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CULTURA
tratto dal n. 10 - 2004

Democrazia e modernità in
Augusto Del Noce
(negli scritti dal 1930 al 1946)


Proprio la teologia della grazia di Agostino e Humanisme intégral di Maritain permettono al giovane Del Noce, nella sua opposizione morale al fascismo, di valorizzare in quanto cattolico la forma moderna della libertà


di Massimo Borghesi


Augusto Del Noce

Augusto Del Noce

PREMESSA

La pubblicazione di una larga messe di inediti di Augusto Del Noce, appartenenti al periodo 1930-1945, pubblicati nella raccolta Scritti politici 1930-1950 (Rubbettino, 2000), consente oggi di rileggere, in forma nuova e approfondita, l’itinerario umano e speculativo di colui che è considerato come uno dei maggiori filosofi cattolici italiani del XX secolo. Consente in primo luogo di comprovare quanto l’autore stesso aveva, a più riprese, affermato circa la sua formazione intellettuale ed etico-politica. La sua opposizione morale al fascismo segnata dall’amicizia con Aldo Capitini, fermo testimone della “non violenza”. La sua scoperta, attraverso Jacques Maritain, della possibilità di un antifascismo “cattolico” e della positività della democrazia e della libertà dei moderni. Su quest’ultimo punto, in particolare, gli inediti, ma anche gli articoli apparsi su Il Popolo Nuovo di Torino nel 1945-1946, documentano quanta importanza avesse la nozione di democrazia nella riflessione di Del Noce, smentendo, con ciò, quanti tra i critici, nel corso degli ultimi anni, hanno lamentato l’assenza di tale tema nel suo pensiero. Una democrazia “personalista”, liberale e antitotalitaria, attenta agli equilibri sociali e ad attutire le differenze, a cui il cristianesimo dava il suo apporto rivendicando la trascendenza dell’individuo – nel suo rapporto con Dio – rispetto a qualsiasi ordine sociale e politico. Una concezione non molto dissimile da quella praticata da Alcide De Gasperi.
Il saggio che qui viene presentato costituisce il testo della relazione tenuta al Convegno su “Le radici storico-filosofiche della democrazia” (Savigliano, 30 settembre - Torino, dal 1° al 2 ottobre 2004), promosso dal Centro culturale Pier Giorgio Frassati, dalla Fondazione Centro Studi Augusto Del Noce e dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di Torino.
Jacques Maritain e Paolo VI

