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PAPI
tratto dal n. 10 - 2004

L’umanità di Paolo VI


Montini era un papa semplice, umano, nella vita d’ogni giorno e nell’incontro con le folle, nella solitudine quotidiana, nei frequenti contatti con i collaboratori e nei momenti delle scelte più impegnative


dell’arcivescovo Romeo Panciroli


Paolo VI saluta la folla esultante in occasione della sua visita alla parrocchia romana Madonna di Lourdes a Tormarancia il 24 febbraio 1964

Paolo VI saluta la folla esultante in occasione della sua visita alla parrocchia romana Madonna di Lourdes a Tormarancia il 24 febbraio 1964

Il Vangelo è sempre risposta e luce per i problemi umani d’ogni giorno, e uno di essi è proprio costituito dall’eccessiva disparità tra poveri e ricchi che nella vita e nella società si riscontra in situazioni ben concrete.
Noi cristiani non possiamo essere spettatori neutrali della povertà e della miseria altrui, perché, come leggiamo nella costituzione conciliare Gaudium et spes, «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».
Il credente d’oggi deve schierarsi dichiaratamente per la giustizia sociale, come ci hanno insegnato Gesù Cristo, poi gli apostoli e infine i sommi pontefici nelle loro memorabili encicliche, fino alla Populorum progressio di Paolo VI, a favore dei popoli in via di sviluppo: un documento di particolare importanza, perché inserito in modo diretto nel vivo dei più scottanti problemi del mondo, che propone una nuova concezione di carità universale per regolare i rapporti fra i popoli dell’opulenza e quelli della fame, al fine di realizzare uno sviluppo integrale dell’uomo.
Paolo VI era consapevole che la missione propria della Chiesa, secondo la stessa costituzione Gaudium et spes, è di ordine spirituale; ma era anche ben consapevole dei vincoli che, proprio in forza della sua missione religiosa, rendono la Chiesa realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.
Papa Montini, che volentieri ricordiamo in questo 107° anniversario della nascita, conosceva bene i problemi del mondo perché con il mondo era in continuo contatto. «Nessuno manchi di pane e di dignità» aveva detto prima del suo viaggio in India «e tutti abbiano come supremo interesse il bene comune».
Questi sentimenti saranno concretizzati durante il suo pontificato in numerosi piccoli e grandi gesti tra cui, prima di tutti, il dono ai poveri della tiara, donatagli dalla diocesi di Milano, per ricordare a tutti che la Chiesa, seguendo l’esempio di Cristo e in armonia con il Concilio, è sempre stata madre dei poveri. Non erano gesti improvvisati, ma l’espressione di una sua particolare sensibilità verso i poveri, in piena conformità agli insegnamenti del Vangelo.
«Prima della nostra chiamata al supremo pontificato», aveva scritto nella Populorum progressio «due viaggi, nell’America Latina e in Africa, ci avevano messo a contatto immediato con lancinanti problemi che attanagliano continenti pieni di vita e di speranza. Rivestiti della paternità universale abbiamo potuto, nel corso di nuovi viaggi… vedere con i nostri occhi e quasi toccar con mano le gravissime difficoltà» di tante popolazioni.
Non solo i viaggi. Ogni giorno arrivavano nel suo studio borse colme di documenti, rapporti provenienti dalle rappresentanze pontificie, rassegne stampa da ogni parte del mondo, numerosa corrispondenza, riassunti di pratiche, lettere ufficiali, progetti di messaggi.
Paolo VI leggeva tutto con cura. Di tutto si rendeva conto con meticolosità in un diuturno lavoro che spesso durava fin oltre l’una di notte, quando, prima del riposo, passava nella cappella per un ultimo saluto al Signore al quale aveva già dedicato il primo spazio della giornata, nell’«udienza con Dio». Egli aveva bisogno di trovarsi solo con Lui, di ascoltarlo lungamente prima di parlare agli uomini, in forza del suo ministero che lo porterà a dare udienza a tanta gente, di tutto il mondo.
Cogliamo l’occasione di quest’anniversario per scrutare più da vicino la complessa personalità di questo Servo di Dio che ci ha lasciato tanti insegnamenti e grandi esempi, convinti che il tempo ne esalterà sempre più la figura e l’opera.
Oggi tutti riconoscono la lucida intelligenza con cui guidò e portò a compimento il Concilio e la sofferta saggezza con cui resse la Chiesa nel tormentato periodo del postconcilio. Certe sue coraggiose decisioni, che segnarono punti fermi e che allora per alcuni sembrarono “chiusure”, in seguito per tanti aspetti furono giudicate profetiche.
Un esempio su tutti, il suo richiamo, ora attualissimo, alle radici cristiane dell’Europa: «È certo che tutta l’Europa attinge dal patrimonio tradizionale della religione di Cristo la superiorità del suo costume giuridico, la nobiltà delle grandi idee del suo umanesimo e la ricchezza dei principi distintivi e vivificanti della sua civiltà. Quel giorno che l’Europa ripudiasse questo suo fondamentale patrimonio ideologico, cesserebbe di essere sé stessa».
Paolo VI con i campesinos colombiani, Bogotá il 23 agosto 1968

