I ricordi di venti cardinali
Parte II
QUEL SUO VIAGGIO IN SUDAN

del cardinale Gabriel Zubeir Wako
arcivescovo di Khartoum
Il mio ricordo più sentito di papa Giovanni Paolo II non può che correre con emozione e gioia a quelle nove ore trascorse con lui a Khartoum in quel 10 febbraio 1993 quando il Pontefice venne per la prima volta nella nostra terra sudanese. Ricordo il suo arrivo all’aeroporto, quando scendendo dall’aereo si chinò a baciare la nostra terra dicendo poi: «La pace sia con voi». Chi poteva non restare profondamente colpito da questo gesto di amore compiuto dal Santo Padre! Chi conosce la situazione del Sudan sa cosa abbia potuto significare la sua venuta e quel gesto in una terra martoriata dalla guerra civile. Egli dichiarò apertamente di fronte ai diplomatici e agli uomini di governo di essere venuto in segno di pace e per incontrare i suoi figli violentati dall’ingiustizia e perseguitati. Non nascose la sua soddisfazione di poter celebrare l’eucarestia, per la prima volta pubblicamente, in un Paese islamico fondamentalista. Il Papa, con la sua breve visita, ci ha fatto tanto bene! Una visita di nove ore per proclamare Gesù Cristo «nostra pace» e per dare a tutti una speranza sempre nuova. Dieci anni dopo quella visita, nel 2003, il Santo Padre volle chiamarmi nel Collegio cardinalizio. «Lei» mi disse «viene dall’amato continente africano, sia sempre grazia e benedizione per la Chiesa di Khartoum e per tutto il popolo sudanese»; con commozione gli dissi che il mio desiderio più grande è quello di seguire e perseverare nella fedeltà sull’esempio del mio predecessore e fondatore della Chiesa sudanese: san Daniele Comboni.

COME SANSONE
DAI CAPELLI
COSÌ Wojtyla traeva forza dalla preghiera
del cardinale Justin Francis Rigali
arcivescovo di Philadelphia
Ero sul balcone della Segreteria di Stato il pomeriggio in cui fu annunciata l’elezione di papa Giovanni Paolo II. Fui presentato al Papa il giorno seguente, essendo io all’epoca direttore del dipartimento di lingua inglese della Segreteria di Stato. Ero presente la sera che il Papa uscì dall’Arco delle Campane per visitare il vescovo Deskur, polacco, suo amico dagli anni della gioventù, che aveva avuto un colpo apoplettico. Così la prima volta che il Papa uscì dal Vaticano fu proprio la dimostrazione della sua grande compassione, lealtà e misericordia: andò a visitare chi era nel bisogno. Ecco, il suo pontificato iniziò nel segno della misericordia, della generosità, dell’amore pastorale e dell’energia. L’energia di spendere sé stesso, di darsi completamente al Regno di Dio e al popolo di Dio.
Poi il Papa iniziò a viaggiare, e la prima delle molte volte che ebbi la fortuna di accompagnarlo nei Paesi di lingua inglese fu nel suo terzo viaggio internazionale, quello in Irlanda e negli Stati Uniti. Quattrocentomila persone lo attendevano a Galway Bay, sulla costa occidentale dell’Irlanda; erano giovani, e il Papa fu applaudito 42 volte. Ma il quarantunesimo applauso fu incredibile, durò dodici o tredici minuti. Che cosa lo aveva provocato? Lui aveva detto ai giovani irlandesi ciò che avrebbe detto di lì a poco agli americani e poi a tutti i ragazzi del mondo: «Giovani, vi amo». Allora cominciai a capire il suo metodo: voleva proclamare la Parola di Dio, impegnare i giovani a fare qualcosa delle loro vite, dirgli, come ci insegna il Concilio Vaticano II, che la loro realizzazione è in Gesù Cristo, che Lui solo può spiegare la vita e l’umanità, e che facessero attenzione a evitare ciò che li privava di questa eredità e della loro libertà. I giovani capirono che lui li amava – e che li amava anche se sapeva che non avrebbero forse accettato tutto quanto affermava – e la dimostrazione l’abbiamo avuta a Roma, nella moltitudine che è venuta a rendergli omaggio.
Fui col Papa durante la visita in Marocco, quando lui parlò con grande onestà ai 60mila giovani che lo attendevano, tutti musulmani. Disse che i popoli di religioni diverse devono rispettarsi vicendevolmente, pur nelle differenze, di cui la più grande è la nostra fede in Gesù Cristo. Disse che tutti abbiamo in comune il dono dell’umanità, che tutti siamo figli di Dio e che il mondo ha tanto bisogno che vi sia tra noi una relazione di pace e rispetto.
Ma per interpretare tutto il suo pontificato occorre, io credo, capire la sua prima enciclica, la Redemptor hominis, perché papa Giovanni Paolo II era convinto che il Concilio aveva ragione nell’affermare che è Gesù a spiegare l’uomo a sé stesso e che noi conosciamo Dio tramite Gesù, splendore del Padre. Gesù non solo rivela Dio, ma mostra all’uomo la sua dignità di creatura umana. E papa Wojtyla, che aveva sperimentato sia gli orrori del nazismo che del comunismo, conosceva il valore della dignità umana e sapeva che non può essere tollerato ciò che la indebolisce o la distrugge.
