Pacem in terris e azione politica
L’intervento del senatore Giulio Andreotti al convegno “A quarant’anni dalla Pacem in terris: i nuovi segni dei tempi”, Pontificia Università Lateranense, Roma, 11 aprile 2003
Giulio Andreotti
Mentre celebriamo la Pacem in terris e l’illuminato e tempestivo richiamo che ne ha fatto il Santo Padre nel Messaggio di Capodanno di questo triste e tormentato 2003, mi sembra doveroso ricordare qui il reiterato sostegno che la Santa Sede ci ha sempre dato nella ispirazione ed elaborazione di una politica esterna, impostata rigorosamente sulla solidarietà e sulla pace.
Parto dagli anni degasperiani. Gravava duramente sull’Italia la pesante eredità della guerra “fascista”; e, nonostante la partecipazione dell’esercito italiano accanto agli alleati pochissime settimane dopo la pubblicazione dell’armistizio (è lì a ricordarlo il cimitero di Montelungo nella piana di Cassino), un gelido isolamento incombeva su di noi. Le porte dell’Onu (la nuova Società delle nazioni) ci sarebbero state aperte solo nel 1955 anche se nel 1949 noi avevamo già aderito alla Alleanza atlantica dopo una coraggiosa battaglia parlamentare interna, nella quale – qui si pone il mio primo “ricordo” in questa gratificante partecipazione al convegno promosso da monsignor Fisichella – oltre all’ostilità dell’opposizione socialista e comunista si dovettero rimontare delicati contrasti nella maggioranza. L’articolo 11 della Costituzione, che ripudia la guerra, era stato salutato con entusiasmo, nell’onda di quella tradizione religiosa popolare che scongiura nelle sue preghiere la guerra accanto alla peste e alla fame. L’idea di un patto militare non era di casa negli ambienti cattolici, anche a prescindere dalla non sopita diffidenza contro la propaganda per l’asse Roma-Berlino-Tokyo e dintorni. Convincere che solo attraverso una forte intesa armata tra le due sponde dell’Atlantico si potesse bloccare l’espansionismo dei sovietici non era facile. E anche all’interno della Democrazia cristiana forti erano le perplessità e addirittura le avversioni, in persone spiritualmente esemplari come Igino Giordani.
Credo si debba a monsignor Montini un suggerimento prezioso dato a De Gasperi: far ricevere dal Papa l’ambasciatore italiano a Washington che conosceva in profondità tutta la tematica, comprese le difficoltà del Congresso americano, per le ricorrenti diffidenze dall’assumere impegni esterni: ricordiamo il noto isolazionismo che, a suo tempo, aveva sconfessato il presidente Wilson impedendo l’adesione degli Stati Uniti alla Società delle nazioni.
Nel suo libro Dieci anni tra Roma e Washington l’ambasciatore Alberto Tarchiani riferisce così sull’udienza: «In un mio viaggio in Italia – nell’estate 1948 – mi fu detto, a Palazzo Chigi, che una delle ragioni di titubanza governativa era il parere del Vaticano, contrario alla nostra entrata nel Blocco atlantico. Pensai occorresse andare a sentire direttamente che cosa pensasse Pio XII, se fosse stato così cortese e fiducioso da lasciarmelo intendere. Fui ricevuto l’8 settembre a Castel Gandolfo e trattenuto, contro ogni consuetudine, molto benevolmente, per quaranta minuti. Non riferisco quella conversazione ma posso attestare che il Santo Padre, pur interamente fedele alla dottrina della fratellanza e della pace nel mondo, era assolutamente avverso all’idea che l’Italia, in caso di una guerra, dovesse passare – per incapacità a difendersi – “sotto la cortina di ferro”. La ripeto perché era un’aspirazione ovvia, del resto risultante da tanti atti pubblici e messaggi ufficiali ed ufficiosi del Pontefice e della Santa Sede. Quando riferii a De Gasperi dello stato d’animo del Papa, mi disse di non dubitarne, giacché sapeva quanto nutrisse opinioni nette e risolute. Cadde pertanto così l’abusiva leggenda che il Santo Padre si opponesse alle forme più adeguate ed efficaci per la difesa del Paese, ed anche, implicitamente, della Chiesa».
