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STATI UNITI
tratto dal n. 11 - 2004

RELIGIONE ETICA E POLITICA

Il risveglio dell’etica in tempo di guerra


Un sondaggio del New York Times; effettuato dopo il voto per le presidenziali sostiene che le scelte “morali” sono state rilevanti per un elettore su due. Se questo è vero, il numero di cittadini che hanno deciso in materia pubblica su base “etica” è superiore al numero stesso di persone che si dichiarano religiose


di Lucia Annunziata


Un operaio smantella il palco di una convention repubblicana

Un operaio smantella il palco di una convention repubblicana

Nella notte elettorale, scandita da alcuni nervosismi, dovuti all’eccesso, alla contraddittorietà dei dati e – confesso – al delinearsi di una sconfitta per un candidato cui andavano le mie simpatie, mi rivolsi a monsignor Hilary Franco, pacioso nello stile come i preti di campagna italiani, attivo nelle opere come un manager americano.
Mi rivolsi a lui perché mi spiegasse il rebus che scorreva sotto i miei occhi: dalle urne usciva, inequivocabile, l’indicazione che i cattolici avevano massicciamente votato Bush; la Chiesa americana, che all’interno della cattolicità si era distinta negli anni scorsi per le sue posizioni liberal, aveva questa volta scelto le posizioni più conservatrici. Nonostante Kerry fosse il primo candidato cattolico dopo Kennedy; nonostante Kerry rappresentasse la critica alla guerra in Iraq così impopolare fra i credenti; nonostante Kerry si presentasse con una piattaforma di giustizia economica più forte di quella di Bush.
Il monsignore, soave, mi spiegò che certo, sì, grandi i meriti di Kerry, ma forse ancora più grandi le sue debolezze: sull’aborto, sui matrimoni gay, «le sue posizioni sono semplicemente offensive per la coscienza di un credente. Bush è percepito come più religioso, e più vicino ai fondamentali della morale cristiana». Ammetto che mi venne da ritorcere con una certa cattiveria: «Beh, insomma, monsignore, la Chiesa americana è stata devastata dallo scandalo della pedofilia nelle sue file e ora fate i moralisti sui gay?». Il monsignore rispose soave: «Proprio per questo, signora».
La lapidaria risposta di monsignor Franco – come accade sempre con le risposte vere – mi fece capire. I cattolici, che in queste elezioni hanno abbandonato i democratici, in quantità tale da essere determinanti per la vittoria di Bush nei tre principali Stati contesi, hanno evidenziato un trend più generale di inquietudine spirituale suscitato in America dalla guerra. La guerra infatti, come sempre accade, solleva non solo domande su come vincere, ma anche, o forse soprattutto, su come vivere.
La risposta della maggioranza dei credenti è un ritorno alle regole di base, nel desiderio di recuperare anni di errori e lassismo etico.
Tuttavia, come cercherò di spiegare, sarebbe errato raccontare questa tendenza come uno scontro fra valori e non valori, come pure si dice qui in Italia. Lo scontro è fra due set di valori, e ha infatti attraversato democratici e repubblicani insieme, dividendo orizzontalmente alcuni settori dell’elettorato. I cattolici, tra questi, che hanno pagato un caro prezzo alla divisione.
Intanto, cerchiamo di capire perché i voti dei cattolici sono stati decisivi, e come.
A dispetto della feroce competizione, la mappa elettorale americana è risultata alla fine la stessa di sempre. Se si vede la cartina americana divisa fra gli Stati rossi dei repubblicani e quelli blu dei democratici, si nota che il blu è relegato alle due coste e il rosso dilaga nel resto del Paese. La vastità e il numero degli Stati repubblicani non devono però ingannare: considerando il numero dei votanti invece che l’estensione territoriale, si vede che i democratici hanno in dote gli Stati più popolosi, nonché i più ricchi. Lo scarto fra i due schieramenti prima delle elezioni era così piccolo che le elezioni si sono ridotte, questa volta più che mai, alla differenza marginale di voti in soli tre Stati. Con il paradossale risultato che la gigantesca macchina politica elettorale d’America si è poi effettivamente ridotta a tre elezioni regionali. Sono i voti della Florida, dell’Ohio e della Pennsylvania che vanno dunque studiati. E proprio in questi tre Stati si sono concentrati gli elettori delle campagne e dell’industria: Ohio e Pennsylvania nel pieno degli effetti della crisi economica che ha colpito l’intero Midwest industriale a causa della rilocazione dei lavori provocata dalla globalizzazione; la Florida con le sue vaste aree rurali dense di lavoro manuale latinos e nero.
Bush in preghiera tra i militari di Fort Campbell in Kentucky