L’energia senza fine di questo Papa è stata a tutti evidente. Come Sansone nel Vecchio Testamento, la cui forza enorme risiedeva nei suoi capelli e veniva meno se questi venivano tagliati, così Giovanni Paolo II traeva energia dalla sua vita di preghiera, ed ecco perché l’abbiamo visto pregare sempre. Ricordo che una sera in Africa, al termine di una giornata incredibilmente lunga di incontri, spostamenti, discorsi, dopo aver cenato doveva salutare e ringraziare ancora gli uomini della sicurezza, i cuochi, e il vescovo locale continuava a presentargli altre persone… Solo molto tardi la fila terminò. Quindi con un altro mio collega polacco ci trovammo a parlare un attimo con il Papa della giornata trascorsa e delle tante cose fatte. Lui era molto contento e sembrava stanco. Ma dopo due minuti si alzò dalla sedia e rientrò in cappella a visitare il Santissimo Sacramento. Trascorse lì quasi mezz’ora, poi uscì, e io e il mio collega ci guardammo allora condividendo la stessa impressione: era pronto a ripartire, era rigenerato. Lì fuori i giovani cominciarono a cantare, il Papa andò alla finestra per salutarli, cantò un po’ con loro e solo dopo andò a riposare. Questo è stato Giovanni Paolo II, e lo si può capire solo se si conosce il suo segreto, la fonte di energia che l’ha sostenuto per ventisei anni e mezzo. È facile fare bene all’inizio, ma lui l’ha fatto, come Gesù, sino alla fine.
C’è stato un viaggio papale che ritengo speciale, ed è il primo, in Messico, perché il Papa lì s’inginocchiò davanti all’immagine di Nostra Signora di Guadalupe e capì qual era la missione a cui Dio lo chiamava. Disse allora che la Chiesa, per essere fedele a Cristo, deve essere serva dell’umanità, e lui era molto fiero del suo titolo “Servus servorum Dei”, servo dei servi di Dio, lo stesso di Gregorio Magno. Questa fu la sua sfida, il suo scopo, la sua missione. Ma poi ci ha lasciato entrare nel suo segreto: per tutti questi anni ci ha insegnato a pregare, ad andare dal Signore a chiedere forza, perché se vogliamo compiere la nostra missione dobbiamo andare da Gesù nel Santissimo Sacramento. Ci ha insegnato l’eucarestia e alla fine è morto nell’Anno dell’eucarestia. Ci ha insegnato, come ho detto all’inizio, la misericordia. E nella Dives in misericordia ha scritto che la misericordia è il più grande attributo di Dio. E cos’è la misericordia? L’amore di Dio che viene a contatto con la nostra debolezza, il nostro bisogno, i nostri peccati. Il Papa ha detto alla gente di non scoraggiarsi, perché Cristo ci offre il perdono nel sacramento della penitenza, perché Lui è misericordioso. La misericordia è l’amore di Dio di fronte ai nostri peccati, e tutti noi abbiamo dei peccati. Non solo il Papa scrisse quella enciclica, ma ha anche canonizzato suor Faustina Kowalska di Cracovia, che ebbe delle rivelazioni private sulla misericordia divina. L’insegnamento della Chiesa però non deriva da lei ma dalle Scritture. Suor Faustina fu beatificata la seconda domenica di Pasqua del 1993, successivamente denominata da Giovanni Paolo II “seconda domenica di Pasqua o domenica della Misericordia”. Ed è stato al primo vespro della seconda domenica di Pasqua o domenica della Misericordia che il Papa è morto, dopo che per l’ultima volta il suo segretario, l’arcivescovo Stanislaw Dziwisz, aveva celebrato nella sua stanza l’eucarestia. Roma è stata ornata di manifesti sui quali dietro al volto del Papa si vede l’immagine di Gesù misericordioso. Quella domenica ho celebrato messa nella mia Cattedrale e ho ricordato ai fedeli che essi avevano appena ascoltato le stesse letture udite dal Papa prima di morire.
La misericordia rende ragione di tutto il pontificato. Il Papa si considerava un apostolo della divina misericordia la quale spiega il suo amore, il suo darsi completamente, e infine la sua morte, che è coronamento della sua vita donata con totale generosità. Ecco perché il suo volto è nella morte così sereno e in pace, perché lui aveva completato la sua missione, quella di chi proclama la misericordia di Dio e difende la dignità di ciascun uomo, donna, bambino.

Perché, quando Cristo ritornerà, ritrovi la fede
del cardinale Tarcisio Bertone
arcivescovo di Genova
Un anno fa mi è stato chiesto se dopo il trasferimento a Genova non avevo nostalgia di Roma. Ho risposto che l’unico rimpianto era la mancanza degli incontri ravvicinati con il papa Giovanni Paolo II, incontri quindicinali e a volte anche settimanali.
Dopo aver assistito all’annuncio del “gaudium magnum” il 16 ottobre 1978, iniziai a lavorare per la Santa Sede e per il Papa dal 1979. L’incarico di consultore di diversi dicasteri della Curia romana e, in modo speciale, della Congregazione per la Dottrina della fede mi portò, per la fiducia del cardinale Ratzinger, a partecipare frequentemente alle giornate di studio del Santo Padre – normalmente il martedì – fruendo così di una familiarità che andò crescendo fino a quando, il 13 giugno 1995, il Papa mi chiamò a svolgere l’ufficio di segretario della Congregazione per la Dottrina della fede.
