Erik Peterson e le riletture di Agostino nel novecento
La grazia fa la differenza
È a partire dalla grazia, e non semplicemente per il dogma trinitario o per l’escatologia, che la città di Dio si mostra distinta dalla città terrena
di Massimo Borghesi

In questa pagina, alcuni pannelli lignei policromi del soffitto della chiesa di San Martino, XII secolo, Zillis, Svizzera. Qui sopra, La fuga in Egitto
Pubblicato nel 1935, il testo di Der Monotheismus raccoglieva due studi precedenti, uno sulla Monarchia divina del 1931 e un altro su L’imperatore Augusto nel giudizio del cristianesimo antico del 1933, dimostrando con ciò una certa difformità2. Il suo intento polemico era comunque chiaro. L’obiettivo critico era dato dall’adesione dei “Deutsche Christen” della Chiesa evangelica al nazionalsocialismo, nel 1933, nonché dalla Politische Theologie di Carl Schmitt citata, in nota, al termine dell’opera. Di fronte al cortocircuito tra cristianesimo e nazionalsocialismo, Peterson, richiamandosi ad Agostino («Sant’Agostino, che s’incontra ad ogni crocevia spirituale e politico dell’Occidente, aiuti con le sue preghiere i lettori e l’autore di questo libro!»3), operava la delegittimazione di ogni possibile teologia politica. Questa, dipendente dalla concezione ellenica della monarchia divina, passata attraverso Filone a parte dell’apologetica cristiana antica, opera una giustificazione teologica del potere mondano consacrandolo nella sua assolutezza. La sua espressione più chiara, in sede cristiana, è data da Eusebio di Cesarea, vicino all’arianesimo, nel quale universalismo cristiano e universalismo romano, Chiesa e impero, Cristo e l’imperatore, si saldano senza residui4. Diversamente, come mostra Gregorio di Nazianzo, la monarchia divina nel cristianesimo è una monarchia trinitaria, concetto questo che non trova analogia nella forma terrena. In tal modo viene sancita l’impossibilità di ogni teologia politica. «Soltanto sul terreno del giudaismo e del paganesimo può esistere qualcosa come una “teologia politica”. Ma l’annuncio cristiano del Dio unitrino si pone al di là del giudaismo e del paganesimo, in quanto il mistero della Trinità esiste soltanto nella divinità stessa, non nella creatura umana»5.
Per Agostino il riconoscimento
della irriducibilità del sacro a qualsiasi
struttura politico-statale rimane nettissimo. Se c’è una realtà radicalmente secolare e niente affatto teologico-politica, essa è proprio l’impero romano cristianizzato, finalizzato al mantenimento dell’ordine mondano, cioè di un bene del tutto secolare e transeunte
Peterson pensava, in tal modo, di chiudere
la porta a ogni giustificazione teologica del nazionalsocialismo, così come
veniva svolta da uno dei suoi più recenti apologeti, il Carl Schmitt da lui
personalmente conosciuto, già autore di Politische Theologie. Vier Kapitel
zu der Lehre der Souveränität edito nel 19226. In realtà, come osserva Giuseppe Ruggieri,
«se si legge con attenzione il saggio sul monoteismo, la vera forza
dell’argomento del Peterson, quella su cui egli può fondare con ragionevolezza
un certo nesso d’interdipendenza tra un’effettiva acquiescenza alla situazione
politica esistente e una corrispondente modificazione dell’insegnamento
cristiano, è non tanto sul campo dell’ortodossia trinitaria, quanto su quello
dell’escatologia di Eusebio. La notazione che Eusebio utilizza il concetto di
monarchia divina per attribuire a Costantino un ruolo privilegiato
nell’economia cristiana non significa ancora che ciò sia collegato a una
eterodossia trinitaria»7. Secondo l’autore non è la teologia
trinitaria che, a rigore, mette al riparo dalla riduzione politica della fede.
Di per sé «anche una fede monoteistica può essere garanzia di un rapporto che
non strumentalizzi la religione al potere. Negarlo equivarrebbe a ignorare la
storia del profetismo biblico. Come all’opposto esistono i teologi di corte
anche tra gli ortodossi padri della Chiesa»8. Questo è il punto
debole dell’argomentazione di Peterson non a caso rilevato proprio da Schmitt
nella sua (tardiva) risposta a Der Monotheismus contenuta in Politische Theologie II. Per Ruggieri: «Cosa “prova” quindi il saggio di Peterson? È esso effettivamente, come sembrerebbe suggerire il titolo, un’analisi del nesso fra dogma trinitario e possibilità o impossibilità di una teologia politica, oppure esso, nonostante includa uno studio sull’evoluzione del concetto di “monarchia” divina, documenta quel nesso solo a livello di concezione della storia, nel suo rapporto con l’escatologia cristiana? Noi saremmo inclini a considerare più esatta questa seconda alternativa»9. La distanza che separa il cristianesimo dalle sue possibili traduzioni politiche non dipende tanto dal dogma trinitario quanto dalla differenza escatologica tra Regno di Dio e storia. Ed è qui che, al centro della posizione di Peterson, entra Agostino: «Ciò che hanno compiuto i padri greci in ordine al concetto di Dio, lo ha fatto sant’Agostino in Occidente in ordine al concetto di “pace”. La pace di Augusto, con cui si era combattuta nella Chiesa una teologia politica molto dubbia, appare agli occhi di sant’Agostino problematica»10. Quella pace, commenta Peterson citando il De civitate Dei (III, 30), fu preceduta da molte guerre civili. La sua versione provvidenzialistica, sostenuta da Eusebio, Ambrogio, Orosio, cede il posto a una visione più realistica per la quale la civitas terrena è luogo di conflitti sino alla fine del mondo. In tal modo «la dottrina della monarchia divina doveva fallire di fronte al dogma trinitario e l’interpretazione della pax augusta di fronte all’escatologia cristiana. […] Così come la pace, che il cristiano cerca, non viene garantita da nessun imperatore, ma è soltanto un dono di colui il quale è “più alto di ogni ragione”»11. Se la prima tesi è discutibile, la relativa validità della seconda – relativa perché, per Agostino, Dio può servirsi, per attuare la pax terrena, sempre mutevole, anche dei poteri del mondo – sta nel richiamo al modello agostiniano. Come Schmitt comprende molto bene: «Per il problema della teologia politica è decisivo il fatto che Peterson si attenga fermamente alla dottrina agostiniana dei due regni, delle due diverse “città” (di Dio e del mondo)»12. Decisivo nel senso che «Peterson si richiama per la sua liquidazione della teologia politica alla dottrina di sant’Agostino»13. Lo può fare perché, al di là dei riferimenti alla Trinità, è l’escatologia il vero perno della sua argomentazione. Per questo, «dopo i teologi greci del concetto di Trinità, alla fine della trattazione fa apparire ancora rapidamente il grande padre latino della Chiesa Agostino come il teologo del concetto escatologico della pace, al quale egli ha dedicato la sua trattazione, e che ha invocato nella forma di una preghiera. In questo modo la trattazione trova una conclusione edificante, per quanto pure assai affrettata, che fa sparire e occulta la vera problematica – la miscela di spirituale e temporale, aldilà e aldiquà, teologia e politica da rendere distinguibile solo mediante precise istituzionalizzazioni –, dal momento che, non tanto come ariano, sospetto per la sua scorrettezza dogmatico-trinitaria, ma come falso escatologo, per la sua eccessiva valutazione dell’impero romano nella storia della salvezza, Eusebio diventa il prototipo di una teologia politica impossibile»14.

