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ITALIA
tratto dal n. 12 - 2004

UNIVERSITÀ. Quanti sono e da dove vengono gli studenti stranieri nei nostri atenei

Una presenza da valorizzare


Siamo tra i Paesi sviluppati che accolgono meno studenti universitari dall’estero. Eppure è sempre stato un investimento. Spesso gli stranieri laureati in Italia, alcuni dei quali oggi ricoprono importanti ruoli nel loro Paese, hanno con noi un rapporto privilegiato


di Giovanni Ricciardi



«Dobbiamo avere più studenti stranieri nelle aule dei nostri atenei, in modo che possano studiare fianco a fianco con i nostri ragazzi. Dobbiamo darci anche obiettivi quantitativi, misurabili di anno in anno, di crescita del numero degli studenti e di allargamento delle aree geografiche». Sono parole del presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, pronunciate il 14 dicembre durante la cerimonia di consegna dei diplomi conferiti per l’anno 2003 ai benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte. Parole che riportano in primo piano la presenza degli studenti stranieri nei nostri atenei. Due giorni dopo, il 16 dicembre, un convegno organizzato dall’Ucsei (Ufficio centrale studenti esteri in Italia) ha presentato i risultati di uno studio articolato sul tema, cui hanno collaborato ricercatori del Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca) e dell’Istat (Istituto nazionale di statistica): un volume ricco di dati e considerazioni che fotografano una situazione complessa, non priva di luci ma anche ricca di ombre.
Tra i Paesi industrializzati che accolgono stranieri nelle proprie università, l’Italia, con l’1,8% sul totale degli studenti, figura all’ultimo posto della classifica Ocse (cfr. tabella 1). Le ragioni sono molteplici. In Europa, nazioni come Gran Bretagna, Francia e Belgio hanno da sempre una massiccia presenza di studenti provenienti da ex colonie. La diffusione dell’inglese e del francese nel mondo certamente attira più studenti nelle università anglofone e francofone. Gli Stati Uniti, inoltre, fanno della “immigrazione intellettuale” una vera e propria strategia a lungo termine. In un convegno internazionale tenutosi in novembre a Tokyo su scienza, tecnologia e sviluppo, è stato detto che entro il 2010 i Paesi industrializzati avranno bisogno di 700mila nuovi ricercatori e scienziati per sostenere la concorrenza di economie in crescita esponenziale, come quelle di India e Cina. Questi nuovi “cervelli” saranno reclutati in buona parte da Paesi in via di sviluppo o di recente crescita economica. Nelle università degli Usa il “fenomeno asiatico” è ormai un dato acquisito. I migliori studenti provengono dall’Oriente e sono destinati a costituire la nuova crema intellettual-scientifica d’America. Altri Paesi, specie in Europa, hanno sviluppato anch’essi una “politica di accoglienza” con l’assegnazione di borse di studio, alloggi e facilitazioni per gli studenti stranieri.


Il “caso” italiano
In Italia la situazione è diversa: la percentuale di studenti stranieri nei nostri atenei non è mai salita oltre il 3% (1981-82). Il nostro Paese, che ha avuto poche colonie e di “cervelli” ne ha sempre esportati, negli anni Sessanta aveva però avviato una politica tesa a promuovere la formazione in Italia di studenti provenienti dai Paesi in via di sviluppo. E questo per favorire la formazione di classi dirigenti autonome, anche in una prospettiva di dialogo internazionale a lungo termine. Il numero degli studenti stranieri nelle università italiane crebbe via via fino al record del 1981, quando superò per la prima volta la soglia dei 30mila. Ma già alla fine degli anni Settanta il Ministero degli Esteri aveva iniziato a fare marcia indietro, destinando sempre meno fondi alle borse di studio nell’ambito della cooperazione per lo sviluppo. Erano ancora gli anni di piombo. Si temeva che gli stranieri costituissero – in parte era vero – una fascia di studenti facilmente “permeabile” dai venti della contestazione. Da allora, la presenza straniera è stata, di fatto, sempre meno incoraggiata, anche in relazione a nuovi scenari: la preoccupazione per l’immigrazione massiccia degli anni Ottanta e Novanta; infine, dopo l’11 settembre, si è aggiunto il timore di infiltrazioni di potenziali terroristi. Così la politica italiana in questo settore non ha più invertito la rotta. Limitazione dei visti d’ingresso, ostacoli burocratici: gli stranieri, nei nostri atenei, sono andati via via calando, fino a toccare l’1,3% nel 1995-96 (cfr. tabella 2). E se all’inizio degli anni Ottanta il Ministero degli Esteri ancora erogava 4/5mila borse di studio all’anno per universitari stranieri, il loro numero è sceso gradualmente fino alle 500 di oggi. La riduzione degli aiuti ha inevitabilmente sacrificato le aree geopolitiche più “deboli” o più lontane. Gli iraniani, ad esempio, alla fine degli anni Ottanta erano ancora la quarta comunità universitaria estera in Italia, con 1.500 studenti: oggi sono ridotti a qualche centinaio. Lo stesso vale per molti altri gruppi nazionali (cfr. tabella 4). E così africani, asiatici e latinoamericani rappresentano oggi una percentuale irrisoria, lo 0,42% degli universitari che studiano in Italia.