Paolo VI con i campesinos colombiani, Bogotá il 23 agosto 1968

Paolo VI era un papa semplice, umano, nella vita d’ogni giorno e nell’incontro con le folle, nella solitudine quotidiana, nei frequenti contatti con i collaboratori e nei momenti delle scelte più impegnative; fedele a sé stesso e alla sua missione.
Attorno alla sua persona ha voluto un’atmosfera di semplicità. Ha fatto arredare il suo appartamento in stile semplice e senza sfarzo; il suo studio, la sua biblioteca, le sale dove riceveva avevano l’addobbo richiesto dal buon gusto e dal significato della sua missione. Tutto all’insegna di uno stile sobrio, a misura d’uomo, che egli ha instaurato e consolidato.
L’umanità di Paolo VI traspariva soprattutto nel suo rapporto con la gente: con i singoli e con le folle, con i giovani e con gli adulti, con i grandi e i potenti di questo mondo, e con i suoi fratelli nell’episcopato.
Qualcuno lo definì freddo e distaccato, e forse vi fu nei suoi confronti un’avarizia di amore, anche da parte di molti cristiani che non seppero scoprire il tesoro racchiuso in quella persona apparentemente così fragile. Il suo assorto carattere non favoriva certo la facile fiorettistica, ma la sua umanità era sempre qualcosa di disarmante che conquistava. Ogni incontro con lui, anche breve, era un’esperienza che lasciava traccia.
Si presentava con discrezione, quasi inavvertitamente, ma allo sguardo acuto dei suoi occhi grigio-azzurri, mobilissimi ed espressivi, nulla sfuggiva, intento com’era a penetrare nell’intimo del suo interlocutore. Non era esplosivo, ma suasivo; incoraggiava con parole fatte apposta, parole che ti risuonavano poi dentro per lungo tempo.
La sua paternità e la sua capacità di parola scaturivano dalla sua idoneità all’ascolto e dalla sua intuizione. Tutto in lui era sensibilità e partecipazione: il suo modo di ascoltare, di capire, di percepire, di tacere, di parlare. Aveva propensione all’accoglienza e nulla lo trovava estraneo o impreparato, sorvolando spesso sulle formalità per rendere più cordiale ogni suo incontro con gli altri.
Le folle sentivano questa sua umanità comunicativa e accorrevano a lui sempre numerose. Basti pensare agli incontri dell’Anno Santo 1975, a quelli durante le visite a Roma e ai viaggi fuori di Roma, dove veniva festosamente accolto e acclamato da tante migliaia di persone esultanti e avide di ascoltarlo.
Egli si trova a pieno agio tra i fedeli, cerca l’incontro, e per accoglierli ha creato apposta una casa spaziosa, l’attuale Aula Paolo VI. È il luogo dove con loro prega, ascolta, insegna, incoraggia, richiama, dove egli dona la sua parola e spende le sue energie. Ciascuno lo sente vicino e lo capisce, anche i non cattolici e i non credenti; gli stessi fratelli separati, davanti a lui dimenticano spesso il “peso” del primato, in una comunione che non li esclude.