Contrariamente all’immagine indotta talvolta dai media – specie all’inizio del pontificato – di un Papa autoritario, Giovanni Paolo II era un uomo che interrogava e ascoltava più di chiunque altro.
Poneva domande cruciali, ti guardava profondamente negli occhi e attendeva risposte motivate. Ma sapeva anche scherzare con la battuta geniale, e divagare su argomenti fuori dell’ordine del giorno (come sulle partite dei Mondiali di calcio del 1998).
Nelle riunioni di lavoro dandomi la parola soleva dire: «Ora ascoltiamo il magnifico rettore dell’Università Salesiana». Quando nel 1991 mi nominò arcivescovo di Vercelli, andai a salutarlo prima di lasciare Roma, ed egli mi mise al collo una croce pettorale, un regalo prezioso. Allora il segretario monsignor Stanislao chiese al Santo Padre: «Come chiameremo don Bertone ora che non è più magnifico rettore?». Il Papa rispose prontamente: «Lo chiameremo magnifico arcivescovo!», e scoppiò in una schietta risata. Il fotografo pontificio scattò una foto proprio in quel momento, e quell’immagine, con il Papa che ride accanto a me, la conservo ancora oggi sulla scrivania del mio studio in arcivescovado a Genova.
Conservo un diario delle udienze particolari con Giovanni Paolo II, che ora rileggo con piacere, per ravvivare la ricchezza sapienziale che da lui promanava, sia quando preparava un’enciclica, come la Fides et ratio, o la dichiarazione Dominus Iesus, sia quando affrontava con cuore di padre i problemi sacerdotali, o matrimoniali, di centinaia di fedeli, cattolici e non cattolici.
Il patrimonio dei suoi insegnamenti sarà una miniera inesauribile, sia per lo sforzo audace di conciliare fede e scienza, Chiesa e modernità, sia per l’approccio del dialogo ecumenico e interreligioso, sia per lo stile nuovo di illuminare, con l’ispirazione del progetto morale cristiano, le problematiche sociali ed economiche a raggio planetario.
Ma Giovanni Paolo II ci ha testimoniato soprattutto la capacità di portare i giovani a Cristo, il termine più alto di ogni umana attesa. In uno dei suoi più bei discorsi ha confessato di voler dare la sua vita perché Cristo, quando tornerà sulla terra, ritrovi la fede negli uomini. Questo ideale concreto, che è l’ideale del Regno di Dio (don Bosco diceva: «La politica del Padre nostro»), ci impegna tutti appassionatamente.

Il papa che guardava lontano
del cardinale José Saraiva Martins
Capitava spesso che Giovanni Paolo II fosse ripreso dalle telecamere mentre, sommerso dalle folle, sembrava guardare lontano. Era come se davanti ai suoi occhi, ci fosse sempre un orizzonte da scrutare, in cui immergeva e contemplava chi gli stava davanti. Sì, perché credo che più di ogni altro egli sapesse guardare tutto e avvolgere ognuno con uno sguardo di fede profonda, vissuta e addirittura palpabile, attraverso la sua persona.
Con la morte di Giovanni Paolo è scomparso uno dei più grandi pontefici della storia della Chiesa. Il suo, infatti, non solo è stato uno dei pontificati più lunghi, ma anche uno dei più intensi e fecondi, un vero dono di Dio alla Chiesa tra il secondo e il terzo millennio.
Risuonano ancora nelle orecchie del cuore quelle parole pronunciate dal nuovo Papa «venuto da un Paese lontano», appena eletto al soglio di Pietro, in quel memorabile 22 ottobre 1978: «Non abbiate paura. Aprite le porte a Cristo, alla sua salvatrice potestà».
Queste parole, davvero profetiche, con cui l’allora appena eletto Pontefice si è presentato alla Chiesa e al mondo, contengono già in nuce tutto il vasto programma del suo pontificato, imperniato su Cristo redentore dell’uomo, come recita il titolo della sua prima enciclica.
Un pontificato straordinariamente ricco quello di papa Wojtyla. Preziosa l’eredità del suo magistero dottrinale e pastorale, dal quale la Chiesa, in futuro, non potrà più prescindere, nell’esercizio della sua missione tra gli uomini del nostro tempo.