Jacques Maritain e Paolo VI





1. Del Noce 1936. L’opposizione morale al fascismo
Nei ricordi e nelle ricostruzioni che Del Noce ha offerto del proprio iter biografico-speculativo, il 1936, l’anno della guerra d’Etiopia, causa prossima della successiva alleanza italo-tedesca, appare come una data decisiva. «Riprendo ora in mano» scrive nel 1986 «Humanisme intégral nell’edizione originaria che posseggo sin dal lontano tempo in cui apparve, il 1936. Si tratta dunque di un libro coevo a quell’impresa di Etiopia che fu la prima delle “guerre del Duce”, e che segnò, a mio giudizio, il prologo della Seconda guerra mondiale. Perché muovo da questa coincidenza temporale? Perché per me tale impresa segnò il momento della conversione all’antifascismo»1. Una conversione inusuale, l’autore ne è consapevole, nell’atmosfera di allora. «So bene di essere, in questo, isolato, dato che parecchie grandi figure dell’antifascismo (per esempio Croce e Gaetano De Sanctis) l’approvarono; e dato che fu anche il momento di maggior consenso al fascismo di gran parte dei cattolici (per esempio Gemelli e gli allievi dell’Università Cattolica) che vi vedevano l’unione di romanità fascista e di cattolicesimo, contro nazioni europee che dalla civiltà cristiana si erano allontanate. Non voglio affatto disconoscere l’onestà di questi consensi; ma io vi scorgevo invece un fatto filosofico, l’affermazione del principio della Forza come legge della storia contro l’ideale di Giustizia, della cui difesa le nazioni avverse si trovarono investite, anche se nel loro passato lo avevano spesso disatteso»2.
Il disgusto di Del Noce verso l’impresa etiopica, quale esempio di violenza senza giustizia, era in lui acuito dall’incontro, avvenuto l’anno precedente, con Aldo Capitini. Nell’anno scolastico 1934-35 Del Noce aveva insegnato filosofia e storia presso l’Istituto magistrale Ruggero Bonghi di Assisi. Qui aveva incontrato Alberto Apponi e Capitini, espulso nel 1932 dalla Scuola Normale di Pisa, di cui era segretario, per le sue idee antifasciste. Capitini non aveva ancora pubblicato i suoi Elementi di un’esperienza religiosa, che usciranno presso Laterza ai primi del ’37, che Del Noce giudicherà come «il punto più alto dell’antifascismo italiano»3. Tuttavia era già instancabile nel diffondere tra i giovani il suo ideale di non violenza e di avversione al regime. Significativamente anch’egli, al pari di Del Noce, pone il momento critico del fascismo in relazione alla guerra d’Etiopia. «Le guerre d’Etiopia e di Spagna mostrarono a chi non l’avesse ben percepito il vero volto del fascismo e di Mussolini. Fu un periodo decisivo per molti giovani, che preparò il bisogno di una ricostruzione dalle fondamenta, anzitutto morale. Quello che pareva un successo, e trionfale, fu invece il crollo del fascismo nell’animo di molti dei giovani migliori»4. Tra essi v’era Augusto Del Noce. In un appunto personale del 21 settembre 1943 scriveva: «Principio della non violenza: Capitini, l’uomo che mi ha convertito all’antifascismo»5. Giudizio ribadito in un’intervista dell’84 nella quale ricordava essere il suo antifascismo «profondamente influenzato dall’amicizia con il pacifista Aldo Capitini»6.
Capitini e la guerra d’Etiopia: da qui inizia la travagliata riflessione etico-politica delnociana. Nel suo accedere a un antifascismo assoluto, di tipo “morale”, i cui «primi germi devono venir ricercati negli inizi della politica bellicistica ed espansionistica del fascismo»7, il disincanto matura a partire dalla fine dell’illusione che questo potesse costituire «una via attraverso cui si sarebbe realizzato qualcosa d’altro», qualcosa di ulteriore e di diverso rispetto al regime. «Che cosa doveva avvenire quando le illusioni si dissiparono e il fascismo cessò di apparire una “via per”? Sembrava restare la pura volontà di potenza di un uomo che non guidava verso nessuna finalità ideale, ma si serviva di ogni valore, religione e patria, morale e tradizione, come strumenti di un’affermazione personale […]. Dittatura, tirannide? Questi termini tradizionali servivano male a esprimere la realtà. Neppure si poteva parlare di ferocia fisica, che anzi sotto questo riguardo la dittatura era piuttosto bonaria; né di particolare persecuzione della libertà di pensiero, perché, di fatto, sia pure con qualche cautela, ognuno poteva professare in campo religioso, filosofico, letterario, artistico, le idee che voleva. Si trattava di qualcosa di peggio, di una “violazione delle anime”, perché il Duce pretendeva di esprimere l’anima del popolo e della nazione e di coinvolgere ognuno nel dinamismo della sua azione; e a tutti erano imposti, nelle guerre, dolori senza scopo, e nel sacrificio non giustificato da nulla, se non da questo spirito di dominio e di