La mostra a Roma su padre Matteo Ricci
Un gesuita alla corte dei Ming
di Pina Baglioni
Ritratto di Matteo Ricci di Emanuele Yu Wen-Hui, detto Pereira, in deposito presso la Chiesa del Gesù, Roma
Una mostra dedicata a Matteo Ricci che esordisce con un orologio non è certo un caso: i marchingegni meccanici infatti, insieme con le carte geografiche, i mappamondi e gli astrolabi – alcuni esemplari sono visibili al Vittoriano –, furono i primi “grimaldelli” con cui quest’uomo straordinario scardinò le inaccessibili porte del Celeste Impero alla fine del XVI secolo, suscitando un’ammirazione e un interesse inimmaginabili in un mondo chiuso a qualsiasi sollecitazione esterna. Percorrendo l’itinerario espositivo, ecco che via via si conoscono gli studi, i maestri, le tappe, le opere fondamentali di un’esistenza fuori dal comune. Ricci era nato da nobile famiglia a Macerata il 6 ottobre 1552, appena due mesi prima che Francesco Saverio morisse su un’isoletta davanti a Canton, a un passo dal traguardo di annunciare il Vangelo in Cina. Disattendendo il progetto paterno di una carriera amministrativa presso la Corte pontificia, il 15 agosto 1571 Matteo bussava al noviziato dei Gesuiti in Roma per entrare nella Compagnia. Presso il Collegio Romano frequentò i corsi di retorica e di filosofia. Proprio qui si formò in quella cultura europea che più tardi introdurrà nel regno della Cina: sulla Retorica e la Poetica di Aristotele, interpretato e commentato da Tommaso d’Aquino, e sui latini Cicerone e Quintiliano. Soprattutto sul Cicerone del De amicitia, che qualche anno più tardi farà riecheggiare nell’omonimo trattato da lui composto in cinese: settantasei sentenze tratte da classici greci e latini che tanto lo faranno apprezzare presso quel popolo; l’autografo del testo cinese e della traduzione italiana è esposto in mostra. Studiare filosofia, a quei tempi, voleva dire studiare anche la matematica, l’aritmetica e la geometria. E nell’ambito delle scienze matematiche venivano incluse anche astronomia, geografia, cartografia, scienze della misurazione del tempo e dello spazio, trattazioni sugli orologi e gli astrolabi. Tutto ciò era considerato, presso il Collegio Romano, nient’altro che mero strumento e supporto dell’evangelizzazione. Ma il maestro decisivo nella formazione del giovane Ricci, colui che gli consegnerà le “chiavi” per entrare in Cina, fu, senza dubbio alcuno, il tedesco Cristoforo Clavio, uno dei più celebri matematici del tempo: da lui ricevette la preparazione più avanzata nella geometria euclidea e nell’astronomia aristotelico-tolemaica. Con i maestri del Collegio Romano, invece, iniziò gli studi teologici, che perfezionerà a Goa, in India, dove, fin dai tempi di Francesco Saverio, c’era un importante seminario.L’immenso bagaglio scientifico e teologico del giovane gesuita si fonderà, come rivelano le sue Lettere (1580-1609), con una straordinaria simpatia umana nei confronti delle diversità culturali: pur essendo uno dei più giovani padri del collegio di Goa, non temette di denunciare il diverso trattamento dei giovani indiani accolti nella Compagnia, rispetto agli europei. Ai padri indiani infatti venivano affidate solo le «parrocchie basse» per impedire che insuperbissero. Così come qualche, tempo dopo, dovette difendere, a Macao, l’iniziativa di impiegare giovani insegnanti cinesi per far apprendere la lingua ai padri gesuiti. Insegnanti che i suoi confratelli avrebbero volentieri «rimandato a zappare». «Questi padri non sanno portare amore alle cose della cristianità» dirà il Ricci. Ma dopo Clavio, ecco un altro fondamentale incontro per il giovane: quello con padre Alessandro Valignano, il visitatore delle missioni gesuitiche d’Oriente, arrivato nell’isola di Macao nel 1578. Fu lui il primo a comprendere i motivi dei numerosi fallimenti dei precedenti tentativi dei gesuiti e, prima ancora, dei francescani di evangelizzare la Cina; per cui elaborò quello che poi, più tardi, sarebbe stato chiamato il metodo dell’“inculturazione”, vale a dire dell’assimilazione dello straniero alla cultura del Paese, a partire proprio dall’acquisizione perfetta della lingua. Impresa, questa, realizzata con grande successo da Matteo Ricci anche grazie alla sua prodigiosa memoria. Così, dopo cinque tentativi falliti dal suo compagno Michele Ruggeri di entrare in Cina, ecco che finalmente, nel settembre del 1583, il governatore della città di Zhaoqing, Wang Pan, accoglieva la richiesta del Ruggeri e di Matteo Ricci di poter costruire nella stessa città una casa con chiesa: era un primo passo, decisivo, con il quale si metteva piede all’interno del Paese. Valignano ordinò ai due padri di puntare dritti su Pechino per ottenere la conversione dell’imperatore o almeno il permesso di libera predicazione del cristianesimo. Ricci giungerà nella capitale solo diciotto anni dopo. Ai successi si alterneranno momenti difficilissimi. Tutti annotati nell’Entrata della Compagnia di Gesù e Christianità nella Cina, un’opera grandiosa, l’unica finestra aperta, anche nei secoli successivi, su quell’immenso e misterioso Paese. Al Vittoriano si può ammirare la riproduzione di una pagina autografa.
Sopra, Cristoforo Clavio, pagina dal Trattato sulla costruzione e l’uso degli orologi,1586, Biblioteca Comunale Mozzi-Borgetti, Macerata
L’imperatore Wanli, che Ricci non poté mai incontrare, decise che quello straniero poteva vivere all’ombra del suo palazzo, senza mai più allontanarsi dalla capitale. Gli conferì il titolo di mandarino e provvide al suo mantenimento e a quello di altre persone della casa, fino alla morte del “maestro del grande Occidente”, avvenuta l’11 maggio del 1610. Derogando per la prima volta nella storia della Cina a una ferrea tradizione, l’imperatore concesse un terreno per la sepoltura di uno straniero che non vi morisse in missione diplomatica. La sua tomba è onorata ancora oggi a Pechino. Il giorno della sua morte, i cristiani in Cina erano duemilacinquecento.