Del pontificato del Papa polacco vanno sottolineati alcuni aspetti, per la loro grande importanza e scottante attualità.Innanzitutto la sua azione pastorale, instancabile ed estremamente efficace, a tutti i livelli della vita della Chiesa e dell’odierna società. I suoi numerosi viaggi apostolici ne sono una delle più eloquenti espressioni. Giovanni Paolo II iniziò un modo nuovo di fare il Papa: viaggiando, mettendosi in cammino per le strade del mondo, per guardare negli occhi, per così dire, le realtà delle varie Chiese locali nei diversi Continenti e per annunciare il Vangelo a tutti gli uomini e a tutti i popoli. Giovanni Paolo II è stato così il primo e più grande missionario negli oltre 26 anni del suo pontificato. Si tratta di una visione del ministero petrino in perfetta sintonia con le esigenze dei tempi.Un’altra caratteristica del pontificato di papa Wojtyla è stata la sua costante e paterna vicinanza all’uomo di oggi. Nella sua enciclica Redemptor hominis egli affermava che «l’uomo è la via della Chiesa». Una affermazione, questa, di enorme rilevanza pastorale, che il Papa non ha mai dimenticato. Egli è stato sempre vicino all’uomo, ai suoi problemi, difendendo sempre, con grande coraggio, la dignità della persona umana, le sue legittime aspirazioni, i suoi diritti fondamentali e, quindi, sacri, immutabili. Giustamente don Giussani, in occasione del venticinquesimo di pontificato, disse: «In Giovanni Paolo II, nella sua figura, il cristianesimo definisce la condizione umana, è la strada per il compimento della felicità dell’uomo». Grazie a Karol Wojtyla il mondo si è accorto che il cristianesimo tende a essere davvero la realizzazione dell’umano. Ancora nel suo ultimo libro il Papa scriveva quel ritornello che corrisponde al genio del cristianesimo: «Gloria Dei vivens homo», la gloria di Dio è l’uomo vivente. Il Pontefice ci ha ricordato spesso che ogni offesa all’uomo è sempre una grave offesa a Dio, che lo ha creato a Sua immagine e somiglianza. Bisognerebbe non dimenticare che, proprio a causa di questa sua tenace difesa dell’uomo, Giovanni Paolo II è stato bersaglio anche di attacchi e cattiverie. Resterà per sempre un testimone coraggioso e credibile della dignità umana.Giovanni Paolo II, inoltre, passerà alla storia come il Papa della pace tra gli uomini e tra i popoli. I suoi messaggi annuali per la Giornata mondiale della pace sono altrettante lezioni magistrali su tale prezioso dono che Cristo, il Principe della pace è venuto a portare al mondo. E i suoi frequenti e appassionati appelli alla pace fondata sulla verità, la libertà, la giustizia, l’amore, il perdono e la riconciliazione, sono altrettanti forti richiami all’obbligo che incombe su tutti gli uomini, credenti o meno, di essere dei veri e convinti costruttori di pace.Un altro aspetto fondamentale che caratterizza il pontificato del Papa scomparso è quello della santità. Papa Wojtyla da solo ha fatto più santi e beati di tutti i suoi predecessori insieme a partire dal 1588, anno in cui è stato creato il dicastero delle Cause dei santi. La santità appartiene al Dna della Chiesa di Cristo. È uno dei suoi elementi costitutivi. E nella Novo millennio ineunte dice che lo scopo di tutta l’attività pastorale della Chiesa è quello di suscitare nei fedeli l’anelito della santità (Nmi, 37).Infine, Giovanni Paolo II passerà alla storia anche come il Papa dei giovani. Sin dall’inizio del suo pontificato si è creato un vero feeling tra lui e i giovani. I giovani hanno amato il Papa, e il Papa ha amato i giovani, vedendo giustamente in loro il futuro della Chiesa e della società. Particolarmente significativo è stato l’invito che ha rivolto loro: «Giovani, non abbiate paura di essere i santi del terzo millennio».

COME
PIETRO RIPETEVA:
«SIGNORE, TU LO SAI CHE TI AMO»
del cardinale Paul Poupard
Proprio qui, a San Callisto, ricordo la prima cena con l’allora arcivescovo di Cracovia Wojtyla. Lui sapeva che lavoravo in Segreteria di Stato, e mi chiese di spiegarli quella “cosa misteriosa” che erano per lui gli uffici del Palazzo Apostolico. Un’altra volta a Lublino, con il cardinale Wojtyla la sera si era al teatro insieme, e mi raccontava di come da giovane era stato anche lui un attore. Pochi mesi dopo la sua nomina a Papa mi ricevette, e iniziammo a parlare, tra l’altro, di Parigi. Scoprii allora che era stato all’Institute catholique a studiare francese e fui anche interrogato, così: «Lei ha lavorato a lungo con il mio grande predecessore, Paolo VI, mi parli di lui». Da lì in poi, quanti incontri con Papa Wojtyla... L’ultimo, a metà dello scorso dicembre, a pranzo. Gli mostravo la croce pettorale che Sua Santità il patriarca di Mosca Alessio II mi aveva dato in segno di comunione di fede e le foto del mio incontro con Alessio. Al che il Papa mi disse: «La cultura è la chiave dell’incontro». Attraverso questi accenni, che cosa potrei dire di lui ancora? Che era un uomo di una umanità straordinaria, che faceva corpo con la sua fede. E sempre, sempre, tutto nella croce di Cristo.
Non dimenticherò mai le messe concelebrate con lui, specialmente quelle nella sua cappella privata. Una su tutte. Eravamo poche persone, e lui invitò me a leggere il Vangelo. Era il Vangelo di Giovanni, quando il Signore chiede a Pietro: «Simone, mi ami tu?». E lui lì davanti a me, mentre leggevo, ogni volta che Gesù ripeteva quella domanda a Simone, rispondeva con il suo corpo, in silenzio, stringendo ancora di più le sue mani nel gesto della preghiera, portandole sul viso, stringendo gli occhi, e con tutto sé stesso rispondeva: «Signore, tu lo sai che ti amo».