Una politica da ripensare
«È stata una politica scriteriata» dice monsignor Remigio Musaragno, fondatore e presidente dell’Ucsei, che da più di quarant’anni lavora allo scopo di offrire opportunità di studio in Italia a studenti del Terzo mondo. «L’Italia negli ultimi vent’anni è venuta gradualmente meno al suo ruolo di promotrice della cooperazione internazionale in questo campo. Eppure, dai primi anni Cinquanta ad oggi più di 60mila giovani di oltre cento Paesi del mondo si sono laureati nelle università italiane: un patrimonio straordinario di relazioni umane e di ponti gettati tra l’Italia e gli altri Paesi dei cinque continenti». Solo nell’archivio dell’Ucsei sono depositate 2.400 tesi di laurea di altrettanti studenti che si sono avvalsi dell’opera di questo sacerdote trevigiano. Molti studenti passati attraverso l’Ucsei oggi sono personaggi importanti nel loro Paese: professionisti, medici, politici.

Vassilis Papadimitriou, greco, ha studiato in Italia negli anni Settanta; ha poi lavorato presso il Parlamento europeo a Bruxelles; attualmente è consigliere per la stampa presso l’ambasciata greca a Roma. E ricorda i tempi in cui migliaia di studenti greci affollavano le università italiane: «Nel Parlamento greco, attualmente, su 300 membri, 14 hanno studiato in Italia. Si calcola che in Grecia lavorino oggi 4mila medici e 6mila tra architetti e ingegneri che hanno frequentato le vostre università. Ma per molti greci, durante la dittatura dei colonnelli, l’Italia è stata anche scuola e palestra di democrazia. Senza contare che dai tanti greci che hanno studiato in Italia negli ultimi trent’anni è scaturita, sia da noi che da voi, la prima generazione di italo-greci. Solo a Salonicco esistono due associazioni di donne italiane che hanno sposato nostri connazionali. Una generazione che non può far altro che contribuire al rafforzamento dei legami tra i due Paesi».

Nuovi scenari
Nonostante tutto, negli ultimi dieci anni gli stranieri che studiano in Italia sono tornati ad aumentare. Nel 1995-96 le nuove immatricolazioni avevano toccato il minimo storico (1.223). Nel 2002-03 hanno raggiunto la cifra record di 2.388, la più alta degli ultimi quarant’anni. Ma si tratta di un fenomeno nuovo e profondamente diverso. Quasi tutti i “nuovi arrivati” provengono dall’Europa orientale (cfr. tabella 3): croati, rumeni, polacchi e soprattutto albanesi, che costituiscono la maggioranza degli studenti stranieri in Italia. La fine della ex Iugoslavia, l’apertura delle frontiere dell’Est europeo, il processo di ampliamento dell’Unione europea hanno “messo in mobilità” un alto numero di studenti che provengono da Paesi per i quali non è più necessario un visto d’ingresso in Italia. Infine, inizia a entrare oggi nelle università italiane la prima generazione di figli di immigrati entrati in Italia negli ultimi vent’anni, che non hanno ancora la cittadinanza e risultano ancora, dal punto di vista statistico, stranieri a tutti gli effetti.


Difficoltà “burocratiche”
Ma per chi vuole venire a studiare in Italia dall’estero permangono ancora oggi molte difficoltà. Per i visti d’ingresso per motivi di studio sono previste quote limitate. Chi vuole venire in Italia a studiare affronta spesso un calvario burocratico; ottiene il visto d’ingresso pochissimi giorni prima dell’esame preliminare d’italiano presso l’università prescelta; deve rinnovare il permesso di soggiorno ogni anno, con tempi di attesa che vanno dai quattro ai sei mesi, durante i quali non si può usufruire dell’assistenza sanitaria e non si può uscire dall’Italia; bisogna fare i conti con mille problemi legati all’endemica carenza di alloggi per studenti. Le regioni e le università danno qualche aiuto, ma a volte si creano situazioni paradossali. In molti atenei, nei concorsi per l’assegnazione delle borse, dei posti alloggio, dei lavori part-time e per ottenere la riduzione delle tasse, il reddito familiare degli stranieri è valutato in modo che uno straniero “ricco” al suo Paese finisca per essere considerato tale anche da noi. Nella maggioranza dei casi gli studenti provenienti dal Terzo mondo appartengono infatti a famiglie che nel loro Paese sono privilegiate. L’equiparazione perciò pone molti ragazzi fuori dalle fasce di reddito degli aventi diritto. E il problema diventa drammatico per gli studenti palestinesi con passaporto israeliano: «Con i documenti israeliani» spiega Gibrail, studente all’Università di Pisa «finisce che sei svantaggiato. Per gli israeliani infatti non è previsto alcun finanziamento, nessun aiuto, perché Israele è considerato un Paese mediamente ricco, quasi europeo. E tu come fai a dimostrare che sei palestinese?». Con queste difficoltà, accade spesso che i tempi per ottenere una laurea da parte degli stranieri si allunghino (cfr. tabella 5). Solo il 20% di loro termina gli studi prima dei 25 anni, contro il 31% degli italiani. E il 37% si laurea dopo i trent’anni.
L’auspicio di monsignor Musaragno è che l’Italia torni a scommettere sulla promozione culturale dei Paesi in via di sviluppo, superando il timore che, attraverso questo canale, si possa aprire una porta verso un’immigrazione incontrollata e difficile da gestire. «Occorre tornare a scommettere soprattutto sui giovani dei Paesi poveri: favorire il loro studio e valorizzare le loro capacità, magari inserendoli, dopo la laurea, nei progetti di cooperazione internazionale promossi dal nostro Paese; cosa che l’Italia fino ad adesso non ha mai fatto».


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