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PALAZZI DELLA POLITICA
tratto dal n. 01/02 - 2005

La magistratura in Italia

Indipendenti sì, ma da tutto


Il 26 gennaio il senatore Giulio Andreotti è intervenuto in Senato nel dibattito sulla legge di riforma della magistratura, rinviata per una seconda lettura alla Camera dal presidente della Repubblica Italiana. Pubblichiamo il suo intervento


di Giulio Andreotti


La cerimonia di inaugurazione dell’Anno giudiziario 2005-2006 svoltasi nell’Aula magna della Cassazione

La cerimonia di inaugurazione dell’Anno giudiziario 2005-2006 svoltasi nell’Aula magna della Cassazione

GIULIO ANDREOTTI: Signor presidente, chiedo ai colleghi un momento di attenzione, dato che in cinquantanove anni di attività parlamentare non ho mai preso la parola in materia di ordinamento giudiziario o di problemi della magistratura. Ciò non perché in un certo periodo ho vissuto una certa esperienza (sarebbe un argomento meschino), ma perché non ho una preparazione né accademica, né professionale per interloquire in un settore di estrema delicatezza e del quale nell’Assemblea costituente noi concordemente volemmo accentuare, con una dizione che esiste solo per questo, l’indipendenza: indipendenza da tutto.
Senatore Brutti, non dica, ad esempio, «la parte migliore della magistratura», perché questo è già un modo di differenziare.
Massimo BRUTTI: Ho detto «della cultura giuridica»; era una valutazione sui giuristi. ANDREOTTI: Io parlo proprio dell’indipendenza. Ma perché nacque? Forse anche perché, a parte giuste osservazioni che possiamo chiamare filosofiche, nessuno sapeva, in quell’Assemblea, quale sarebbe stata la composizione del Parlamento che sarebbe stato eletto di lì a breve. Avevamo la preoccupazione che, se avesse vinto una certa parte, nonostante la buona volontà degli uomini, potesse accadere ciò che era avvenuto in Cecoslovacchia e altrove.
Viceversa, qualcuno considerava noi democristiani, come pure altri non della sinistra, più o meno dei fascisti, degli aspiranti fascisti o degli ex fascisti. Quindi, fu introdotto quel concetto rigoroso dell’indipendenza della magistratura, che fu però al tempo stesso inquadrato in una certa disciplina interna, in una certa gerarchia che esisteva, da cui forse – è vero – si trassero poi conseguenze esagerate. Fu giusto quando si tolse l’avocazione dei processi da parte della Corte d’appello, perché si poteva prestare a qualche valutazione non obiettiva. C’è sempre stato questo rigore.
Qual è oggi la difficoltà che incontriamo? Siamo dinanzi a una delle poche occasioni in cui una legge è rinviata alla Camera dal presidente della Repubblica. Con molta abilità il presidente del Consiglio, il quale certamente nel presentare i problemi è ineguagliabile, ha rilasciato ai giornali una dichiarazione – forse qualcuno di voi l’ha letta – in cui diceva in fondo: quanto sono cretini questi, che non sanno nemmeno scrivere le leggi; l’ha quindi buttata in una specie di cornice di carattere tecnico. Qui però non è questione di saper scrivere le leggi o di non saperle scrivere: è questione, a mio avviso, di cercare di uscire (solo per questo prendo la parola, altrimenti avrei continuato, non so per quanto altro tempo ancora, a non interloquire in materia) da una situazione estremamente grave.
Speravo che la presenza in Parlamento – qui e a Montecitorio – di un certo numero di magistrati ci aiutasse nella comprensione reciproca. All’inizio si trattò di casi isolati: dopo l’uscita dal servizio attivo, persone come Azara o Pafundi vennero a far parte delle Assemblee legislative come canonici onorari. Per qualche contatto avuto, ho verificato che ciò non è possibile perché da parte di alcuni magistrati coloro che hanno scelto una via politica sono considerati magistrati usciti dal seminato e, viceversa, qualcuno di noi, sbagliando, considera i colleghi magistrati diversi dagli altri parlamentari.
Il relatore di maggioranza e il senatore Fassone hanno difeso con convinzione tesi opposte nella valutazione della legge. Ho preso la parola perché la situazione odierna è di un’estrema gravità; anche in altri campi per la verità, ma oggi ci occupiamo di questo. Mi riferisco alla rigida contrapposizione delle tesi, per cui o si sta da una parte o dall’altra. Noi siamo un piccolissimo gruppo, non siamo né carne né pesce, anche se le uova, non essendo né carne né pesce, rappresentano talvolta un fatto positivo, ma non voglio sopravvalutare il mio gruppo.
Oggi c’è un equivoco grave nell’opinione pubblica e negli interessati. Abbiamo visto uno schieramento compatto, abbiamo riscontrato un’ampiezza di partecipazione dei magistrati all’astensione dal lavoro che si verifica raramente nel lavoro pubblico dipendente. Dovremmo cercare di uscire dalla contrapposizione tra politica e magistratura. Non si tratta di una questione di Regolamento, se dobbiamo cioè limitare l’esame ai punti specifici indicati dal presidente della Repubblica. Considerata la situazione così grave ed eccezionale, mi chiedo se non si debba procedere ad una riconsiderazione e il mio non è un invito a non legiferare.
Se, a differenza di tanti altri casi, in qualche punto della legge fosse stato accolto un emendamento delle opposizioni e se le opposizioni avessero votato qualcuno degli articoli, forse non si sarebbe determinata questa identificazione pericolosissima tra un giudizio di schieramento politico di carattere generale e una opinione del Parlamento nei confronti dei problemi della magistratura.
Mi guardo bene dal fare lo storico, non ne avrei né la capacità né la volontà; sappiamo, però, che in alcuni momenti del passato ci sono state polemiche sulla giustizia, magari non molto altisonanti perché allora sia il settore sia la circostanza non lo consentivano. In una discussione del 1954 Togliatti richiamò un articolo di un decreto luogotenenziale del 1945 dicendo che egli stesso lo aveva scritto, in qualità di guardasigilli, parola per parola: quell’articolo prevedeva che il guardasigilli ha l’alta sorveglianza della magistratura e dei magistrati, sia giudicanti che requirenti. È vero, non era ancora stata approvata la Costituzione. Questo argomento può essere addotto, ma è estremamente capzioso.
Se il ministro Castelli avesse riprodotto questo testo, forse sarebbe stato meglio, piuttosto che parlare di politica giudiziaria e di altre formule che sono certamente di carattere equivoco e che vanno corrette.
Afferma Andreotti: «Se non recuperiamo il reciproco rispetto tra il potere politico  e la magistratura, entriamo in un vicolo cieco»

