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ITALIA
tratto dal n. 09 - 2002

L’integrazione dei lavoratori extracomunitari nel Veneto

Sentirsi a casa nel Nordest


Il numero degli immigrati inseriti nel mercato del lavoro continua ad aumentare. Ma molti problemi restano.Come le difficoltà nel trovare un luogo dignitoso dove abitare con la propria famiglia


di Eugenio Andreatta


Una foto di immigrati regolari al lavoro in un’azienda meccanica del  Nordest

Una foto di immigrati regolari al lavoro in un’azienda meccanica del Nordest

Una manna per le redazioni di quotidiani e tv, alle prese con il consueto buco di notizie di fine agosto. Dieci famiglie di immigrati che occupano il duomo di Treviso, l’intervento del vescovo che abbraccia i bambini alla fine della messa domenicale, i centri sociali che soffiano sulla brace, gli skinhead che prendono gli immigrati a bottigliate e infine il sindaco leghista che esterna alle telecamere i suoi timori che si annacqui la “razza Piave”, provocando i fulmini dell’Osservatore Romano. Troppa grazia. Un quadretto da “profondo Veneto” con cui riempire pagine e pagine. Poi interviene la mediazione della diocesi e degli industriali, gli appartamenti per le famiglie si trovano, gli striscioni vengono ripiegati e tutto torna nel silenzio.
«Come sempre. Una volta spenti i riflettori sull’ennesima emergenza, magari un po’ più clamorosa delle altre, i problemi restano». Don Bruno Baratto, di immigrazione ne sa qualcosa: è il responsabile del settore immigrati della Caritas tarvisina. Secondo la Caritas sono 37mila gli immigrati regolari nella provincia, 40mila gli effettivi. Cresciuti in un solo anno del 18,5%. In Veneto si valuta che le presenze siano 170mila, terza regione italiana dopo Lombardia e Lazio, 80mila i regolarmente iscritti nel mercato del lavoro. Cifre in costante aumento. Provengono dall’Europa dell’est, in prevalenza ex Iugoslavia e Albania, dall’Africa, soprattutto Marocco e Senegal, dall’Asia, con prevalenza di filippini e cinesi, questi ultimi sempre più numerosi. Per gli industriali e gli imprenditori agricoli sono la nuova manodopera, quella che svolge i lavori che i giovani veneti non vogliono fare.
Un’ondata in forte crescita, estremamente dinamica e difficile da schematizzare. Ne è convinto Carlo Melegari, direttore del Cestim, Centro studi sull’immigrazione di Verona. «Il fenomeno non ha successione di fasi, si propongono in contemporanea diverse tipologie di presenze. Alcuni immigrati risiedono in Veneto ormai da quindici anni, vivono con i familiari e hanno un progetto di permanenza di lunga durata. Di altri io dico che sono qui da quindici volte un anno, in una condizione schizofrenica di eterna incertezza. Trovi chi è arrivato da poco e possiede solo le parole della sopravvivenza e chi invece ha investito sulla lingua come strumento di integrazione per sé e i propri figli. C’è l’immigrato che salta da un’occupazione stagionale all’altra, confezionando pandori piuttosto che vendemmiando, e chi da anni ha un lavoro regolare». Una presenza molto variegata. «Si può stimare un 10-15% circa di immigrati con forti difficoltà ad uscire da una situazione marginale, mentre il 30-40% si trova nelle prime fasi di integrazione. I rimanenti sono già almeno in parte integrati. I più, in regola o no, hanno un reddito da lavoro che consente di procedere verso una buona integrazione».
E nella Chiesa veneta, che tipo di appoggio trovano gli stranieri? «Cerchiamo di mettere in atto alcuni segni di accoglienza», risponde don Baratto. Una parola a cui tiene molto, “segni”, perché indica da una parte la disponibilità della diocesi, dall’altra il senso delle proporzioni. «Nessuno ha la forza di rispondere da solo alle esigenze poste dall’immigrazione. Chiesa, industriali, prefettura, comuni devono lavorare insieme». Quando si tratta di collaborare, però, l’intesa non è automatica. «I consigli territoriali potevano essere una buona opportunità, ma non hanno avuto molto seguito». Per cui spesso la Chiesa si trova ad operare in prima persona, senza aspettare l’aiuto delle istituzioni o del mondo produttivo.
Tante realtà di aiuto agli immigrati in Veneto sono partite proprio così, rimboccandosi le maniche nel vuoto delle risposte istituzionali. È il caso del già citato Cestim di Verona, nato da ambienti Cisl negli anni Novanta, promotore di un centro studi di notevole livello (il sito internet www.cestim.it è un sussidio prezioso per chiunque voglia capire qualcosa di immigrazione). Rilevanti anche le iniziative nel campo della salute, tra cui il Cesaim, Centro salute immigrati, che raccoglie e organizza il volontariato di cinquanta medici di base e specialisti, con un ambulatorio in cui dal ’94 sono state effettuate 30mila visite. Ma è soprattutto nell’accoglienza che gli operatori veronesi danno risposte rilevanti: «Abbiamo gestito una quarantina di alloggi, alcuni in proprietà, altri acquistati con operazioni che comportavano un grande coinvolgimento di italiani e di stranieri con varie formule», dice Melegari. «In questo modo in dieci anni abbiamo dato ospitalità a più di cinquecento senzatetto, per una permanenza media di due anni e mezzo e con un numero di giornate alloggio che ha superato le 550mila».