la sua eredità
del cardinale Jean-Louis Tauran
Sono del parere che l’eredità lasciata dal papa Giovanni Paolo II sia quella d’un grande testimone. Durante i tredici anni in cui ho ricoperto l’incarico di segretario per i Rapporti della Santa Sede con gli altri Stati, ho avuto il privilegio d’essere ricevuto ogni mercoledì al fine d’informarlo dell’attuale situazione internazionale e ricevere altresì le sue direttive.
Di tali conversazioni ricordo innanzitutto la testimonianza d’un uomo di Chiesa, che viveva immerso in Dio. Sulla scorta di quanto ho visto ho spesso affermato che tutte le grandi decisioni o interventi pontifici non sono stati pensati in ufficio, bensì in ginocchio dinanzi al tabernacolo della cappella privata.Mi sembra inoltre che il papa Giovanni Paolo II sia stato un difensore appassionato della dignità della persona umana e dei suoi diritti fondamentali, in particolare il diritto alla libertà di coscienza e di religione. La personale esperienza dei due regimi totalitari dell’ultimo secolo lo rese particolarmente sensibile ai pericoli arrecabili agli uomini dei nostri giorni da sistemi che nullificano la dimensione spirituale. Il materialismo, il consumismo, alcune aberrazioni in materia di biotecnologia, l’infralimento della famiglia o, ancor peggio, il disprezzo della vita furono da lui ritenuti tanto nocivi al pari delle ideologie del secolo scorso. Il suo operato a servizio dell’umanità lo portò infine a concepire la società internazionale come una comunità di nazioni, in cui le più benestanti aiutano le meno fortunate... come in una famiglia! Nei rapporti diplomatici Giovanni Paolo II non si stancò mai di ripetere ai suoi interlocutori che il diritto e la giustizia sono il fondamento d’una pace durevole.La sua persona, i suoi insegnamenti e i suoi viaggi apostolici avranno certamente conferito alla Chiesa una visibilità che le ha permesso – e le permetterà – d’adempiere meglio la sua missione spirituale, il suo impegno ecumenico e il suo contributo al dialogo interreligioso. Essa, a sua volta, gli ha fatto dono d’essere, lungo il cammino degli uomini, un compagno di viaggio che ricordasse loro con tutta semplicità «che non di solo pane vive l’uomo».
quella messa AL GEMELLI
del cardinale Francesco Marchisano
Incontrai Karol Wojtyla nel 1962. Credo che siamo stati in pochi ad averlo conosciuto da così lungo tempo. Mi trovavo allora alla Congregazione per l’Educazione cattolica ed ero incaricato dei seminari delle nazioni di lingua inglese, tedesca, dei Paesi oltre la cortina di ferro e dei collegi ecclesiastici di Roma. Pochi giorni prima del Concilio venne da me il rettore del Collegio polacco e mi disse: «Lei deve farmi un favore». «Prego, se posso volentieri», risposi. E lui: «In questi giorni ho tutti i vescovi polacchi ospiti nel mio Collegio, non sanno nulla dell’Italia e hanno sentito dire tante cose… positive e negative. Venga lei a spiegare». Io, giovane come ero allora, non volevo andare, ma il rettore mi obbligò letteralmente. Mi preparai un po’ e andai all’incontro. Parlai per un’ora e venti, con parole semplici e frasi corte, in polacco – ne conosco dieci parole – e in italiano. Al termine, i vescovi polacchi mi misero molto in imbarazzo per i ringraziamenti che mi rivolgevano, direi, davvero col cuore. L’ultimo della fila era il giovane ausiliare di Cracovia monsignor Wojtyla, che non conoscevo, il quale mi rivolse queste testuali parole, parlando molto adagio in un italiano che non padroneggiava ancora: «La ringrazio, perché io ho capito tutto quello che ha detto, e se ho capito io, hanno capito tutti i vescovi di Polonia». Poi, muovendo la mano come ad imitare una barriera, continuò: «Noi siamo tagliati fuori dall’Europa; non sappiamo se, finito il Concilio, potremo poi ritornare a Roma. Ma se sarà possibile, possiamo rivederci? Lei parla chiaro…». «Eccellenza… volentieri», risposi.
