizzontale e verticale” oppure “solidarietà” e sono sicuri di non sbagliare. Ma, allora, perché non dedicare una Settimana sociale anche solo per dare un contenuto a questi due concetti di sussidiarietà orizzontale e sussidiarietà verticale? Sarebbe forse una bellissima occasione per accumulare. Ma mi rendo conto che anch’io ho fallito nelle Settimane sociali che ho contribuito ad organizzare, proprio per questa ansia di dare la parola a tutti, di sentire tutti. Puoi non sentire Sant’Egidio? Ma se senti Sant’Egidio perché non senti anche l’Opus Dei? Se senti loro, perché non senti la Compagnia delle opere? E perché non senti Enzo Bianchi? Questa forma di ecumenismo interno sta livellando ogni peculiarità intellettuale e ci blocca.
La locandina della scorsa edizione della Settimana sociale svoltasi a Napoli nel 1999

La locandina della scorsa edizione della Settimana sociale svoltasi a Napoli nel 1999

Ma nell’ultimo periodo c’è stata, invece, una ricerca di convergenze tra le diverse anime del cattolicesimo italiano, non trova?
DE RITA: È stata un’estate segnata dai megaraduni, sul cui valore come strumento di aggregazione e mobilitazione del mondo cattolico io nutro forti dubbi, così come nutro dubbi su questa volontà di convergenza che ha destato entusiasmi ecclesiali e sospetti laici. Nel primo caso, perché penso che più fazzoletti sventolano meno ragionamenti circolano, nel secondo, perché io sono un cantore delle diversità in ogni campo del vivere sociale. E, anche comprimendo qualche antipatia, ho sempre pensato che nella Chiesa ci fosse posto per le più diverse esperienze. La comunità ecclesiale oggi è una comunità a tante voci, con diverse scelte di percorso, anche religioso. La comunità ecclesiale non è governabile collocando questa ricchezza in una generica voglia di stare assieme, affollando un raduno. Questa ricchezza potrà essere coordinata, specialmente quando non potrà più contare sulla figura agglutinante dell’attuale Pontefice, solo con una articolazione policentrica degli impulsi religiosi e delle risonanze umane, in un sistema distribuito di responsabilità . Anche il Vaticano II ci aveva insegnato la pazienza di contemplare le diversità culturali nell’unità della fede.
Ma la riaffermazione della diversità non si traduce in incomunicabilità all’interno del mondo cattolico e tra mondo cattolico e laico?
DE RITA: Non ho detto questo. Anzi, se noi immaginassimo la società italiana come composta da tante canne d’organo – i cattolici, i laici, i musulmani – allora sì che saremmo persi e sarebbe impossibile avere mezza idea su una società nuova in questo Paese. Sarebbe proprio un suicidio. Invece dobbiamo concentrarci su questa idea di società poliarchica, che, tradotta in politica, vuol dire abbandonare l’immagine del potere a piramide e immaginare un’arena pubblica. E a livello ecclesiale può voler dire l’attenzione a non mandare troppi missionari cattolici in Russia, per favorire la crescita della Chiesa locale, per valorizzare la singola parrocchia, il singolo vescovo. Tutte cose forse già in atto, perché la Chiesa oggi è la società più poliarchica che esiste al mondo. Rispetto all’America di Bush, rispetto all’Italia di Berlusconi, è molto più avanti. C’è anche da tener conto di un altro aspetto più valoriale della tradizione dei cattolici, che è la tradizione dell’accoglienza, la cultura del “tu”, dell’ospitalità nella multiculturalità. Che non significa solo l’impegno per i disperati che stanno su una nave a Porto Empedocle, ma un tipo di atteggiamento che, a costo di perdere attraverso l’accoglienza un po’ d’identità antica ma non sostanziale, crei una società nuova, che partecipa in maniera diversa.


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