Sin qui la versione per così dire ufficiale.
Per quel che ricordo, dell’udienza non fu data notizia ufficiale, ma all’indomani l’Osservatore Romano dedicava in prima pagina un ampio servizio su disordini in corso nella zona rossa di Berlino. Quali ricordi queste notizie germaniche rievocassero in Pio XII non è difficile immaginare.
L’udienza produsse comunque un risultato decisivo. Tarchiani aveva rappresentato al Santo Padre i termini esatti del problema: l’Europa libera, da sola, non era in condizioni di poter fronteggiare militarmente l’Unione Sovietica; che tra l’altro in caso di attacco avrebbe potuto contare sulla cooperazione (o almeno sulla… non belligeranza) dei forti partiti comunisti occidentali. La defenestrazione – termine macabramente esatto – del governo democratico cecoslovacco attestava che la diffidenza era necessaria.
Le istruzioni che seguirono produssero un effetto immediato. Il Papa era rimasto colpito dalla lucidità dell’analisi del laicissimo ambasciatore Tarchiani e dalla ineluttabilità del rimedio difensivo. Che tale fosse – difensiva – l’alleanza euroamericana in elaborazione si poteva esser sicuri in piena coscienza.
Nei nostri gruppi parlamentari – Senato e Camera dei deputati – il via libera a De Gasperi, prima tanto ostacolato, divenne addirittura agevole.
Il giorno della caduta del muro di Berlino e, subito dopo, il giorno della avvenuta dissoluzione dell’impero sovietico, senza che fosse stato sparato un colpo di cannone e senza essersi mai avuta neppure una minima tentazione aggressiva da parte della Nato, pur con molte provocazioni (ricordiamo le crisi di Berlino), il pensiero di noi superstiti del 1949 andò con riconoscenza a Pio XII e a monsignor Montini, del quale ultimo troviamo più tardi forti tracce in altre scelte di grande rilievo, una in particolare dopo la sua elevazione al pontificato.
Monsignor Montini, la cui amicizia con De Gasperi è risaputa, aveva vissuto la passione con cui il presidente aveva lavorato per dare organicità alla parte europea della difesa comune, attraverso un Trattato di integrazione: la Ced (Comunità europea di difesa). Purtroppo la difficile situazione interna dell’Italia e la sconfitta dell’ultimo governo De Gasperi nel luglio 1953 impedirono la ratifica italiana del Trattato stesso, che fu poi definitivamente affossato dalla Francia pochi giorni dopo la morte del nostro presidente nell’agosto 1954.
Quando iniziarono gli approcci per riprendere, questa volta in un ambito economico, un piano di intese comunitarie europee, monsignor Montini – parlando con Moro, con Taviani e con altri di noi ex fucini con i quali conservava un illuminante rapporto – sostenne con vigore che non ci si poteva limitare ad intese mercantili; e che doveva darsi vita ad una comunità politica e culturale. Da quando nel 1957 inizia la Comunità economica europea continuò costante questo richiamo; che del resto rappresenterà il fulcro dell’appoggio della Santa Sede all’Europa unita, espresso reiteratamente dai papi, prima e dopo Paolo VI: ma in modo particolarissimo da papa Montini, come fu ricordato in un indimenticabile convegno tenuto su questo tema a Milano; e come ha documentato monsignor Macchi nelle sue puntuali pubblicazioni biografiche.
Ma vi è un altro punto fermo della nostra politica estera, ancora più strettamente collegato con l’azione vaticana. Mi riferisco all’Atto per la cooperazione e la sicurezza europea, firmato a Helsinki nel 1975, da tutti gli Stati del nostro vecchio continente (salvo l’Albania) e compresa invece la Santa Sede, nella persona del cardinal Casaroli.
La prima idea al riguardo era stata lanciata alcuni anni prima da Mosca con l’intento primario di rendere definitivi i confini fissati dopo la Seconda guerra. Agli inizi vi era stata – proprio ratione originis – una diffusa diffidenza. Quando però nel 1972 mi ero recato in visita di governo nell’Unione Sovietica, Gromyko in particolare me ne aveva parlato con molta obiettività e dando elementi di riflessione, che ebbi modo di approfondire poco dopo con il presidente Nixon. Richard Nixon è stato un grande presidente degli Stati Uniti, che operò il riconoscimento della Cina mantenendo relazioni distese con Mosca. In questo clima trovò accoglimento l’idea di un protocollo euroamericano, che non era un vero e proprio trattato, ma una solenne dichiarazione di intenti che, come ho detto, fu firmata nella capitale finlandese nel 1975.