Da allora, lui fu nominato arcivescovo di Cracovia e presidente della Commissione episcopale per i seminari e le Facoltà teologiche polacche, e io divenni sottosegretario alla Congregazione per l’Educazione cattolica. Tra il 1962 e il 1978 sarà venuto a Roma almeno quaranta o cinquanta volte, o forse più. Vorrei testimoniare soltanto una cosa che di lui mi ha sempre colpito: la sua infinita umanità. Una volta andai da lui a Cracovia. Voleva offrirmi per forza la sua camera, che era molto semplice (c’era un letto che sembrava più una rete con un materasso…), pareva la cella di un monaco, con della mobilia molto alla buona. «Ma eminenza, scusi, questa è la sua camera, ci sarà qualche altro posto per ospitarmi», replicai. E il cardinale Wojtyla: «Sì, sì, sotto il tetto ci sono alcune stanze, ma sono piene di polvere... Dirò alla suora che ne tolga un po’ e io andrò a dormire là, lei stia qui». La sua umanità… Venne a trovarmi dopo che fui colpito da un attacco cardiaco, e venne cinque anni fa quando, dopo un’operazione alla carotide, ebbi la corda vocale destra paralizzata (mi svegliai dall’anestesia che ero quasi muto e dovetti fare sette mesi di logoterapia quotidiana). Tornato a casa, passarono pochi giorni e il Papa mi chiamò per invitarmi a pranzo, come aveva fatto tante volte. Dopo avermi salutato, mi chiese come stavo. Ci sedemmo, io non potevo ancora parlare bene e lui, durante tutto il pranzo, col gomito appoggiato sul tavolo e la mano vicino all’orecchio, cercava di capire quelle poche parole che riuscivo a emettere. Finito il pranzo, si alzò, venne verso di me e cominciò ad accarezzarmi quella parte del collo che aveva subìto l’operazione. Poi mi disse, come fa un padre: «Non abbia timore; vedrà, la voce ritornerà, diciamo una preghiera al Signore». Un Papa così umano, capace di scherzare... Nel 1976 predicò gli esercizi spirituali alla Curia. Un giorno, nel 1977, l’usciere mi avvertì che il cardinale Wojtyla chiedeva di vedermi. Non mi aveva avvertito e io avevo già una lunga serie di persone ad attendermi. Così lo feci attendere quasi un’ora! Ricevendolo, chiesi subito perdono, ma lui si schernì: «Non le avevo telefonato». Così ci sedemmo ed io gli annunciai che avevamo risolto il problema. Infatti il governo comunista polacco aveva emanato un decreto secondo cui i docenti delle Università teologiche polacche non potevano fregiarsi del titolo di professore e se lo avessero fatto, sarebbero stati sanzionati, dato che le Università pontificie non erano riconosciute dallo Stato. Ma lui già sapeva che la questione era stata risolta e ne era contento. Mi disse: «Le ho portato un regalo». «Ma eminenza, lei lo sa che noi qui, durante l’orario di lavoro in Curia, non possiamo ricevere nulla», risposi. «Ma questo è un dono personale», replicò, ed estrasse dalla sua cartella il volume Segno di contraddizione. «Lei sa che lo scorso anno ho predicato gli esercizi? L’Università Cattolica di Milano ha stampato le mie meditazioni, ed eccole a lei». «Beh, un libro posso prenderlo», feci io. Apertolo, trovai una dedica scritta di suo pugno, molto bella, come le altre di cui, anche da Papa, mi avrebbe onorato. Allora gli spiegai che, lavorando in Congregazione, non avevo tempo per fare una settimana intera di esercizi spirituali in Vaticano e che quindi li facevo durante il mio periodo di vacanze. Allora si fece serio e, per ridere, mi disse: «Lei non è venuto ai miei esercizi spirituali?!». «Eminenza, non sono venuto». «Ah, lei non ha sentito neppure una predica?!». «Non ho sentito neppure una predica». Eravamo seduti vicini, mi prese per il braccio, con forza, e disse: «Mica ha perso niente!».Quando fui operato al cuore, undici anni fa, anche lui era al Gemelli per l’operazione all’anca, e un sabato monsignor Stanislao venne da me, perché il Papa diceva sempre ai suoi visitatori: «Dovete andare a trovare anche monsignor Marchisano: stiamo facendo a gara a chi esce per primo da quest’ospedale». Don Stanislao mi comunicò che il Papa voleva che andassi a celebrare la messa con lui l’indomani, domenica, dato che era a letto. Il giorno dopo mi sentivo già meglio e andai. Lo salutai; nella camera c’era solo una suora che, rimanendo lui sdraiato, gli fece indossare una stola. Così celebrammo la santa messa. Alla fine recitammo una piccola preghiera di ringraziamento. Poi avvicinandomi gli dissi: «Santità, s’è accorto che è capitata una cosa molto importante in questa mezz’ora?». «Che cosa è successo?». «Una cosa molto importante», continuai sorridendo. E lui di nuovo: «Che cosa è capitato?». «Che lei, pur essendo Papa, per mezz’ora ha concelebrato con me, che ero il primo celebrante. Quindi per mezz’ora sono stato io il capo della Chiesa!». E lui approvò con un battimano dicendo: «Bene, bene!», e scoppiò a ridere... Ci sono tanti episodi ancora che descrivono l’umanità infinita di quest’uomo.Quando ebbi il primo infarto, il cardinale Wojtyla, che mi cercava in ufficio, avvisato del mio stato, arrivò a casa mia. Gli aprì la porta mia cugina, che m’accudiva, e gli disse che non poteva farmi visita perché i medici lo avevano proibito. Lui la pregò: «Mi lasci entrare, mi lasci entrare...». Mia cugina venne dunque a comunicarmi che il cardinale Wojtyla era alla porta; le dissi di farlo passare. Si sedette accanto al mio letto, come un fratello, parlando di tante cose (come quando veniva da me alla Congregazione per l’Educazione cattolica per vedere i libri che lo interessavano), e stette a farmi compagnia, in semplicità, per un’ora. Dopo che, nel 1988, mi ordinò vescovo, gli capitò sovente di incontrare mia cugina, e tutte le volte le diceva: «Ah, ma lei è la signora che non voleva lasciarmi entrare in casa sua?».Una volta ero negli Stati Uniti, a Chicago, dove mi invitava sempre un cardinale, il quale mi disse che l’indomani sarebbero arrivati tre vescovi polacchi per visitare i loro conterranei presenti in città. Fra i tre c’era Wojtyla, che fu sorpreso e contento di trovarmi lì. Mi chiese di fare assieme il giro della città, e andammo a passeggio, di nuovo come due fratelli.Quando lo vedevo ammalato, mi ritornavano alla mente tutte queste esperienze, e avevo veramente pena per lui.Credo che sia stata questa sua umanità – il saper accogliere le persone, dire una parola buona a tutti – che l’ha reso così amato e amabile a tutti e a quella folla immensa che lo ha salutato fino all’ultimo.

