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DIBATTITO
tratto dal n. 01/02 - 2005

Biomedicina e morale cristiana

La Chiesa non cade in contraddizione quando difende la vita


Il presidente emerito del Pontificio Consiglio per la pastorale degli operatori sanitari risponde a un editoriale di Ernesto Galli Della Loggia apparso sul Corriere della Sera


del cardinale Fiorenzo Angelini


Sopra, l’editoriale di Galli Della Loggia sul Corriere della Sera del 23 gennaio 2004, con, a destra, il cardinale Fiorenzo Angelini

Sopra, l’editoriale di Galli Della Loggia sul Corriere della Sera del 23 gennaio 2004, con, a destra, il cardinale Fiorenzo Angelini

In un editoriale apparso sul Corriere della Sera del 23 gennaio 2005, Ernesto Galli Della Loggia chiama in causa l’attuale posizione della Chiesa sulla donazione di organi e sulla medicina e chirurgia dei trapianti per concludere che, mentre da parte della Chiesa è riaffermata «l’intangibile naturalità dell’Inizio» della vita, nello stesso tempo, da parte di essa, «si è rinunciato ad affermare il carattere naturale della Fine». E ciò sarebbe avvenuto in modi e forme tali che «apparve a molti stupefacente la spedita sicurezza – mi verrebbe di dire la disinvoltura – con cui a suo tempo l’ortodossia cattolica accettò che mutasse la nozione di morte invalsa da sempre nelle culture di matrice classica e cristiana (ma non solo), pur di favorire le tecniche di espianto degli organi del corpo umano e il loro conseguente trapianto».
In altri termini, sostiene l’illustre politologo, «venti, trent’anni fa si accettò senza problemi che la morte non consistesse più nella cessazione del battito cardiaco e del respiro, secondo quanto suggeriva la più elementare naturalità, bensì in un particolare andamento dell’encefalogramma: che la morte cioè dipendesse dal responso di una macchina». Non solo, prosegue Galli Della Loggia, ma «si accettò, sempre senza problemi, che il corpo umano fosse virtualmente ridotto a un magazzino di parti di ricambio. Che fosse fatto a parti per servire a quella che da allora si è convenuto di chiamare “donazione” a dispetto del fatto che il più delle volte questa avviene nella più assoluta inconsapevolezza del donatore, che giace immerso nel buio dell’agonia».
A questo punto Galli Della Loggia formula in maniera più esplicita e ampia l’interrogativo sotteso a quanto detto sopra in materia di trapianti, e si chiede: «Nella posizione cattolica sulla fecondazione assistita, come del resto in quella sull’aborto, la sacralità della vita è strettamente connessa all’idea della persona umana fatta “a immagine e somiglianza di Dio”, e dunque per questa via a una proclamata sacralità del corpo umano. Ma allora come si spiega l’ammissibilità etica di trattamenti così radicalmente diversi per il corpo quando esso è nella sua fase embrionale e quando invece esso è un corpo ormai morente?».
Prima di entrare nel merito dei problemi sollevati, dirò che meritano apprezzamento il tono rispettoso e il linguaggio vigile con cui Galli Della Loggia nel citato editoriale affronta il problema della constatazione della morte, dei trapianti e della donazione di organi. Credo, inoltre, al suo «sincero desiderio di avere una risposta» e «di capire realmente le ragioni della Chiesa». Accade sempre meno frequentemente che si guardi alla posizione della Chiesa sui temi fondamentali dell’esistenza e della condizione umana senza lasciarsi influenzare da pregiudizi di matrice anticlericale od ostinatamente laicista. Proprio per questo, forse, sarebbe stato più in linea con il taglio di tutto l’argomentare di Ernesto Galli Della Loggia aggiungere un punto interrogativo al titolo dell’editoriale, formulato con perentorietà giornalistica Le contraddizioni della Chiesa, senza dire dell’occhiello: Difesa della vita e sequestro della morte. La posizione dell’autore, infatti, nel corso delle sue argomentazioni, non è assiomatica, ma è senza dubbio attraversata da un non retorico bisogno di chiarimenti. E questo gli fa onore.
Premetto che nello stendere le precisazioni che seguono non sono sollecitato da alcun titolo o blasone ecclesiastico, ma soltanto dal «sincero desiderio» di condividere con chiarezza una posizione della Chiesa che la mia lunga consuetudine con i problemi della sanità e della salute mi ha dato modo di sostenere per tanti anni in prima persona, sempre mosso dalla convinzione espressa peraltro dal Messaggio agli uomini di pensiero e di scienza del Concilio ecumenico Vaticano II, nel quale si legge: «Noi dunque non possiamo non incontrarci con voi. Il vostro cammino è il nostro. I vostri pensieri mai risultano estranei a quelli propriamente nostri. Noi siamo amici della vostra vocazione di ricercatori, gli alleati delle vostre fatiche, gli ammiratori delle vostre conquiste e, se occorre, i consolatori del vostro scoraggiamento e del vostro insuccesso» (Enchiridion Vaticanum. Documenti del Concilio Vaticano II, Edb, Bologna 1985, p. 303).