Afferma Andreotti: «Se non recuperiamo il reciproco rispetto tra il potere politico e la magistratura, entriamo in un vicolo cieco»

A mio parere, non dobbiamo limitarci e indulgere, peraltro, in una riconsiderazione che poi voglia dire non far niente, perché la necessità esiste.
Recentemente, una persona che non credo sia oriundo-democristiana, l’ex procuratore generale Borrelli, in un’intervista (forse qualcuno di voi l’ha letta) – a parte il fatto che tratta malissimo un ex magistrato che per un certo periodo è stato nostro collega (ma sono affari loro) –, criticando la legge, afferma che ci sono due punti che veramente non vanno: parla della lunghezza dei processi e del funzionamento degli organi disciplinari.
Questo lo afferma Borrelli e io – non dico mi avvio alla conclusione perché è un modo retorico per non farlo – vorrei ricordare una discussione che abbiamo fatto in quest’Aula quando si è cambiato il meccanismo elettorale del Consiglio superiore della magistratura.
PRESIDENTE: Senatore Andreotti, la prego di concludere il suo intervento.
ANDREOTTI: Signor presidente, mi sto accingendo a concludere. Parlo piuttosto raramente, ma obbedisco.
Un collega che certamente si intende della materia (a differenza di me), Guido Calvi, ricordo che disse: avete pensato bene a quello che state facendo? Prevedendo candidature non più locali, ma nazionali, favorite, in fondo, le organizzazioni [cenni di assenso del senatore Calvi]. Il senatore Calvi aggiunse anche di dare un’occhiata alla disciplinare; c’è il resoconto stenografico che lo conferma. Qualcuno commentò che il senatore Calvi è comunista. Non so se dicendolo dispiaccio a qualcuno, ma credo che il senatore Calvi sia comunista quanto lo sono io, da questo punto di vista [ilarità].
Signor presidente, non so in che modo, però oggi non ci troviamo ad affrontare una discussione di ordinaria amministrazione; siamo a una svolta importante della nostra vita nazionale e del costume. Se non recuperiamo il reciproco rispetto tra il potere politico (governo o Parlamento che sia, non è molto importante questa distinzione) e la magistratura – ma anche il dovere di pretendere altrettanto rispetto dalla magistratura come tale per coloro che sono scelti dal popolo in nome del quale si esercita la giustizia –, rischiamo di entrare in un vicolo terribilmente cieco [applausi dai gruppi Aut, Udc, Mar-Dl-U, Verdi-U, Ds-U, Fi e An. Molte congratulazioni].


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