Bush in preghiera tra i militari di Fort Campbell in Kentucky

I democratici hanno puntato così proprio sugli effetti della crisi economica. E la battaglia è stata combattuta fino all’ultimo: Kerry è riuscito a tenersi la Pennsylvania, ma Bush ha avuto la Florida e l’Ohio.
Se non sulla crisi economica, allora su cosa sono stati dati questi voti di “classe”? O meglio, tanto per essere più chiari: perché questi operai hanno tradito i democratici?
La scelta etica si rivela qui chiaramente. Proprio in questi tre Stati infatti la componente religiosa è molto forte: cattolica fra latinos e operai di origine europea; battista o evangelica presso i neri.
Di quali valori si tratta? Una risposta ci viene dai dati analizzati dopo il voto.
Il profilo dell’elettore repubblicano è descritto da un sondaggio che ha coinvolto, subito dopo il voto, 13.531 votanti cui è stato chiesto quali questioni avessero determinato la loro scelta. Fra coloro che hanno votato per Bush, 6 su 10 credono che l’aborto debba essere illegale in ogni caso; metà frequenta la chiesa almeno una volta alla settimana; metà è totalmente contro ogni matrimonio fra coppie dello stesso sesso, matrimoni civili inclusi; metà possiede un’arma; più di un terzo è cristiano evangelico di razza bianca; più di un terzo ha detto di aver votato per ragioni morali. Ed è intorno a queste questioni che si è trovato un punto in comune fra la religiosità radicale e quella cattolica (dei latinos, degli irlandesi, dei polacchi, degli italiani). Una convergenza che è in corso da parecchio tempo, e che è indicata come una delle grandi trasformazioni in atto in America.
Prima di andare avanti, vediamo dunque un po’ di numeri sulle religioni in Usa.
Il 20% degli elettori americani è composto da cristiani evangelici: il loro voto è andato a George Bush nella proporzione di 3 a 1. In termini assoluti il numero è impressionante: il 20% di 220 milioni di aventi diritto significa circa 44 milioni di cristiani evangelici; il che vuol dire che in questo gruppo religioso Bush ha raccolto più di 33 milioni di consensi, e Kerry solo 11. A questi cristiani vanno ascritte alcune delle posizioni più singolari della religiosità americana, inclusa l’idea che il presidente sia un inviato del Signore.
I metodisti sono il gruppo religioso più omogeneamente diffuso sul territorio; i battisti sono dominanti nel sud, che è la loro regione di origine.
È però la Chiesa cattolica ad essere in Usa la religione con il maggior numero di affiliati, con 63 milioni di fedeli. Quella cattolica è anche, in questo momento, la religione che si sta diffondendo di più negli Stati Uniti, grazie soprattutto all’immigrazione dall’estero (dall’America Latina in particolare) e all’immigrazione interna agli Usa. Questa diffusione è dovuta anche, tuttavia, a una rottura del blocco elettorale unico dei cattolici: elemento che li rende capaci di integrarsi con altri gruppi religiosi.
La vicenda elettorale del 2004 riflette in maniera molto chiara questo quadro. Nel 2000 i cattolici votarono a favore di Gore, cui andò il 49% dei loro consensi. Ma già allora, una scomposizione del voto faceva intravedere una tensione: i più religiosi tra i cattolici, cioè coloro che frequentano con regolarità la chiesa, avevano votato per Bush al 53%.
È intorno a queste questioni morali che si è trovato un punto in comune fra la religiosità radicale protestante e quella cattolica (dei latinos, degli irlandesi, dei polacchi, degli italiani). Una convergenza che è in corsoda parecchio tempo, e che è indicata come una delle grandi trasformazioni in atto in America
La fondamentale divisione che spacca i cattolici nel 2004 è proprio questa: fra credenti in generale e praticanti.
La distinzione fra queste due aree si è accentuata in questi anni. Con la crescita soprattutto di tendenze sempre più apertamente conservatrici, guidate da rilevanti personalità cattoliche.
Stiamo parlando soprattutto di padre Richard Neuhaus, direttore di First Things, attivissimo nel dibattito politico dei neocons americani, chiamato da Bush «padre Richard». Neuhaus è un teologo e un politologo famoso in Italia e nei circuiti della politica internazionale: ma la sua opera, avviata molti anni fa e che tende a solidificare l’incontro fra evangelici e cattolici – incontrando su questa strada appunto la formazione spirituale di George Bush –, è solo l’espressione a più alto livello di un processo che coinvolge l’anima militante, schierata, della Chiesa cattolica in Usa.