Nixon era stato estromesso nell’agosto del 1974 ma ormai l’approccio americano sul tema della Csce era acquisito; e sotto la presidenza di Gerald Ford l’anello di congiunzione con l’Europa veniva concretizzato. Sarà George Bush a sottoscrivere nel 1990 la trasformazione della Csce in Osce.
Aldo Moro, che nel 1975 aveva firmato nella duplice veste di presidente del Consiglio italiano e di presidente di turno della Comunità europea, rispose nitidamente a chi avanzava critiche per una ritenuta contraddizione della posizione sovietica; in quanto, proprio in quei giorni, avevano ribadito la sovranità limitata dei Paesi del Patto di Varsavia. Breznev passerà – disse Moro – e il seme che abbiamo gettato darà un giorno il suo frutto.
In effetti, venticinque anni dopo – non solo scomparso da questa terra il signor Breznev, ma abbattuto il muro di Berlino e liquidato l’impero dell’Est – nel novembre 1990 a Parigi l’impegno di cooperazione fu ribadito dando ad esso la forma di un Trattato, denominato: Carta della nuova Europa. Purtroppo Moro non c’era più e nemmeno Paolo VI che nel momento di Helsinki era stato con Aldo in stretto contatto e che sapemmo aveva dovuto fare opera di convincimento anche su una parte della Curia romana. Interessante rilievo è che un solo personaggio firmò sia a Helsinki che a Parigi: il cardinale Casaroli, accompagnato in ambedue gli appuntamenti da monsignor Achille Silvestrini.
Sul piano intergovernativo l’attività di questa Organizzazione non è stata notevole, ma la relativa assemblea parlamentare ha funzionato e funziona tuttora bene: con una attenta partecipazione dei deputati e senatori americani che in altre sedi, come l’Unione interparlamentare, non esiste più. Credo che in un momento di crisi profonda delle istituzioni internazionali; di prestigio tolto all’Organizzazione delle nazioni unite; di lacerazioni politiche entro l’Unione europea (in contrasto drammatico con l’allargamento); di difficile colloquio con l’America; credo che un sussulto di volontà che ridia (o forse dia) forza alla Osce potrebbe rappresentare – contro ogni tendenza disgregativa ed isolamento tra continenti – la soluzione per far riprendere all’umanità un cammino in salita, che certamente non saranno mai le guerre a poter costruire.
Un quarto indirizzo adottato e coltivato dall’Italia in costante armonia ed anzi spesso sotto la spinta vaticana riguarda gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo e in particolare la cancellazione dei loro debiti. Su quest’ultimo tema Giovanni Paolo II è intervenuto con vigore più volte, compresa l’esortazione ai parlamentari e pubblici amministratori riuniti per il Giubileo del 2000. Purtroppo l’impegno adottato, anche in sedi plurinazionali, di destinare ai Paesi poveri una quota, sia pur piccola, del prodotto interno lordo non è stato soddisfatto che in misura molto ridotta. Tuttavia lo si è di recente ribadito sia nel nostro Parlamento che in sedi internazionali; rimane un punto fermo anche nella salvaguardia della pace che non può essere che opera di giustizia.
Nel complesso la quota italiana è stata pari ad una media del 19% dei debiti complessivi dei Paesi beneficiari. Specificamente l’Italia ha annullato il 78% del debito dell’Uganda, il 28% di quello dell’Etiopia e il 23% di quello del Mozambico. Con tre accordi (Tanzania, Burkina Faso e Mauritania) si è addivenuti alla cancellazione totale.
Non si può però non sottolineare che quando il Papa sollecita questi interventi è moralmente sostenuto anche dal contributo che le missioni cattoliche hanno dato e danno in tutti i continenti allo sforzo di crescita di tanti popoli diseredati; non di rado pagando di persona fino al sacrificio.
