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UNIVERSITA'
tratto dal n. 01/02 - 2005

L’apertura della Conferenza europea universitaria a Palazzo Madama

La pace è solo opus iustitiae


Il 7 febbraio 2005 sugli scanni dei senatori sedevano i rappresentanti degli studenti di 33 Università straniere e di 12 italiane. Per ascoltare un intervento del nostro direttore sulla costruzione dell’Europa. Ecco le sue parole


di Giulio Andreotti


Un momento della giornata di apertura della Conferenza nell’aula di Palazzo Madama, il  7 febbraio

Un momento della giornata di apertura della Conferenza nell’aula di Palazzo Madama, il 7 febbraio

Sono particolarmente lieto e onorato, cinque anni dopo l’incontro alla Città universitaria romana, di essere stato invitato a prendere la parola in questo nuovo appuntamento della Conferenza europea, che si svolge – fatto assolutamente eccezionale – nell’aula delle sedute plenarie del nostro Senato.
Vi è un altro motivo molto significativo da rilevare. La vostra Conferenza si inserisce nel calendario delle celebrazioni del settimo centenario di vita dell’Università della Sapienza che affonda appunto le antiche origini nel momento in cui Dante Alighieri con la sua Divina Commedia assicurava all’Italia una posizione tuttora dominante nella storia letteraria universale.
Nell’aula in cui ci troviamo si riunì per la prima volta nel 1948 il Senato di quella Repubblica che il popolo italiano aveva due anni prima creato con il referendum popolare eleggendo nel contempo l’Assemblea che redasse – in uno spirito di straordinaria collaborazione – la Costituzione repubblicana.
Per un gruppo di noi giovanissimi rappresentò una forte emozione e una esperienza esaltante l’appartenere a un consesso che vedeva, accanto a personalità come Benedetto Croce, uomini di Stato e di governo che avevano ricoperto rilevanti incarichi prima del ventennio di dittatura. Ma vi erano anche uomini e donne che per non piegarsi alla dittatura stessa avevano testimoniato con lunghi anni di carcere o di relegazione al confino di polizia.
L’articolo 11 della nostra Costituzione è emblematico e segna uno degli indirizzi fondamentali ai quali ci siamo ispirati e dovremo sempre attenerci, indipendentemente dalle formule di governo e dalle alleanze o divergenze politiche.
«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
È su questa rinuncia costruttiva a parte della sovranità nazionale – in un quadro di stretta connessione tra politica interna e politica estera – che si attualizza la vocazione europea dell’Italia.
In quel momento, a seguito delle stragi operate dal nazismo di Hitler, la Germania era isolata e dal primo tentativo di Unione europea (Bruxelles 1948) non solo furono esclusi i tedeschi, ma si configurò lo statuto relativo per impedire il riarmo della Germania e comunque controllarla rigorosamente. L’Italia non aderì a questa impostazione. Il presidente De Gasperi – una delle figure leggendarie del dopoguerra – sosteneva che, senza il coinvolgimento attivo della Germania in disegni comuni, si creavano le premesse per un terzo conflitto mondiale.
Nascono così ad opera dello stesso De Gasperi, di Konrad Adenauer e di Robert Schuman la Comunità del carbone e dell’acciaio e la Comunità europea di difesa.
La prima ebbe un felice e costruttivo sviluppo, mentre l’alleanza militare fu mandata a picco dal voto contrario alla ratifica da parte dell’Assemblea nazionale della Francia, nella quale nel frattempo alla guida del governo non era più Schuman ma Méndes France.
Gli europeisti non disarmarono e sei Paesi cominciarono a costruire uno schema di Comunità economica, firmato solennemente sul Campidoglio nel marzo 1957. Nello stesso Campidoglio vi è stato nei mesi scorsi il punto di arrivo – tuttora volto a ulteriori sviluppi – di una Comunità che è divenuta Unione con 25 Paesi membri per cui veramente possiamo dirci espressione del continente europeo.
Lungo questi quarantotto anni molto cammino si è fatto, a cominciare dalla ricordata quota 25 rispetto ai sei aderenti iniziali. Dall’ambito strettamente economico si è gradualmente arrivati all’Unione politica, attraverso tappe non facili.
Un settore a lungo tenuto lontano dalle politiche comuni fu, ad esempio, quello della scuola. Forse anche perché in alcuni Stati è di competenza federale. Ricordo che per poter fare incontrare informalmente i relativi ministri si trovò, la prima volta, l’espediente di farli invitare dagli organizzatori sportivi delle Universiadi.
Non sto qui a rifare la storia dei piccoli e dei grandi passi compiuti, che ebbe una svolta decisiva con il passaggio da Comunità a Unione.
Forse a Maastricht fummo troppo ambiziosi (e tuttora lo siamo) parlando di «politica estera e di sicurezza comune». Sarebbe stato e sarebbe più realistico parlare di graduale convergenza in questa proiezione esterna dell’Unione. Anche se con la Costituzione – di cui i 25 parlamenti stanno discutendo la ratifica – è stato creato un ministro degli Esteri dell’Unione. Sarà un salto effettivo di qualità quando questo diverrà il solo e non il ventiseiesimo ministro degli Esteri.
La ricerca di una piattaforma comune è ora collegata anche alle discussioni in corso sulla riforma della Organizzazione delle Nazioni Unite. Non solo del Consiglio di sicurezza ma dell’intera struttura. Non mi sembrano realistici i progetti di strutturare l’Onu per continenti. Forse per l’Europa sarebbe possibile ma non per gli altri. Pensiamo all’Asia ad esempio.
Comunque per noi dell’Unione europea la ricerca di convergenze operative è assolutamente necessaria. Abbiamo dato e stiamo tuttora dando un penoso spettacolo di divisione politica nell’occasione della crisi irachena.
Ma si inserisce qui il tema più vasto del rapporto tra l’Unione europea e il resto del mondo. Attenzione. Nei primi documenti dopo gli inizi del 1957 si trova spesso l’affermazione che: «Non siamo una fortezza», «non siamo chiusi verso l’esterno».
Il doverlo enunciare significa che negli altri vi era questa impressione. Nonostante vi fossero chiari segni di apertura, a partire dai programmi di contatti con i Paesi A.C.P. (Africa, Caraibi, Pacifico) impostati non solo e non tanto con aiuti finanziari a queste aree poco sviluppate, ma con una partecipazione pratica al decollo di loro strutture rappresentative.
Si inserisce qui (ma io mi limito a poche altre enunciazioni perché voglio lasciare ampio tempo alle vostre domande) il grande tema del rapporto tra Europa e Stati d’America.
A lungo questo rapporto ha avuto l’espressione più solida e costruttiva nell’Alleanza atlantica, con la quale si creò una piattaforma prevalentemente militare tale da fronteggiare il pericolo sovietico. Dovevamo essere più forti di loro per scoraggiarne le tentazioni e i disegni aggressivi, che avevano purtroppo avuto attuazioni nefaste in Cecoslovacchia e altrove. La parola magica era il deterrente; e in effetti questa deterrenza ha funzionato. Dopo lunga e paziente attesa la perestrojka di Gorbaciov portò al dissolvimento dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche senza che le forze della Nato abbiano mai sparato un colpo di cannone. La riunificazione di Berlino simbolizzò la vittoria di questa storica impostazione politica.
Sono particolarmente lieto e onorato, cinque anni dopo l’incontro alla Città Universitaria romana, di essere stato invitato a prendere la parola in questo nuovo appuntamento della Conferenza europea, che si svolge – fatto assolutamente eccezionale – nell’aula delle sedute plenarie del nostro Senato...
Più tardi l’Alleanza (che avrebbe dovuto saggiamente sciogliersi e decise invece una linea di ampliamento con gli ex Stati “satelliti”) ha trovato – con la piattaforma cosiddetta di Pratica di Mare – un modus vivendi cooperativo con la Federazione Russa.