Ernesto Galli Della Loggia chiama in causa l’attuale posizione della Chiesa sulla donazione di organi e sulla medicina e chirurgia dei trapianti per concludere che, mentre da parte della Chiesa è riaffermata «l’intangibile naturalità dell’Inizio» della vita, nello stesso tempo, da parte di essa, «si è rinunciato ad affermare il carattere naturale della Fine»
Morte e momento della morte
Nella visione cristiana si afferma la persistenza, oltre la morte, del principio spirituale dell’uomo. Perciò la fede alimenta nel cristiano la speranza di ritrovare la sua integrità personale trasfigurata e definitivamente posseduta in Cristo. Questa fede piena di speranza non esclude che la morte sia una rottura dolorosa, ma il momento di questa rottura non è direttamente percettibile, e il problema è quello di identificarne i segni. La constatazione e l’interpretazione di questi segni non è di pertinenza della fede e della morale, ma della scienza medica. «Spetta al medico [...] dare una definizione chiara e precisa della morte e del momento della morte». «Gli scienziati, gli analisti e gli eruditi devono portare avanti le loro ricerche e i loro studi per determinare nel modo più esatto possibile il momento preciso e il segno irrecusabile della morte». Ne deriva che la morale non può non riconoscere la determinazione biomedica come criterio decisivo. Questa posizione della Chiesa fu formulata con chiarezza già da Pio XII nel discorso A un gruppo di medici il 24 novembre 1957, e ribadita dai suoi successori.
Nel frattempo, entrando nel merito della determinazione del momento della morte, la Pontificia Accademia delle Scienze ha dato sia la definizione biomedica della morte sia l’indicazione dei criteri per determinare il momento della morte. Quanto alla definizione di morte viene stabilito: «Una persona è morta quando ha subito una perdita irreversibile di ogni capacità di integrare e di coordinare le funzioni fisiche e mentali del corpo».
Quanto ai criteri per stabilire il momento della morte, viene indicato: «La morte sopravviene quando: a) le funzioni spontanee del cuore e della respirazione sono definitivamente cessate, oppure b) si è accertata la cessazione irreversibile di ogni funzione cerebrale». Di fatto, la morte cerebrale è il vero criterio della morte, poiché l’arresto definitivo delle funzioni cardiorespiratorie conduce molto rapidamente alla morte cerebrale.
Queste nozioni sono state ribadite – pressoché contestualmente alla Dichiarazione della Pontificia Accademia delle Scienze – da Giovanni Paolo Il nell’allocuzione Ai partecipanti al Convegno della Pontificia Accademia delle Scienze sulla “Determinazione del momento della morte”, il 14 dicembre 1989.
Non si tratta quindi, di una posizione presa dal magistero della Chiesa «venti, trent’anni fa», ma, quanto alla determinazione del momento della morte, meno di venti anni fa. Risulta poi evidente che la persona in cui sono cessate irreversibilmente le funzioni cerebrali, non è «un morente» né un individuo «che giace immerso nel buio dell’agonia», ma un cadavere.
Il fatto che la fede e la morale facciano proprie le suddette conclusioni della scienza si colloca, da parte della Chiesa, nella medesima linea della strenua difesa della vita al suo inizio. Non vi è alcuna negazione della “naturalità”, poiché nel caso dell’inizio della vita si tratta di “naturalità” della vita nascente, mentre nel caso della cessazione delle funzioni cerebrali si tratta di “naturalità” della morte.