Alcuni anni fa, riunendo i ministri della Sanità dell’America Latina per concordare un programma italiano di aiuto, invitammo ad assisterci il vescovo di Recife monsignor Hélder Câmara. Suscitò profonda emozione, formulando una preghiera a Dio, che ha creato il mondo e non un primo, un secondo e un terzo mondo.
Mi sia consentito, tra parentesi, un rilievo per così dire terminologico. All’inizio di due grandi encicliche si trova uno stesso vocabolo. La Rerum novarum di Leone XIII parla della «ardente cupidigia di cose nuove che ha cominciato ad agitare i popoli». La Pacem in terris esordisce con: «Tutti gli uomini che in ogni tempo “cupidissime appetiverunt pacem”». Merita una riflessione.
Riusciranno le nuove generazioni ad orientare nel senso giusto la loro cupiditas?
Tredici anni or sono ebbi l’onore in un convegno a Bergamo di parlare su: “La pace oggi: aspirazione dei popoli e responsabilità dei governi”. Voglio rileggere la conclusione:
«Convenuti qui nel centenario della nascita di Angelo Roncalli, in un momento in cui il cuore di tutti gli uomini è turbato; (e talvolta non è sintomo di viltà l’aver paura) sentiamo aleggiare su di noi il suo rasserenante ottimismo, la sua fiducia ancorata al Solo che non trema e non tradisce. E viene spontanea alle nostre labbra la preghiera: resta con noi, papa Giovanni, perché fa sera, ed una sera tanto buia».
Sono conclusioni che, purtroppo, mantengono una dolorosa attualità.
Senza alcuna confusione tra il nostro ambito civile e l’appartenenza alla comunità cristiana, credo che non vi siano alternative valide per assolvere ai nostri doveri politici al di fuori di un inflessibile servizio alla pace per tutte le genti da costruirsi, come suona l’enciclica che siamo qui a ricordare: nella verità, nella giustizia, nella carità e nella libertà.
I papi non dispongono di truppe, ma hanno le legioni della carità operante e, più in generale, possono armare gli spiriti. Come sta facendo con una profondità straordinaria Giovanni Paolo II, che appare l’unico punto fermo in un mondo disorientato e smarrito. Che Gesù aiuti il suo Vicario in terra!
Parto dagli anni degasperiani. Gravava duramente sull’Italia la pesante eredità della guerra “fascista”; e, nonostante la partecipazione dell’esercito italiano accanto agli alleati pochissime settimane dopo la pubblicazione dell’armistizio (è lì a ricordarlo il cimitero di Montelungo nella piana di Cassino), un gelido isolamento incombeva su di noi. Le porte dell’Onu (la nuova Società delle nazioni) ci sarebbero state aperte solo nel 1955 anche se nel 1949 noi avevamo già aderito alla Alleanza atlantica dopo una coraggiosa battaglia parlamentare interna, nella quale – qui si pone il mio primo “ricordo” in questa gratificante partecipazione al convegno promosso da monsignor Fisichella – oltre all’ostilità dell’opposizione socialista e comunista si dovettero rimontare delicati contrasti nella maggioranza. L’articolo 11 della Costituzione, che ripudia la guerra, era stato salutato con entusiasmo, nell’onda di quella tradizione religiosa popolare che scongiura nelle sue preghiere la guerra accanto alla peste e alla fame. L’idea di un patto militare non era di casa negli ambienti cattolici, anche a prescindere dalla non sopita diffidenza contro la propaganda per l’asse Roma-Berlino-Tokyo e dintorni. Convincere che solo attraverso una forte intesa armata tra le due sponde dell’Atlantico si potesse bloccare l’espansionismo dei sovietici non era facile. E anche all’interno della Democrazia cristiana forti erano le perplessità e addirittura le avversioni, in persone spiritualmente esemplari come Igino Giordani.
Mentre celebriamo la Pacem in terris e l’illuminato e tempestivo richiamo che ne ha fatto il Santo Padre nel Messaggio
di Capodanno di questo triste e tormentato 2003, mi sembra doveroso ricordare qui il reiterato sostegno che la Santa Sede ci ha sempre dato nella ispirazione ed elaborazione di una politica esterna, impostata rigorosamente sulla solidarietà e sulla pace...