Gesù e il centurione
Questo beneficium – «magnum» lo definisce Agostino – è la pace. La pace terrena è il bene più grande che, nel suo ambito, possa garantire lo Stato; da essa trae vantaggio anche la civitas Dei pellegrina. È un bene riversato su tutti, buoni e cattivi, che deve essere perseguito tanto dall’impero pagano così come da quello permeato dal cristianesimo.
La lettura di Lettieri, sensibile alla lezione di Peterson, si incontra qui con quella propria di Ratzinger nell’affrontare Agostino. Una lettura che dimostra come, dopo Peterson, l’interesse per Agostino si incentri proprio sul senso escatologico della città di Dio, unitamente a una concezione non teocratica della città terrena20. Non contraddice quanto detto il fatto che Ratzinger, nel suo primo lavoro dedicato ad Agostino, Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche, del 1954, non citi affatto Peterson. Cionondimeno nelle poche pagine dedicate al rapporto tra Chiesa e Stato v’è un’evidente coincidenza con la prospettiva petersoniana. «Del tutto in antitesi con il punto di partenza di Ottato» scrive Ratzinger, «Agostino quindi ha praticamente preso come base la situazione della Chiesa delle catacombe quando ha progettato la sua determinazione del rapporto tra Chiesa e Stato. La Chiesa non appare ancora per nulla come elemento attivo in questo rapporto, l’idea di una cristianizzazione dello Stato e del mondo non appartiene decisamente ai punti programmatici di sant’Agostino»21. Di fronte alla lettura di von Harnack, per il quale la pax terrena, in Agostino, può nascere solo dalla giustizia in possesso della Chiesa, Ratzinger obietta che «di subordinazione dello Stato alla Chiesa non si può parlare in nessun passo di Agostino»22. I testi chiariscono che «Agostino non ha stretto nessun intimo patto con lo Stato, bensì che gli si è opposto assumendo quel comportamento che era eredità cristiana delle origini: sopportarlo pazientemente così come esso è, non tentare di mutarlo, poiché è fuori delle possibilità cristiane»23.

Gesù guarisce lo storpio