Gabriel Zubeir Wako
del cardinale Gabriel Zubeir Wako
arcivescovo di Khartoum
Il mio ricordo più sentito di papa Giovanni Paolo II non può che correre con emozione e gioia a quelle nove ore trascorse con lui a Khartoum in quel 10 febbraio 1993 quando il Pontefice venne per la prima volta nella nostra terra sudanese. Ricordo il suo arrivo all’aeroporto, quando scendendo dall’aereo si chinò a baciare la nostra terra dicendo poi: «La pace sia con voi». Chi poteva non restare profondamente colpito da questo gesto di amore compiuto dal Santo Padre! Chi conosce la situazione del Sudan sa cosa abbia potuto significare la sua venuta e quel gesto in una terra martoriata dalla guerra civile. Egli dichiarò apertamente di fronte ai diplomatici e agli uomini di governo di essere venuto in segno di pace e per incontrare i suoi figli violentati dall’ingiustizia e perseguitati. Non nascose la sua soddisfazione di poter celebrare l’eucarestia, per la prima volta pubblicamente, in un Paese islamico fondamentalista. Il Papa, con la sua breve visita, ci ha fatto tanto bene! Una visita di nove ore per proclamare Gesù Cristo «nostra pace» e per dare a tutti una speranza sempre nuova. Dieci anni dopo quella visita, nel 2003, il Santo Padre volle chiamarmi nel Collegio cardinalizio. «Lei» mi disse «viene dall’amato continente africano, sia sempre grazia e benedizione per la Chiesa di Khartoum e per tutto il popolo sudanese»; con commozione gli dissi che il mio desiderio più grande è quello di seguire e perseverare nella fedeltà sull’esempio del mio predecessore e fondatore della Chiesa sudanese: san Daniele Comboni.

Justin Francis Rigali
COSÌ Wojtyla traeva forza dalla preghiera
del cardinale Justin Francis Rigali
arcivescovo di Philadelphia
Ero sul balcone della Segreteria di Stato il pomeriggio in cui fu annunciata l’elezione di papa Giovanni Paolo II. Fui presentato al Papa il giorno seguente, essendo io all’epoca direttore del dipartimento di lingua inglese della Segreteria di Stato. Ero presente la sera che il Papa uscì dall’Arco delle Campane per visitare il vescovo Deskur, polacco, suo amico dagli anni della gioventù, che aveva avuto un colpo apoplettico. Così la prima volta che il Papa uscì dal Vaticano fu proprio la dimostrazione della sua grande compassione, lealtà e misericordia: andò a visitare chi era nel bisogno. Ecco, il suo pontificato iniziò nel segno della misericordia, della generosità, dell’amore pastorale e dell’energia. L’energia di spendere sé stesso, di darsi completamente al Regno di Dio e al popolo di Dio.
Poi il Papa iniziò a viaggiare, e la prima delle molte volte che ebbi la fortuna di accompagnarlo nei Paesi di lingua inglese fu nel suo terzo viaggio internazionale, quello in Irlanda e negli Stati Uniti. Quattrocentomila persone lo attendevano a Galway Bay, sulla costa occidentale dell’Irlanda; erano giovani, e il Papa fu applaudito 42 volte. Ma il quarantunesimo applauso fu incredibile, durò dodici o tredici minuti. Che cosa lo aveva provocato? Lui aveva detto ai giovani irlandesi ciò che avrebbe detto di lì a poco agli americani e poi a tutti i ragazzi del mondo: «Giovani, vi amo». Allora cominciai a capire il suo metodo: voleva proclamare la Parola di Dio, impegnare i giovani a fare qualcosa delle loro vite, dirgli, come ci insegna il Concilio Vaticano II, che la loro realizzazione è in Gesù Cristo, che Lui solo può spiegare la vita e l’umanità, e che facessero attenzione a evitare ciò che li privava di questa eredità e della loro libertà. I giovani capirono che lui li amava – e che li amava anche se sapeva che non avrebbero forse accettato tutto quanto affermava – e la dimostrazione l’abbiamo avuta a Roma, nella moltitudine che è venuta a rendergli omaggio.
Fui col Papa durante la visita in Marocco, quando lui parlò con grande onestà ai 60mila giovani che lo attendevano, tutti musulmani. Disse che i popoli di religioni diverse devono rispettarsi vicendevolmente, pur nelle differenze, di cui la più grande è la nostra fede in Gesù Cristo. Disse che tutti abbiamo in comune il dono dell’umanità, che tutti siamo figli di Dio e che il mondo ha tanto bisogno che vi sia tra noi una relazione di pace e rispetto.