Alcuni lo accusarono di parlare difficile, ed egli cercava di sforzarsi, perché non sempre è facile spiegare il cristianesimo; faceva di tutto per farsi capire, perché predicare era la sua missione: «Vedete, sto sempre predicando...». Spesso parlando liberamente, senza seguire gli appunti, si trovava a usare un po’ l’“io” e un po’ il “noi”, naturalmente incline a sentirsi tra gli altri, come uno di loro, per portare solo gioia e amore. Infatti, Giovanni Paolo I disse di lui: «Egli è un maestro della fede perché sa presentare la rivelazione di Dio in modo attraente».
Vero annunciatore della Parola, pienamente compreso del suo mandato; ma quanta umiltà nel suo comportamento quotidiano, in tutti i suoi gesti. Egli trovò l’occasione per dire apertamente con grande convinzione: «Chi vi annuncia questo? Un pover’uomo, un fenomeno di piccolezza. Io tremo, fratelli e figli, tremo nel parlare, perché sento di dire qualcosa che immensamente mi supera, delle cose che io non ho abbastanza testimoniato e servito, delle cose che meriterebbero davvero una voce profetica, sento la mia piccolezza e la sproporzione schiacciante tra il Messaggio che annuncio e la mia capacità di esporlo e anche di viverlo».
Nel suo governo di pastore universale ha scelto il dialogo e la persuasione come via maestra, dedicando a questo tema la sua prima e programmatica enciclica Ecclesiam Suam: «Noi» vi si legge «abbiamo sempre presente questo ineffabile e realissimo rapporto dialogico, offerto e stabilito con noi da Dio Padre, mediante Cristo, nello Spirito Santo, per comprendere quale rapporto noi, cioè la Chiesa, dobbiamo cercare di instaurare e di promuovere con l’umanità».
Ha curato soprattutto la comunione con i vescovi. Dopo aver vissuto con loro la comunione del Concilio, li accoglieva in consultazione periodica nel Sinodo, è andato persino ad ascoltarli nelle loro conferenze continentali, in America Latina, in Asia, in Oceania. Anche dell’anello episcopale, donato a tanti vescovi, e che molti di noi portano ancora, ha fatto un vincolo di comunione, offrendo un modello a struttura semplice, più simbolo che decorazione. Si sente unito a loro e lo manifesta in ogni occasione, ascoltandoli con attenzione e celebrando insieme l’Eucaristia, il segno dell’unità. «Uniti affinché il mondo creda» dirà ai vescovi, al clero e ai fedeli dei riti orientali cattolici riuniti nella Basilica di Sant’Anna a Gerusalemme.
Si è fatto animatore di comunione fra tutto il popolo di Dio. Ha visitato le parrocchie della sua diocesi romana, incontrando sempre i suoi sacerdoti, le comunità religiose e le assemblee dei suoi fedeli, «per rendere i cattolici» diceva «uomini veramente buoni, uomini saggi, uomini liberi, uomini sereni e forti».
Paolo VI saluta un povero infermo, ospite del Patriarcato latino di Gerusalemme, durante il suo viaggio in Terra Santa tra il 4 e il 6 gennaio 1964