In questa regione che vanta un’occupazione piena e servizi sanitari efficienti, il nervo scoperto è proprio la questione casa. Ne sanno qualcosa gli industriali. «Ci chiedono di risolvere i problemi della casa dei nostri dipendenti che vengono dall’estero, fingendo di non sapere che da noi lavora appena un terzo degli immigrati presenti nel territorio. E l’ente pubblico cosa fa?», dice il presidente di Unindustria Treviso, Sergio Bellato. «Ad ogni modo non siamo rimasti con le mani in mano. Abbiamo favorito la locazione di appartamenti privati sfitti, ricavando trecento posti-letto. Abbiamo chiuso accordi con i comuni attraverso la nostra società immobiliare, abbiamo aperto sportelli. Un sondaggio condotto tra i nostri associati dimostra che la metà del campione ha aiutato i propri dipendenti a trovare un alloggio».
Un’iperattività non esente da rischi. «La Regione ha favorito la creazione di foresterie all’interno delle aziende, venendo incontro alle richieste degli industriali. Ma che il datore di lavoro coincida con il padrone di casa non è certo la situazione ottimale». Parere di Iles Braghetto, consigliere regionale Cdu e autore di un progetto di legge regionale sulla casa. «Un tema sul quale non esiste una posizione organica della maggioranza», riconosce onestamente il consigliere. «La Lega propone di venire incontro prima agli indigeni, poi ai veneti di ritorno, soprattutto dal Sud America, poi agli extracomunitari. Ma anche nelle altre forze della maggioranza non c’è pieno accordo. Gli immigrati sono una risorsa o un pericolo? La risposta non è univoca. Da un punto di vista politico, in Veneto siamo ancora a metà del guado. A volte si guarda all’immigrato come a una risorsa culturale e lavorativa, si creano tavoli di concertazione e meccanismi di coinvolgimento. Altre volte prevalgono le tesi del sindaco di Treviso e di altri che la pensano come lui, anche se magari si esprimono con un linguaggio meno colorito».
«Si vuole risolvere il problema della casa agli immigrati come se questi ultimi fossero di passaggio», dice Roberto Pace, esperto di sociologia urbana. «È un’illusione. Il fenomeno è stabile, nei prossimi anni ce ne accorgeremo sempre di più. Serve una politica organica, occorre mettere la casa tra le priorità di bilancio. Finora abbiamo vissuto di residui, gli ultimi duecento milioni di euro dei vecchi fondi sono stati distribuiti con il piano triennale di quest’anno. E poi? Forse ci si dimentica di una verità elementare: che la casa è il tema sociale per eccellenza, da considerare alla stregua del servizio sanitario».
Nell’attesa che vengano varate le iniziative di ampio respiro, restano i problemi spiccioli di ogni giorno. E anche in questo caso la Chiesa spesso anticipa le istituzioni. È quanto avviene a Bassano del Grappa, cittadina in cui operano i padri Scalabriniani, congregazione votata ai migranti: un tempo agli italiani che facevano le valige per l’estero, oggi anche agli stranieri in Italia. A Bassano gestiscono, attraverso l’associazione “Casa a colori” e una cooperativa edilizia, un centro di accoglienza e vari alloggi, «non regalando niente a nessuno», tiene a precisare il responsabile, padre Claudio Gnesotto, «però praticando prezzi inferiori a quelli esosi del mercato». Gli operatori bassanesi hanno anche un filo diretto con la questura e i comuni del territorio, che consente loro di far funzionare uno sportello informativo per i permessi di soggiorno e le altre pratiche. Ultimamente hanno speso molte energie per il progetto “Extra che?” per favorire l’integrazione dei figli di immigrati, sempre più numerosi, nella scuola.
Per tornare in provincia di Treviso, un’altra realtà significativa è il centro “Una casa per l’uomo”, nato nel ’92 a Montebelluna, che si occupa di recupero, acquisto, affitto di alloggi, gestisce centri accoglienza per conto della Provincia con duecento ospiti al giorno, aiuta le persone straniere nelle mille difficoltà quotidiane, dall’impatto con la burocrazia all’inserimento dei bambini nelle scuole. Ancora più significativi i numeri padovani, dove la sola cooperativa “Nuovo villaggio” gestisce circa 250 posti letto distribuiti in sessanta unità abitative ed è coinvolta in vari progetti, tra cui spicca “Miriam”, un programma di protezione sociale di donne straniere vittime di sfruttamento sessuale.
«Tante iniziative, sparse un po’ dovunque in Veneto. Eppure sappiamo bene che la nostra è una goccia nel mare», dice il presidente di “Nuovo villaggio”, Maurizio Trabuio, che presiede anche il Coordinamento veneto accoglienza, organismo che raggruppa le maggiori realtà regionali in questo settore. «Tutti insieme arriviamo a duemila posti-letto, ben poco in confronto ai 170mila immigrati presenti in regione. Eppure credo non sia un caso che fra tanti gruppi nati come funghi all’inizio degli anni Novanta siano rimaste in piedi solo le realtà nate dal mondo cattolico». Ma neppure la Chiesa è senza colpe. «Oggi ha una posizione molto netta, negli ambienti ecclesiali è cresciuta la consapevolezza che occorre essere dalla parte dei più poveri, di coloro che vengono nel nostro Paese a cercare una vita migliore. Io però queste posizioni me le aspettavo dieci anni fa. Era allora che bisognava parlare chiaro, oggi la base è fredda rispetto agli immigrati, è indifferente quando non ostile».
Un immigrato a lavoro