oppressione, di uomini di altre nazioni e di altra razza, delitti senza giustificazione o attenuante»8. Nella dissociazione tra interno ed esterno, tra il pensiero e l’azione, la libertà interiore era “tollerata” purché ci si adeguasse, nella realtà esterna, al regno della forza. In tal modo «ognuno era libero di professare le idee che più gli gradivano, purché le riducesse di fatto a retorica, a modi di mistificare se stesso; era tollerata soltanto, insomma, la “coscienza mistificata”. Ciò in conseguenza della degradazione delle idee a forze; quel che il fascismo affermava era un regno universale della forza, l’elevazione della violenza pura a valore»9. Di fronte ad esso maturava, in quei giovani in cui cresceva la riprovazione, un senso di impotenza che tendeva a convertirsi, con facilità, in un pessimismo storico. «È il pessimismo» scrive Del Noce nel ’73 «che accomuna oggi coloro per cui la scelta per l’antifascismo aveva coinciso con l’affermazione del primato della coscienza morale. Coloro che si formarono negli anni tra il ’30 e il ’40, quando ogni considerazione utilitaria sembrava doverli portare ad optare per l’altra parte. Coloro che crebbero nei primi anni del secondo dopoguerra, ma che preponevano anch’essi la speranza morale di un ordine giusto a una ricerca di carriera e di potere. Li accomuna quali che fossero o siano i loro ideali ultimi, che potevano essere diversi o anche opposti, ma concordavano in un punto: la priorità della giustizia rispetto alla forza»10. Tra essi Norberto Bobbio, studente, al pari di Del Noce, del liceo Massimo d’Azeglio di Torino. Nello scambio epistolare avuto con lui nell’89, pubblicato da Micromega con il titolo Dialogo sul male assoluto, Del Noce ricorderà come «una comune avversione l’abbiamo avuta fin dalla prima giovinezza, quella per il dominio della forza; anche per una forza che si presenti strumentale per un maggior bene, e in realtà non riesce mai ad essere tale»11. Bobbio, come Del Noce, ebbe come docenti al liceo Umberto Cosmo e Zino Zini. È interessante notare come ambedue, vicini al socialismo umanitario, fondassero la loro opposizione al fascismo a partire da una critica della violenza. Scrive Del Noce nel 1978: «Con Cosmo ebbi un rapporto molto assiduo e affettuoso durante gli anni ’30. Lui era sfuggito da tutti per il suo antifascismo. Facevamo quasi tutte le sere una lunga passeggiata.
La posizione politica e culturale di Cosmo era molto particolare, una sorta di socialismo umanitario, o, per meglio dire, un cristianesimo risolto in umanitarismo. Fu una figura che esercitò molto fascino su Gramsci ma anche su Tasca e su Sraffa. Lo potremmo definire l’antecedente di una linea che va sino al Capitini di Esperienze di vita religiosa»12. Oltre Cosmo v’era Zini, caratterizzato, nel ricordo di Bobbio, da «una concezione pessimistica dell’uomo e della storia, corretta da un cristiano senso di pietà per le sventure degli uomini»13. L’episodio, narrato nella sua opera Il congresso dei morti del 1921, del soldato di Lambessa che getta le armi perché cristiano, aveva fortemente colpito l’immaginazione dei giovani14. Come per Bobbio così anche per Del Noce le personalità di Cosmo e Zini concorrono alla formazione etico-politica. I docenti, compresi quelli che lo avranno all’università, sono estranei alla cultura idealistica; la retorica del regime non entra nelle aule universitarie. Il clima protettivo, proprio dell’ambito degli studi, viene meno allorché, nel 1934, pochi mesi prima che Del Noce rientrasse a Torino da Assisi, viene arrestato l’amico Leone Ginzburg. Nel maggio del ’35 è la volta di Bobbio (ammonito), di Piero Martinetti (poi rilasciato), di Augusto Monti, Franco Antonicelli, Giulio Einaudi, Cesare Pavese, Vittorio Foa, Massimo Mila. Questi fatti, unitamente all’avventura guerriera del fascismo, dovevano indurre in Del Noce il pessimismo, di cui si è parlato, destinato a durare a lungo. Un pessimismo che, grazie anche alla vicinanza con la figura di Martinetti, tendeva ad assumere venature gnostico-manichee. Un percorso peculiare questo nella misura in cui «nel ventennio tra le due guerre, si ebbe un ritrovamento della gnosi antica, in nome della non-violenza»15. Del Noce ricorderà più volte, come espressione di tale tendenza, l’opera di Julien Benda Trahison des clercs, commentata da Umberto Segre nel dicembre 1928, di fronte a lui giovane universitario16. Rispetto al «tradimento dei chierici», che dalla condanna del male erano passati alla sua giustificazione, non restava che la separazione dal mondo, la solitudine di un’élite che non prende parte, non si fa complice del mondo presente, perverso e corrotto. «La mentalità manichea è stata, negli ultimi anni del fascismo» scrive Del Noce nel 1944, «una tentazione assai forte (e ha trovato, anche filosoficamente, nelle ultime opere del Martinetti e del Rensi, i suoi interpreti). Il procedere del fascismo non poteva apparire come quello di una pura forza (non di un valore, ma contro i valori) che soltanto dall’urto con una forza più potente poteva essere arrestato? […] Ma nel ’38 in Italia la mentalità manichea era stata d’animo disperato contro il muro della maggioranza di nobili filosofi e di loro discepoli – anche mia in parte»17.