Paolo VI saluta un povero infermo, ospite del Patriarcato latino di Gerusalemme, durante il suo viaggio in Terra Santa tra il 4 e il 6 gennaio 1964

Paolo VI ama il mondo nel quale Gesù Cristo l’ha chiamato a reggere la Chiesa. È stato lui il primo papa che ha portato la Chiesa in mezzo al mondo, in tutto il mondo, autodefinendosi e firmandosi “Viator Christi”.
Ha raggiunto, con un programma ben preciso e mirato, città e nazioni lontane dalla sua sede per animare con la sua presenza ricorrenze significative. Ovunque è stato portatore di calore umano e di comunione ecclesiale. Se ogni vescovo, ogni parroco e ogni cristiano avessero fatto, in proporzione, quanto lui ha compiuto come animazione e rinnovamento, la Chiesa sarebbe oggi molto più avanti nel suo cammino.
Paolo VI era un uomo di notevole coraggio che sembrerebbe temerario se non derivasse dalla sua fede incrollabile e da quello Spirito di Dio di cui era ripieno: «Fra tutte le esperienze che la vita umana può avere, la più bella, la più ricca di promesse e consolazionì, è proprio quella di possedere lo Spirito di Dio».
Coraggio di andare avanti nella missione pastorale, di cui è stato investito, e nell’opera del rinnovamento conciliare. Coraggiosa la sua presa di posizione in difesa della vita con l’enciclica Humanae vitae, coraggiosa anche una sua dichiarazione conciliare, Dignitatis humanae, sulla libertà religiosa, della quale si è parlato molto in questi giorni al colloquio internazionale promosso dall’Istituto Paolo VI; audace infine e commovente la professione di fede, il Credo del popolo di Dio, proclamata con tanto vigore in piazza San Pietro al termine dell’Anno della fede.
E sono ancora fortemente impresse nel nostro animo la sua lettera alle Brigate rosse e le parole pronunciate al funerale del suo amico Aldo Moro: «E chi può ascoltare il nostro lamento se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica... per la sua incolumità».
Denso d’umiltà e fierezza anche il discorso pronunciato nell’incontro al Consiglio ecumenico delle Chiese a Ginevra: «Il nostro nome è Pietro. Pietro è pescatore di uomini, Pietro è pastore... E il nome che noi abbiamo scelto, quello di Paolo, indica abbastanza l’orientamento che noi abbiamo voluto dare al nostro ministero apostolico».
Forte e coraggioso l’inizio della sua omelia a Manila il 29 novembre 1970, in un grande parco alla periferia di quella capitale, davanti a una folla immensa composta soprattutto di giovani agricoltori e pescatori; con tanta forza e convinzione così si espresse: «Io, Paolo, successore di san Pietro, incaricato della missione pastorale per tutta la Chiesa, non sarei mai venuto da Roma fino a questo Paese estremamente lontano, se non fossi fermamente convinto di due cose fondamentali: la prima di Cristo, la seconda della vostra salvezza. Convinto di Cristo; sì io sento la necessità di annunciarlo, non posso tacerlo, guai a me se non proclamassi il Vangelo. Per questo io sono mandato da Lui, da Cristo stesso. Io sono un apostolo, io sono un testimone».
E perché era “mandato”, ha avuto il coraggio di dire diversi no, per alcuni dei quali ha dovuto subire il rigetto di grosse porzioni dell’opinione pubblica, ma la cui portata positiva potrà essere giudicata adeguatamente dalla storia. No alla contraccezione indiscriminata, no al divorzio e all’aborto, no alla violazione dei diritti dell’uomo, no alle guerre, no al matrimonio dei sacerdoti (nella Chiesa latina), no al sacerdozio delle donne, no alle spinte disgregatrici all’interno della Chiesa.
Durante il suo viaggio in India era stato informato che il Parlamento italiano aveva approvato la legge sulla possibilità del divorzio; al suo ritorno, con delicatezza ma con fermezza, ha immediatamente e pubblicamente stigmatizzato l’avvenimento «che per molti motivi» disse testualmente, «per l’amore specialmente che portiamo al popolo italiano, noi reputiamo infelice».
Era un uomo dall’inesauribile pazienza e sapeva bene che il vero pastore, prima di separare dalla comunione anche l’ultimo dei suoi fratelli, deve cercare ogni altra via possibile. Pazienza nel sopportare attacchi alla sua persona, pazienza nel chiarire dubbi, nell’offrire motivi di riflessione, nel creare spunti di dialogo specialmente in quei casi nei quali i suoi interventi erano interpretati in chiave politica.
Per la sua “troppa” pazienza, che spesso era lungimiranza, era stato definito “amletico”, incerto. Tuttavia egli stesso ci tenne a precisare: «Mi capita spesso di leggere che sono indeciso, inquieto, timoroso, incerto tra influenze contrastanti. Forse sono lento, ma so ciò che voglio. Dopotutto è nel mio diritto riflettere»; e in un’altra occasione: «Le questioni scottanti sono anche questioni complesse. Onestà vuole che non vengano trattate affrettatamente. Dobbiamo rispettare la complessità».
Forse pochi papi si sono trovati in situazioni storiche così complicate, quando i mutamenti sociali e in campo religioso hanno assunto ritmi vorticosi. Aveva ereditato un Concilio in corso, uno stato di fermento in tutta la Chiesa. A Paolo VI, mirabilmente preparato dalla Provvidenza, è toccato questo compito di riorganizzare e riformare, di conciliare l’incalzare delle idee audaci, di tener testa tanto ai fanatici quanto agli allergici delle strutture.
Ha dovuto presiedere, nella carità, all’inserimento nella vita della Chiesa delle opposte tensioni di slanci in avanti e di forze frenanti; la conferma è evidente se si guarda la sua opera complessivamente, nell’intero arco dei quindici anni di pontificato. Nelle sue decisioni pazienti, soppesate, spesso innovatrici, sono evidenti una coerenza e una linearità incontestabili.
Paolo VI con il suo segretario monsignor Pasquale Macchi passeggia nei Giardini vaticani

Paolo VI con il suo segretario monsignor Pasquale Macchi passeggia nei Giardini vaticani