In questa pagina, momenti di vita in  ospedale; 
sopra, la felicità per la nascita di un bambino

In questa pagina, momenti di vita in ospedale; sopra, la felicità per la nascita di un bambino

Trapianto di organi
Ovviamente, l’impiego di tecnologie rianimative e il bisogno di organi vitali per la chirurgia dei trapianti pone oggi in modo nuovo il problema della diagnosi dello stato di morte. L’attuale, diciamo così, nuova diagnosi non ha “mutato” la nozione di morte – come sostiene Galli Della Loggia –, ma semplicemente l’ha precisata.
Il progresso e la diffusione della medicina e chirurgia dei trapianti sono una meravigliosa conquista, naturalmente se espianto di organi, trapianto di organi e donazione di organi rispettano alcune fondamentali condizioni. E vorrei anche far presente che la stessa trasfusione di sangue è una forma di trapianto.
Mi soffermo soprattutto sugli espianti, trattandosi del tema sollevato da Galli Della Loggia.
Credo doveroso ricordare che già il 14 maggio 1956, Pio XII, rivolgendosi Ai delegati dell’Associazione italiana donatori di cornea e dell’Unione italiana ciechi, enunciò il seguente criterio: «Con l’avvento del trapianto di organi, iniziato con le trasfusioni di sangue, l’uomo ha trovato il modo di offrire parte di sé, del suo sangue e del suo corpo, perché altri continuino a vivere. Grazie alla scienza e alla formazione professionale e alla dedizione di medici e operatori sanitari [...] si presentano nuove e meravigliose sfide. Siamo sfidati ad amare il nostro prossimo in modi nuovi; in termini evangelici, ad amare «sino alla fine» (Gv 13,1), anche se entro certi limiti che non possono essere superati, limiti posti dalla stessa natura umana».
Non mi soffermo sui trapianti autoplastici, in cui l’espianto e il trapianto avvengono sulla stessa persona e che sono legittimati dal principio di totalità, per cui è possibile disporre di una parte per il bene integrale dell’organismo.
Circa, invece, il prelievo di organi nei trapianti omoplastici, nei quali cioè il prelievo viene operato su individuo della stessa specie del ricettore, esso può avvenire da donatore vivo o da donatore cadavere.
Nel primo caso, il prelievo è legittimo a condizione che si tratti di organi il cui espianto non implichi una grave e irreparabile menomazione per il donatore. Riporto il concetto nella formulazione data da Giovanni Paolo Il nell’allocuzione del 20 giugno 1991 Ai partecipanti al primo Congresso internazionale sui trapianti di organo: «Una persona può donare soltanto ciò di cui può privarsi senza serio pericolo per la propria vita o identità personale e per una giusta e proporzionata ragione».
Nel secondo caso, il prelievo è legittimo a seguito di una diagnosi di morte certa del donatore. «Il cadavere, infatti, non è più, nel senso proprio della parola, un soggetto di diritto perché è privo della personalità che sola può essere soggetto di diritto [...] Pertanto, destinarlo a fini utili, moralmente ineccepibili e anche elevati» è una decisione da «non condannare, ma da giustificare pienamente». Così Pio XII, nel ricordato discorso del 14 maggio 1956.
Tuttavia, secondo l’attuale posizione della Chiesa, non tutti gli organi sono eticamente donabili. Dal trapianto vanno esclusi l’encefalo e le gonadi, che assicurano l’identità rispettivamente personale e procreativa della persona.