Una iniziativa chiarificatrice fatta dal cardinale Spellman su alcuni vescovi italiani non era stata sufficiente. Ricordo che l’arcivescovo di New York aveva svolto fin dal 1943 una preziosa azione filoitaliana presso il Dipartimento di Stato. Occorreva però che Pio XII in persona fosse conquistato all’idea dell’alleanza difensiva.Credo si debba a monsignor Montini un suggerimento prezioso dato a De Gasperi: far ricevere dal Papa l’ambasciatore italiano a Washington che conosceva in profondità tutta la tematica, comprese le difficoltà del Congresso americano, per le ricorrenti diffidenze dall’assumere impegni esterni: ricordiamo il noto isolazionismo che, a suo tempo, aveva sconfessato il presidente Wilson impedendo l’adesione degli Stati Uniti alla Società delle nazioni.
Nel suo libro Dieci anni tra Roma e Washington l’ambasciatore Alberto Tarchiani riferisce così sull’udienza: «In un mio viaggio in Italia – nell’estate 1948 – mi fu detto, a Palazzo Chigi, che una delle ragioni di titubanza governativa era il parere del Vaticano, contrario alla nostra entrata nel Blocco atlantico. Pensai occorresse andare a sentire direttamente che cosa pensasse Pio XII, se fosse stato così cortese e fiducioso da lasciarmelo intendere. Fui ricevuto l’8 settembre a Castel Gandolfo e trattenuto, contro ogni consuetudine, molto benevolmente, per quaranta minuti. Non riferisco quella conversazione ma posso attestare che il Santo Padre, pur interamente fedele alla dottrina della fratellanza e della pace nel mondo, era assolutamente avverso all’idea che l’Italia, in caso di una guerra, dovesse passare – per incapacità a difendersi – “sotto la cortina di ferro”. La ripeto perché era un’aspirazione ovvia, del resto risultante da tanti atti pubblici e messaggi ufficiali ed ufficiosi del Pontefice e della Santa Sede. Quando riferii a De Gasperi dello stato d’animo del Papa, mi disse di non dubitarne, giacché sapeva quanto nutrisse opinioni nette e risolute. Cadde pertanto così l’abusiva leggenda che il Santo Padre si opponesse alle forme più adeguate ed efficaci per la difesa del Paese, ed anche, implicitamente, della Chiesa».
Sin qui la versione per così dire ufficiale.
Per quel che ricordo, dell’udienza non fu data notizia ufficiale, ma all’indomani l’Osservatore Romano dedicava in prima pagina un ampio servizio su disordini in corso nella zona rossa di Berlino. Quali ricordi queste notizie germaniche rievocassero in Pio XII non è difficile immaginare.
L’udienza produsse comunque un risultato decisivo. Tarchiani aveva rappresentato al Santo Padre i termini esatti del problema: l’Europa libera, da sola, non era in condizioni di poter fronteggiare militarmente l’Unione Sovietica; che tra l’altro in caso di attacco avrebbe potuto contare sulla cooperazione (o almeno sulla… non belligeranza) dei forti partiti comunisti occidentali. La defenestrazione – termine macabramente esatto – del governo democratico cecoslovacco attestava che la diffidenza era necessaria.
Le istruzioni che seguirono produssero un effetto immediato. Il Papa era rimasto colpito dalla lucidità dell’analisi del laicissimo ambasciatore Tarchiani e dalla ineluttabilità del rimedio difensivo. Che tale fosse – difensiva – l’alleanza euroamericana in elaborazione si poteva esser sicuri in piena coscienza.
Nei nostri gruppi parlamentari – Senato e Camera dei deputati – il via libera a De Gasperi, prima tanto ostacolato, divenne addirittura agevole.
Il giorno della caduta del muro di Berlino e, subito dopo, il giorno della avvenuta dissoluzione dell’impero sovietico, senza che fosse stato sparato un colpo di cannone e senza essersi mai avuta neppure una minima tentazione aggressiva da parte della Nato, pur con molte provocazioni (ricordiamo le crisi di Berlino), il pensiero di noi superstiti del 1949 andò con riconoscenza a Pio XII e a monsignor Montini, del quale ultimo troviamo più tardi forti tracce in altre scelte di grande rilievo, una in particolare dopo la sua elevazione al pontificato.