Devo fare qui un cenno – strettamente transatlantico – alla Organizzazione della sicurezza e cooperazione europea, nata quasi profeticamente nel 1975 in una fase ancora molto tesa nei rapporti Est-Ovest. È il famoso Atto unico di Helsinki, sottoscritto dagli Stati d’America e dal Canada con tutti i Paesi europei (salvo l’Albania, allora secessionista e isolata). Per illuminata visione del papa Paolo VI firmò anche la Santa Sede.
Non fu facile far comprendere il potenziale costruttivo dell’Atto di Helsinki. Ricordo la splendida risposta data da Aldo Moro (che firmò come presidente italiano ma anche come presidente di turno della Comunità) a chi obiettava la stranezza dell’impegno preso da Breznev, il quale continuava a chiamare satelliti i Paesi alleati dell’Urss: «Breznev passerà» disse Moro «e questo vincolo resterà solidamente costruttivo».
Così fu. Nel 1990, dissolta la cortina di ferro, tutti i Paesi europei (questa volta anche l’Albania) e i due nordamericani si riunirono a Parigi e firmarono il Trattato per la nuova Europa.
Giovani, è affidato a voi il compito di far sì che questo non sia – come purtroppo è tuttora per i governi e per i parlamenti – un generico indirizzo poco più che romantico. Deve e può essere invece la base per dar concretezza a un sistema di rapporti con gli Stati Uniti d’America che li tenga lontani dalle tentazioni di isolazionismo e di pre-potenza.




Un ultimo cenno devo fare a un tema di fondamentale importanza, quello della pace, che ci sarà solo se sarà costruita nella giustizia.
Un relativo equilibrio negli armamenti è necessario e non a caso la stagione molto costruttiva del disgelo tra l’Urss e l’Occidente avvenne quando Reagan e Gorbaciov – in un momento di politica internazionale validissima – concordarono la riduzione degli armamenti e dimezzarono i rispettivi arsenali nucleari. Oggi purtroppo di disarmo non si parla e, al contrario, si teorizzano dottrine molto pericolose ed equivoche come la guerra preventiva al terrorismo.
L’inquietudine e l’emozione negli Stati Uniti per la barbara aggressione dell’11 settembre 2001 è più che comprensibile. Ma in prospettiva la stessa sicurezza di quel popolo non è affidata alla superiorità strategica, bensì al loro ruolo determinante nel costruire un mondo più giusto.
I dislivelli economico-sociali sono tuttora – e forse quanto mai – stridenti. Si continua a dire, senza correzioni di un qualche valore, che non è giusto che un quarto dell’umanità goda dei tre quarti e più delle risorse globali.
La pace – ripeto – è solo opus iustitiae, cioè frutto di una forte correzione – sia pur graduale – degli abissi di differenze esistenti.
Grazie del vostro ascolto, giovani ospiti universitari. Vi rivolgo il forte augurio di scambiarvi in questi giorni di Conferenza romana validi spunti di analisi e di propositi.
L’avvenire deve essere sempre di più affidato al dialogo. E il modello plurinazionale dei vostri incontri opera proprio in questo indirizzo. Ve ne siamo tutti profondamente grati.


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