Personale medico al lavoro in corsia

Personale medico al lavoro in corsia

La donazione di organi
Il trapianto presuppone una decisione anteriore, libera, consapevole e disinteressata da parte del donatore o di qualcuno che legittimamente lo rappresenti, di solito i parenti più stretti. Fu lo stesso Pio XII, nel citato intervento del 14 maggio 1956, ad affermare: «È una decisione di offrire, senza alcuna ricompensa, una parte del corpo di qualcuno per la salute e il benessere di un’altra persona. In questo senso, l’atto medico del trapianto rende possibile l’atto di oblazione del donatore, quel dono sincero di sé che esprime la nostra essenziale chiamata all’amore e alla comunione». La necessità della decisione libera, consapevole e disinteressata del donatore è data appunto dal fatto che l’espianto, nel caso largamente prevalente di espianto da cadavere, è possibile e lecito solo dopo la sua morte scientificamente accertata. Perciò non è pertinente parlare di «impellente richiesta dei vivi di restare in vita a spese di chi muore», come pure è poco rispettoso e del tutto sbrigativo parlare del «corpo umano» del donatore «ridotto a un magazzino di parti di ricambio».
Insomma, o il donatore è vivo, e allora spetta a lui decidere di donare; o è morto, e allora si richiede il suo anteriore consenso. Si può discutere del silenzio/assenso dei virtuali donatori, ma non c’è dubbio che la posizione della Chiesa sia quanto mai chiara. Quando, infatti, essa sostiene la difesa e la promozione della vita «dal concepimento al suo naturale tramonto» si attiene a una nozione di vita e di morte rigorosamente confermata dalla scienza che, nel caso di inizio della vita, è costantemente chiamata dalla Chiesa a non desistere da una sempre più approfondita ricerca, mentre nel caso dell’accertamento della morte accetta dalla scienza le più recenti e comprovate conclusioni. Vorrei ricordare, in proposito, che nel paragrafo conclusivo della tanto contestata enciclica di Paolo VI Humanae vitae (1968) – con richiamo a un testo del Concilio Vaticano II (Gaudium et spes, 51) – si ribadisce che «non vi può essere contraddizione tra le leggi divine che reggono la trasmissione della vita e quelle che favoriscono un autentico amore coniugale».
Tornando al tema dei trapianti, voglio ricordare che, alla soglia degli anni Settanta del secolo lasciato alle spalle, sostenni con convinto vigore e del tutto controcorrente il professor Paride Stefanini autore del primo trapianto di fegato in Italia. Lo feci nei termini, nei limiti, ma anche con l’apertura di vedute recepite nel nostro tempo dall’insegnamento della Chiesa.
Il dramma di una madre che assiste il figlio in un reparto di terapia intensiva

Il dramma di una madre che assiste il figlio in un reparto di terapia intensiva

La morale cristiana e cattolica non è un codice statico di norme pratiche irreformabili; immutabili sono i principi, mentre la loro pratica applicazione accompagna il cammino dell’umanità secondo un processo ascensionale, descritto con felice immagine da Giovanni Paolo II in apertura dell’enciclica Fides et ratio (1998) con le parole: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità».
La Chiesa ­– lo creda Ernesto Galli Della Loggia – non ha mai acconsentito né acconsente a cedere, sul piano morale, sotto la spinta «dell’impellente richiesta dei vivi di restare in vita a spese di chi muore». Purtroppo, sia per gli ostinati pregiudizi dei suoi avversari sia anche, talvolta, per lo zelo inconsulto di difensori impreparati, l’insegnamento della Chiesa non è sempre sufficientemente conosciuto.
Aggiungerò, per concludere, che fu anche per tale motivo che, nel periodo in cui presiedetti il dicastero pontificio della Pastorale sanitaria, pubblicai (1994), con l’aiuto di esperti di affermato valore, la prima in assoluto Carta degli operatori sanitari, distribuita in numerose edizioni linguistiche. Essa offre una sintesi organica ed esauriente della posizione della Chiesa su tutto quanto attiene all’affermazione, in campo biomedico, del valore primario della vita: di tutta la vita e della vita di ciascun essere umano. Questa Carta incontrò tempestiva e piena approvazione da parte della Congregazione per la dottrina della fede.


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