Nel dattiloscritto del ’44 Del Noce colloca sé stesso dentro una temperie dualistica fortemente pessimistica. Come ricorderà nel ’79: «Quest’opposizione tra l’etica e la violenza fu vissuta da me in maniera lacerante negli anni tra il ’30 e il ’40. La prospettiva in cui mi muovevo era eurocentrica, come quella normale degli intellettuali di allora, sia vecchi sia giovani. Abitudini intellettuali radicatissime e, quel che più importa, fondate portavano a vedere nell’Europa il punto d’arrivo, nel processo secolare della civiltà; e ora proprio questo continente era squassato da una violenza senza precedenti. Soffrii questa contraddizione in maniera esasperata in quegli anni, drammaticamente, perché le varie filosofie che avevano allora successo mi apparivano tentativi di vivere in buoni termini con essa; l’unica certezza era la certezza morale di dover testimoniare per l’etica contro la violenza (di qui la mia amicizia con Aldo Capitini). Né nascondo il fascino che esercitavano allora su di me le forme religiose improntate al dualismo gnostico»18. Tra esse un posto di primaria importanza spetta alla peculiare filosofia religiosa professata dall’antifascista Piero Martinetti. La riflessione e la testimonianza di Martinetti, che non aveva mai insegnato a Torino, gli procurarono estimatori e discepoli anche in quella città. Come scrive Bobbio: «Pur non essendo stati suoi allievi, per almeno tre di noi che frequentavamo la facoltà di Filosofia intorno al ’30, ebbe la sua parte nella nostra educazione intellettuale e morale. Mi riferisco a Ludovico Geymonat, ad Augusto Del Noce e a me stesso»19. Del Noce – lo ricorderà nel suo saggio su Martinetti nella cultura europea, italiana e piemontese – frequentò Martinetti dalla metà del 1936 alla primavera del ’41. Gli era stato presentato da Geymonat ed Ennio Carando, fucilato, quest’ultimo, durante la Resistenza, dalle Brigate nere il 5 febbraio 1945. «Che cosa portava a cercare l’amicizia di Martinetti e a sentire la minima espressione della sua simpatia e della sua stima come più preziosa di qualsiasi docenza? Ragioni, in primo luogo, di ordine etico-politico, in quel momento storico, dalla guerra di Etiopia alla guerra mondiale, in cui si era passati dalla distinzione di morale e politica alla loro completa opposizione, e la situazione era tale da suggerire che la rottura tra ciò che è vitale e ciò che è morale manifestasse un fondamento ontologico»20. Non si tratta di una testimonianza isolata. Rievocando la figura di un altro “pessimista”, Giuseppe Rensi, cui dedicherà uno splendido saggio, Del Noce chiarirà di non averlo conosciuto di persona, bensì di averlo incontrato idealmente «negli anni tra il ’38 e il ’41, a motivo della situazione di allora, che sembrava manifestare la sopraffazione del vitale sullo spirituale, e suggerire, a rifugio contro la dissociazione di forza e di giustizia, il richiamo a un tipo dualistico di religiosità»21. Per lui, cattolico, questo richiamo aveva le suggestioni di una «tentazione»22. L’attrattiva esercitata dal dualismo metafisico-religioso, da quello martinettiano in particolare, «fortissimo nel quinquennio ’36-41, ed esprimentesi in tentativi, rimasti per fortuna inediti e segreti, di conciliarlo col cattolicesimo»23, doveva acuire il pessimismo sino all’angoscia. Del Noce doveva uscire da questa crisi, la più grave ma non l’unica della sua vita24, grazie ad alcuni incontri, ideali ed affettivi, con l’opera di Leone Chestov, del Maritain politico, con la figura di Franco Rodano. Il precipitare degli avvenimenti storici contribuiva, d’altra parte, a rompere il senso d’impotenza. L’opposizione morale al fascismo poteva ora assumere forma politica e il cattolicesimo, abbandonato il dualismo e l’“anistoricità” cartesiana, poteva farsi lievito della libertà e della democrazia. La mentalità manichea – dichiara Del Noce nel ’44 – «non è più la mia»25. Partito dalla non violenza e dal disgusto verso la volontà di potenza del regime, Del Noce, in un iter biografico che spiega la grande stima verso la figura di Simone Weil, veniva scoprendo, in concomitanza con tanti giovani della sua generazione, la positività dell’impegno storico e il valore del metodo democratico nel limitare gli effetti nefasti della forza e del potere di assoggettamento.