Nel corso della campagna elettorale, le gerarchie romane e quelle americane hanno cercato di tenere una giusta via di prudenza, per evitare che la Chiesa venisse accusata di ingerenza. Ma la divisione tornava continuamente a galla: quando gruppi di sacerdoti hanno cominciato a far circolare l’idea che a Kerry venisse negata l’eucaristia, o addirittura che Kerry fosse scomunicato, Roma è intervenuta più di una volta contro questi eccessi: linea di basso profilo e non ingerenza.
Ma sotto la pelle della Chiesa americana il lavoro non si è fermato: il più importante è stato quello organizzato da un gruppo di vescovi capitanati dall’arcivescovo di Denver in Colorado, monsignor Charles Joseph Chaput. Opere mirate a organizzare reti di militanti che portassero il voto. Specificamente nel campo dei repubblicani. Soprattutto sul tema dell’aborto e della ricerca sulle cellule staminali. Ma anche sulla questione gay: si ricorderà come sulla campagna elettorale sia esploso, ad esempio, lo scandalo dell’ordinazione del primo vescovo apertamente gay dentro la Chiesa episcopaliana. Il vescovo, di fronte alla richiesta di dimissioni, si è rifiutato, polarizzando ancora di più il mondo dei credenti.
Nelle lunghe file che sono rimaste per ore davanti ai seggi sotto la pioggia dell’Ohio e fra i due milioni di votanti che per buona misura erano andati ai seggi settimane prima in Florida, la maggioranza – lo abbiamo capito dopo i risultati – era sostenuta da questa fede indiscussa e convinta in George Bush. Ed erano file composte da religiosi radicali ma anche da tantissimi cattolici. Che hanno dato al cattolico Kerry meno voti di quanti ne avessero dati nel 2000 al battista Gore.
Attenzione: questi cattolici non si dicono repubblicani, ma specificamente elettori su una piattaforma di valori : «Sono i repubblicani ad aver scelto i nostri valori», ha detto l’arcivescovo Chaput: «Se vanno nella direzione sbagliata noi li abbandoneremo. Non siamo dei loro alleati naturali». Il risultato però è ugualmente chiaro: una parte della stessa base sociale democratica, gli operai, i neri e le donne in particolare, ha preferito votare Bush perché più certo della sua condotta di guerra, e più vicino a loro nei valori. Questa è tutta la profondità della crisi dei democratici, che hanno perso una buona fetta di rappresentanza dentro gli stessi ceti sociali che li legittimano come forza politica.
Ma si può ridurre, o raccontare, questa storia – come viene fatto in questo momento da noi, secondo una enfatica traduzione dell’universo politico americano in termini italiani – come uno scontro fra valori cattolici/cristiani e mollezze del relativismo etico?
Io preferirei parlare di eticità più che di religiosità. La rielezione di George Bush mi sembra vada letta in un’ampia ripresa religiosa ed etica risvegliata dagli attacchi terroristici e della guerra.
Un altro sondaggio ci offre un dato interessante per allargare la nostra visione di questo argomento. Questo sondaggio effettuato dal New York Times dopo il voto sostiene che le scelte “morali” sono state rilevanti per un elettore su due. Se questo è vero, il numero di cittadini che in America hanno deciso in materia pubblica su base “etica” è superiore al numero stesso di persone che si dichiarano specificamente religiose. La scelta etica è valsa dunque per democratici come per repubblicani. Sarebbe deviante oggi restringere la questione solo agli elettori di destra. Quelli che troppo frettolosamente sono stati indicati come valori religiosi, e di una destra radicale per giunta, si capiscono infatti meglio se si spostano su questo piano. È la scelta etica, infatti, uguale alla scelta religiosa? Certamente no, ed è in questo punto che il dibattito può girare in un’altra direzione rispetto a quella fin qui presa.
In un’epoca di guerra, come si diceva, la scelta su come vivere, oltre che su come combattere, è stata sentita persino più rilevante delle preoccupazioni materiali.
È un segnale importante, che non va sottovalutato, e tanto meno irriso. Ma non va nemmeno stravolto.


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