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MEZZOGIORNO D'ITALIA
tratto dal n. 01/02 - 2005

Una lettera dal sud


Francesco Rutelli ha ragione nel dire che l’egualitarismo è una parola obsoleta. Però resta difficile capire cosa fare per colmare le evidenti differenze economiche e sociali che esistono da sempre tra le regioni italiane più ricche e quelle più povere


di Nino Novacco


Sotto, il vicepresidente della Svimez Nino Novacco; sopra, pescatori nel porto di Taranto

Sotto, il vicepresidente della Svimez Nino Novacco; sopra, pescatori nel porto di Taranto

Caro direttore, ha avuto ragione Francesco Rutelli (per quel che ne hanno riportato, spero senza eccessive forzature strumentali, i giornali italiani del 16 gennaio 2005) a dire che “egualitarismo” è parola vecchia e che una società di uguali sarebbe costosa e finta. E ha avuto ragione anche nel mettere in discussione il “welfare del Novecento”, che specie negli ultimi anni di quel secolo si è appunto nutrito, da noi, di aspirazioni egualitarie e di fughe in avanti, copiando non sempre appropriatamente talune delle scelte adottate in Paesi assai più ricchi del nostro e spingendo così l’Italia a vivere al di sopra delle proprie risorse e quindi a trovarsi al di fuori del mercato concorrenziale.
Rilevo tuttavia che se l’impressivo ed efficace messaggio lanciato da Rutelli dovesse trovare come specificazione il rinvio al “modello sociale europeo” – che francamente non mi pare esista né in politica né in istituti giuridico-amministrativi –, allora dovrei dire di essere restato sur ma faim, e con in più qualche preoccupazione in ordine alla distorta lettura che potrebbe essere data del concetto di “anti-egualitarismo”.
Io sono un vecchio meridionalista, e da oltre cinquant’anni con la Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) mi sforzo di capire quel che occorre fare in Italia per evitare che abbiano a perpetuarsi le “differenze” tra i territori, cioè tra le macroregioni e tra le Regioni politico-amministrative, con riferimento almeno a quelle differenze che hanno rilevanza economica.
In proposito sono recentemente arrivato a pensare che occorrerebbe che i Parlamenti – dell’Italia e dell’Europa che con le sue regole ci vincola anche nelle nostre scelte di politica economica – avessero il coraggio politico e civile di quantificare l’obiettivo della assai sovente evocata “convergenza” e della successiva “coesione”, definendo in modo alto ed impegnativo (in seduta congiunta? e, per un tema “nazionale” come questo – per dirla col Presidente Ciampi –, con l’opposizione solo di trascurabili minoranze, spero) la “misura” dei divari che in questo momento storico – economico e politico – si ritiene di potere e di dover indicare ai cittadini come obiettivo equo e quindi accettabile, seppur certo non per l’oggi, ma in una prospettiva di tempo impegnativamente fissata.
Quanto alla misura dell’equo divario, essa andrebbe certo definita con grande prudenza e senza estremistiche ed astratte ambizioni egualitariste, ma anche in termini e con modalità che non finiscano tuttavia col penalizzare troppo, e per troppo tempo ancora, i cittadini (e i territori). Essi – secondo un classico assunto liberale – dovrebbero tutti, quanto prima possibile, aver titolo per poter fruire non solo di pari diritti di cittadinanza, ma anche e almeno di condizioni di pari opportunità potenziali, che le istituzioni ordinarie – e in economia gli automatismi del libero mercato concorrenziale – non sempre sono state e sono capaci di assicurare.
La domanda che mi faccio è quale sarebbe oggi – secondo i politici italiani (ed europei) del centrosinistra e del centrodestra – la giusta ed equa “misura” del divario/squilibrio (nel reddito per abitante; nelle dotazioni infrastrutturali dei territori e delle economie; nei livelli della inoccupazione e della disoccupazione, o quant’altro) che essi sarebbero pronti a votare e sancire, con una maggioranza possibilmente “nazionale”, e non di parte politica. Misura a parte, mi interrogo se ad esempio – quanto a modalità di definizione di un accettabile divario economico-sociale tra aree forti ed aree deboli in Italia – sia possibile proporre seriamente che venga sancito come obiettivo politicamente e socialmente ragionevole uno scarto riferito al valore medio nazionale o europeo del Pil pro capite (alla cui determinazione i territori deboli partecipano direttamente, influenzandone in proiezione la dinamica). Occorre invece sancire, come la logica della democrazia suggerisce, che gli scarti tra regioni avanzate e regioni in ritardo vengano misurati a partire dai valori (espressi attraverso opportune medie capaci di fotografare i rispettivi livelli di benessere o di malessere) presenti nei territori sostanzialmente poveri o deboli, che vengano messi a diretto confronto con gli analoghi valori e dati dei territori sostanzialmente ricchi e forti.
Temo di aver avanzato domande e suggerimenti impertinenti, ma pertinenti alla condizione del Paese, alla natura nazionale della questione meridionale, e all’opportunità che partiti, poli ed alleanze se ne occupino seriamente quando riterranno di definire i loro prossimi programmi elettorali.


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