Monsignor Montini, la cui amicizia con De Gasperi è risaputa, aveva vissuto la passione con cui il presidente aveva lavorato per dare organicità alla parte europea della difesa comune, attraverso un Trattato di integrazione: la Ced (Comunità europea di difesa). Purtroppo la difficile situazione interna dell’Italia e la sconfitta dell’ultimo governo De Gasperi nel luglio 1953 impedirono la ratifica italiana del Trattato stesso, che fu poi definitivamente affossato dalla Francia pochi giorni dopo la morte del nostro presidente nell’agosto 1954.
Quando iniziarono gli approcci per riprendere, questa volta in un ambito economico, un piano di intese comunitarie europee, monsignor Montini – parlando con Moro, con Taviani e con altri di noi ex fucini con i quali conservava un illuminante rapporto – sostenne con vigore che non ci si poteva limitare ad intese mercantili; e che doveva darsi vita ad una comunità politica e culturale. Da quando nel 1957 inizia la Comunità economica europea continuò costante questo richiamo; che del resto rappresenterà il fulcro dell’appoggio della Santa Sede all’Europa unita, espresso reiteratamente dai papi, prima e dopo Paolo VI: ma in modo particolarissimo da papa Montini, come fu ricordato in un indimenticabile convegno tenuto su questo tema a Milano; e come ha documentato monsignor Macchi nelle sue puntuali pubblicazioni biografiche.
Ma vi è un altro punto fermo della nostra politica estera, ancora più strettamente collegato con l’azione vaticana. Mi riferisco all’Atto per la cooperazione e la sicurezza europea, firmato a Helsinki nel 1975, da tutti gli Stati del nostro vecchio continente (salvo l’Albania) e compresa invece la Santa Sede, nella persona del cardinal Casaroli.
La prima idea al riguardo era stata lanciata alcuni anni prima da Mosca con l’intento primario di rendere definitivi i confini fissati dopo la Seconda guerra. Agli inizi vi era stata – proprio ratione originis – una diffusa diffidenza. Quando però nel 1972 mi ero recato in visita di governo nell’Unione Sovietica, Gromyko in particolare me ne aveva parlato con molta obiettività e dando elementi di riflessione, che ebbi modo di approfondire poco dopo con il presidente Nixon. Richard Nixon è stato un grande presidente degli Stati Uniti, che operò il riconoscimento della Cina mantenendo relazioni distese con Mosca. In questo clima trovò accoglimento l’idea di un protocollo euroamericano, che non era un vero e proprio trattato, ma una solenne dichiarazione di intenti che, come ho detto, fu firmata nella capitale finlandese nel 1975.
Qui sopra, Giovanni XXIII legge un radiomessaggio nel 1962
Aldo Moro, che nel 1975 aveva firmato nella duplice veste di presidente del Consiglio italiano e di presidente di turno della Comunità europea, rispose nitidamente a chi avanzava critiche per una ritenuta contraddizione della posizione sovietica; in quanto, proprio in quei giorni, avevano ribadito la sovranità limitata dei Paesi del Patto di Varsavia. Breznev passerà – disse Moro – e il seme che abbiamo gettato darà un giorno il suo frutto.
In effetti, venticinque anni dopo – non solo scomparso da questa terra il signor Breznev, ma abbattuto il muro di Berlino e liquidato l’impero dell’Est – nel novembre 1990 a Parigi l’impegno di cooperazione fu ribadito dando ad esso la forma di un Trattato, denominato: Carta della nuova Europa. Purtroppo Moro non c’era più e nemmeno Paolo VI che nel momento di Helsinki era stato con Aldo in stretto contatto e che sapemmo aveva dovuto fare opera di convincimento anche su una parte della Curia romana. Interessante rilievo è che un solo personaggio firmò sia a Helsinki che a Parigi: il cardinale Casaroli, accompagnato in ambedue gli appuntamenti da monsignor Achille Silvestrini.