2. LA “DUPLICITÀ” DELNOCIANA: LA TESI DI DELL’ERA
Questo quadro, corrispondente alla ricostruzione che Del Noce, a più riprese, ha offerto della sua adesione all’antifascismo e alla democrazia, è stato in anni recenti posto in discussione dallo studio di Tommaso Dell’Era Augusto Del Noce. Filosofo della politica, edito nel 2000. In esso l’autore offre una sua personale rilettura dello sviluppo etico-politico delnociano contraddicente, su più punti, quello del filosofo. La data decisiva diviene qui il 1943, l’anno in cui si avrebbe, da parte di Del Noce, il superamento della dissociazione tra filosofia e storia e l’abbandono di persistenti simpatie per il regime mussoliniano. Egli scrive: «Con la svolta del 1943, preparata negli anni immediatamente precedenti, si ha il superamento dell’illusione profascista e della dissociazione»26. Dell’Era è quindi persuaso che Del Noce sino al 1943 sia rimasto, sostanzialmente, su posizioni filofasciste, pur manifestando, interiormente, elementi di riserva morale verso la politica spregiudicata del Duce. «Con tale interpretazione si viene però a creare una contraddizione tra i testi e la successiva ricostruzione delnociana: infatti bisogna ritenere che l’impressione della guerra d’Etiopia sul filosofo non fu poi così negativa»27. Perno di tale rivisitazione della memoria delnociana sono due inediti, pubblicati dall’autore nel volume da lui curato di Scritti politici 1930-1950 di Del Noce e datati al 1937-1938: il primo dedicato ai Patti lateranensi e il secondo alla concezione del totalitarismo secondo la dottrina fascista. Da essi, secondo Dell’Era, si può dedurre una convinta adesione del giovane filosofo alla politica del regime, finanche nel suo aspetto di Stato etico e totalitario28. Si tratta di una conclusione sorprendente che rimette in discussione la stessa tesi di fondo di Dell’Era: quella per cui Del Noce fino al ’43 sarebbe costantemente diviso tra pensieri privati e atteggiamento pubblico. Tesi correlativa a quella secondo cui il fascismo sarebbe considerato dal filosofo


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