È stato il costruttore della Chiesa del futuro: Chiesa semplice, fraterna, di comunione; sacramento di salvezza, le cui principali forze nel mondo dovranno essere la parola di Dio, l’Eucaristia, i sacramenti, le comunità vive con i loro pastori, uniti al supremo pastore. Chiesa che egli ha ricondotto a dimensioni più umane, accessibili, fraterne, quasi immagine della sua indole fatta di semplicità e di dialogo; Chiesa che egli ama, è la sua Chiesa, Cristo gliel’ha affidata perché la custodisca come pastore supremo.
«La Chiesa è il nostro amore costante» ha affermato, «la nostra sollecitudine primordiale, il nostro pensiero fisso; il primo e principale filo conduttore del nostro umile pontificato».
È il Papa del rinnovamento della Chiesa nella linea del Concilio, cammino che percorre con decisione, adagio fino a che non è del tutto sicuro; ma resta poi fermo e irremovibile una volta che ha deciso. Appassionato tanto ai valori del passato quanto alle prospettive del futuro, egli soffre per ogni scelta con tutta l’adesione della sua umanità investita da un compito immane che il mondo non sempre può capire.
Di ritorno dalla sua visita pastorale in India esclamerà in piazza San Pietro ai fedeli romani che l’attendevano entusiasti: «Grande cosa è la Chiesa, realtà e mistero al tempo stesso. Noi abbiamo ancora una volta capito, in modo chiarissimo, come essa sia fatta per il mondo, anche per il mondo d’oggi».
E così ci ha anche insegnato come si ama la Chiesa e come si ascolta la parola di Dio, maestro d’amore all’uomo e alla Chiesa, un maestro che non ha chiuso l’orecchio alle grida dell’umanità, perché egli vive, assume, partecipa a tutte le ansie del mondo.
«Il nostro cuore» ha affermato «è come un sismografo nel quale si ripercuotono tutte le vibrazioni della umana passione». Sa soffrire con chi piange e sa gioire quando è l’ora, impersonando le angosce del mondo d’oggi e le certezze gioiose del cristiano che crede e spera in Gesù Cristo risorto.
Di continuo la sua missione apostolica lo fa sentire vicino ai problemi dei poveri, dei bisognosi, dei colpiti da calamità naturali e sociali, ricordandoci «che il nostro prossimo, quello che dobbiamo amare come noi stessi, non è solamente il nostro fratello cristiano».
Dove è arrivato di persona, ha voluto sempre incontrare i poveri e i malati, rendersi conto delle loro condizioni, portare una parola di conforto e un soccorso materiale, parlare e pregare con loro. In Palestina, in India, a Fatima, in Turchia, in Colombia, in Uganda, in Polinesia, in Bangladesh, nelle Filippine, in Indonesia, nello Sri Lanka; di ritorno dal suo viaggio in America Latina affermò di aver visto, nelle sterminate e devote moltitudini andate ad incontrarlo, «il riflesso dell’amore del Signore sulla povertà».
Paolo VI in preghiera davanti alla grotta della Vergine di Lourdes nei Giardini vaticani

Paolo VI in preghiera davanti alla grotta della Vergine di Lourdes nei Giardini vaticani

Ovunque e sempre ai poveri annuncia la beatitudine della povertà, tuttavia a chi di competenza denuncia le colpe dell’ingiustizia. Quando le sofferenze dipendono dall’uomo e dalle oppressioni, non ha paura di denunciarlo coraggiosamente, come nella citata enciclica Populorum progressio in cui riveste una tremenda attualità quanto è affermato: «Si danno delle situazioni la cui ingiustizia grida verso il cielo. Quando popolazioni intere, sprovviste del necessario, vivono in uno stato di dipendenza tale da impedir loro qualsiasi iniziativa e responsabilità, e anche ogni possibilità di promozione culturale e di partecipazione alla vita sociale e politica, grande è la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie alla dignità umana» (n.30).
L’amore per gli uomini lo rendeva instancabile nelle iniziative per la giustizia e il progresso; dell’uomo si sente difensore e fratello in nome dello stesso mandato di Cristo, ricordando a tutti che la soluzione dei problemi grandi e piccoli dell’umanità è l’amore, «non l’amore debole e retorico» diceva «ma quello che Cristo nell’Eucaristia c’insegna, l’amore che si dà, l’amore che si moltiplica, l’amore che si sacrifica»; e ancora: «Cristo vinca le nostre resistenze umane e faccia di ciascuno di noi un testimone credibile del suo amore».
Nonostante le sofferenze dell’umanità e sue personali, Paolo VI, nei gesti e nelle parole, aveva una carica umana che lo rendeva vivo e pieno di speranza. Un Papa ottimista quindi, tanto ottimista che è giunto persino, nella Pentecoste del 1975, a lanciare al mondo la sfida della gioia: per la prima volta un sommo pontefice ha emanato un documento sulla gioia, un’esplicita interpretazione positiva della vita e della storia, perché il cristianesimo è gioia, perché Cristo risorto è la nostra gioia e Lui soltanto la nostra salvezza.
Giovanni Paolo II ha affermato recentemente: «Recava nel suo cuore la luce del Tabor, e con quella luce camminò sino alla fine, portando con gaudio evangelico la sua croce».


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