Sul piano intergovernativo l’attività di questa Organizzazione non è stata notevole, ma la relativa assemblea parlamentare ha funzionato e funziona tuttora bene: con una attenta partecipazione dei deputati e senatori americani che in altre sedi, come l’Unione interparlamentare, non esiste più. Credo che in un momento di crisi profonda delle istituzioni internazionali; di prestigio tolto all’Organizzazione delle nazioni unite; di lacerazioni politiche entro l’Unione europea (in contrasto drammatico con l’allargamento); di difficile colloquio con l’America; credo che un sussulto di volontà che ridia (o forse dia) forza alla Osce potrebbe rappresentare – contro ogni tendenza disgregativa ed isolamento tra continenti – la soluzione per far riprendere all’umanità un cammino in salita, che certamente non saranno mai le guerre a poter costruire.
Alcide De Gasperi, con la figlia Maria, saluta l’ambasciatore Tarchiani
Un quarto indirizzo adottato e coltivato dall’Italia in costante armonia ed anzi spesso sotto la spinta vaticana riguarda gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo e in particolare la cancellazione dei loro debiti. Su quest’ultimo tema Giovanni Paolo II è intervenuto con vigore più volte, compresa l’esortazione ai parlamentari e pubblici amministratori riuniti per il Giubileo del 2000. Purtroppo l’impegno adottato, anche in sedi plurinazionali, di destinare ai Paesi poveri una quota, sia pur piccola, del prodotto interno lordo non è stato soddisfatto che in misura molto ridotta. Tuttavia lo si è di recente ribadito sia nel nostro Parlamento che in sedi internazionali; rimane un punto fermo anche nella salvaguardia della pace che non può essere che opera di giustizia.
Nel complesso la quota italiana è stata pari ad una media del 19% dei debiti complessivi dei Paesi beneficiari. Specificamente l’Italia ha annullato il 78% del debito dell’Uganda, il 28% di quello dell’Etiopia e il 23% di quello del Mozambico. Con tre accordi (Tanzania, Burkina Faso e Mauritania) si è addivenuti alla cancellazione totale.
Non si può però non sottolineare che quando il Papa sollecita questi interventi è moralmente sostenuto anche dal contributo che le missioni cattoliche hanno dato e danno in tutti i continenti allo sforzo di crescita di tanti popoli diseredati; non di rado pagando di persona fino al sacrificio.
Alcuni anni fa, riunendo i ministri della Sanità dell’America Latina per concordare un programma italiano di aiuto, invitammo ad assisterci il vescovo di Recife monsignor Hélder Câmara. Suscitò profonda emozione, formulando una preghiera a Dio, che ha creato il mondo e non un primo, un secondo e un terzo mondo.
Mi sia consentito, tra parentesi, un rilievo per così dire terminologico. All’inizio di due grandi encicliche si trova uno stesso vocabolo. La Rerum novarum di Leone XIII parla della «ardente cupidigia di cose nuove che ha cominciato ad agitare i popoli». La Pacem in terris esordisce con: «Tutti gli uomini che in ogni tempo “cupidissime appetiverunt pacem”». Merita una riflessione.
Riusciranno le nuove generazioni ad orientare nel senso giusto la loro cupiditas?
Tredici anni or sono ebbi l’onore in un convegno a Bergamo di parlare su: “La pace oggi: aspirazione dei popoli e responsabilità dei governi”. Voglio rileggere la conclusione:
«Convenuti qui nel centenario della nascita di Angelo Roncalli, in un momento in cui il cuore di tutti gli uomini è turbato; (e talvolta non è sintomo di viltà l’aver paura) sentiamo aleggiare su di noi il suo rasserenante ottimismo, la sua fiducia ancorata al Solo che non trema e non tradisce. E viene spontanea alle nostre labbra la preghiera: resta con noi, papa Giovanni, perché fa sera, ed una sera tanto buia».
Sono conclusioni che, purtroppo, mantengono una dolorosa attualità.
Senza alcuna confusione tra il nostro ambito civile e l’appartenenza alla comunità cristiana, credo che non vi siano alternative valide per assolvere ai nostri doveri politici al di fuori di un inflessibile servizio alla pace per tutte le genti da costruirsi, come suona l’enciclica che siamo qui a ricordare: nella verità, nella giustizia, nella carità e nella libertà.
I papi non dispongono di truppe, ma hanno le legioni della carità operante e, più in generale, possono armare gli spiriti. Come sta facendo con una profondità straordinaria Giovanni Paolo II, che appare l’unico punto fermo in un mondo disorientato e smarrito. Che Gesù aiuti il suo Vicario in terra!