Un immigrato a lavoro

Chiesa in ritardo sui tempi? «Non credo», dice dal suo osservatorio privilegiato Sergio Frigo, redattore del Gazzettino e fondatore di Cittadini dappertutto, pubblicazione mensile dedicata al confronto interculturale. «L’istituzione ecclesiastica ha fatto vedere – a partire dal semplice parroco, fino al vescovo e allo stesso Vaticano – che sta concretamente e compattamente con i più poveri, indipendentemente dal colore della loro pelle o dalla loro religione», dichiara convinto il giornalista. «Questo però sembra non dire nulla ai leghisti, che si attribuiscono spesso il ruolo di difensori della religione cattolica, ma in realtà sono in aperta contrapposizione con i vescovi». Il problema, secondo Frigo, è un altro. «Il nuovo clima rigorista sta producendo radicalizzazione tra gli immigrati. Se fino a ieri l’associazionismo cattolico o laico moderato, dalla Caritas all’Arci, dalle Acli al sindacato, era l’interlocutore degli immigrati, oggi non è messo in condizione di dare risposte precise. In Veneto i finanziamenti alle associazioni diminuiscono di anno in anno e così questo mondo riesce sempre più a fatica a dare risposte concrete a temi quali la formazione e la casa. Così l’immigrato, che spesso proviene da realtà in cui il referente è il leader del gruppo, quello che dà risposte immediate, si rivolge ai centri sociali, più aggressivi e organizzati. I fatti di Treviso ne sono una prova».
«Strumentalizzazione dei centri sociali? È pressoché inevitabile che in un settore come l’immigrazione ci sia una varietà di proposte e di gruppi», è la riflessione di don Bruno Baratto. «Piuttosto sarebbe importante che gli stranieri pian piano fossero in grado di autorappresentarsi. D’altra parte, gente che dorme sotto i ponti o in case abbandonate se ne trova finché si vuole. Finché i problemi non vengono affrontati a livello di governo del territorio, le strumentalizzazioni saranno inevitabili».


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