Ma per interpretare tutto il suo pontificato occorre, io credo, capire la sua prima enciclica, la Redemptor hominis, perché papa Giovanni Paolo II era convinto che il Concilio aveva ragione nell’affermare che è Gesù a spiegare l’uomo a sé stesso e che noi conosciamo Dio tramite Gesù, splendore del Padre. Gesù non solo rivela Dio, ma mostra all’uomo la sua dignità di creatura umana. E papa Wojtyla, che aveva sperimentato sia gli orrori del nazismo che del comunismo, conosceva il valore della dignità umana e sapeva che non può essere tollerato ciò che la indebolisce o la distrugge.
L’energia senza fine di questo Papa è stata a tutti evidente. Come Sansone nel Vecchio Testamento, la cui forza enorme risiedeva nei suoi capelli e veniva meno se questi venivano tagliati, così Giovanni Paolo II traeva energia dalla sua vita di preghiera, ed ecco perché l’abbiamo visto pregare sempre. Ricordo che una sera in Africa, al termine di una giornata incredibilmente lunga di incontri, spostamenti, discorsi, dopo aver cenato doveva salutare e ringraziare ancora gli uomini della sicurezza, i cuochi, e il vescovo locale continuava a presentargli altre persone… Solo molto tardi la fila terminò. Quindi con un altro mio collega polacco ci trovammo a parlare un attimo con il Papa della giornata trascorsa e delle tante cose fatte. Lui era molto contento e sembrava stanco. Ma dopo due minuti si alzò dalla sedia e rientrò in cappella a visitare il Santissimo Sacramento. Trascorse lì quasi mezz’ora, poi uscì, e io e il mio collega ci guardammo allora condividendo la stessa impressione: era pronto a ripartire, era rigenerato. Lì fuori i giovani cominciarono a cantare, il Papa andò alla finestra per salutarli, cantò un po’ con loro e solo dopo andò a riposare. Questo è stato Giovanni Paolo II, e lo si può capire solo se si conosce il suo segreto, la fonte di energia che l’ha sostenuto per ventisei anni e mezzo. È facile fare bene all’inizio, ma lui l’ha fatto, come Gesù, sino alla fine.
C’è stato un viaggio papale che ritengo speciale, ed è il primo, in Messico, perché il Papa lì s’inginocchiò davanti all’immagine di Nostra Signora di Guadalupe e capì qual era la missione a cui Dio lo chiamava. Disse allora che la Chiesa, per essere fedele a Cristo, deve essere serva dell’umanità, e lui era molto fiero del suo titolo “Servus servorum Dei”, servo dei servi di Dio, lo stesso di Gregorio Magno. Questa fu la sua sfida, il suo scopo, la sua missione. Ma poi ci ha lasciato entrare nel suo segreto: per tutti questi anni ci ha insegnato a pregare, ad andare dal Signore a chiedere forza, perché se vogliamo compiere la nostra missione dobbiamo andare da Gesù nel Santissimo Sacramento. Ci ha insegnato l’eucarestia e alla fine è morto nell’Anno dell’eucarestia. Ci ha insegnato, come ho detto all’inizio, la misericordia. E nella Dives in misericordia ha scritto che la misericordia è il più grande attributo di Dio. E cos’è la misericordia? L’amore di Dio che viene a contatto con la nostra debolezza, il nostro bisogno, i nostri peccati. Il Papa ha detto alla gente di non scoraggiarsi, perché Cristo ci offre il perdono nel sacramento della penitenza, perché Lui è misericordioso. La misericordia è l’amore di Dio di fronte ai nostri peccati, e tutti noi abbiamo dei peccati. Non solo il Papa scrisse quella enciclica, ma ha anche canonizzato suor Faustina Kowalska di Cracovia, che ebbe delle rivelazioni private sulla misericordia divina. L’insegnamento della Chiesa però non deriva da lei ma dalle Scritture. Suor Faustina fu beatificata la seconda domenica di Pasqua del 1993, successivamente denominata da Giovanni Paolo II “seconda domenica di Pasqua o domenica della Misericordia”. Ed è stato al primo vespro della seconda domenica di Pasqua o domenica della Misericordia che il Papa è morto, dopo che per l’ultima volta il suo segretario, l’arcivescovo Stanislaw Dziwisz, aveva celebrato nella sua stanza l’eucarestia. Roma è stata ornata di manifesti sui quali dietro al volto del Papa si vede l’immagine di Gesù misericordioso. Quella domenica ho celebrato messa nella mia Cattedrale e ho ricordato ai fedeli che essi avevano appena ascoltato le stesse letture udite dal Papa prima di morire.
La misericordia rende ragione di tutto il pontificato. Il Papa si considerava un apostolo della divina misericordia la quale spiega il suo amore, il suo darsi completamente, e infine la sua morte, che è coronamento della sua vita donata con totale generosità. Ecco perché il suo volto è nella morte così sereno e in pace, perché lui aveva completato la sua missione, quella di chi proclama la misericordia di Dio e difende la dignità di ciascun uomo, donna, bambino.

Tarcisio Bertone
Perché, quando Cristo ritornerà, ritrovi la fede
del cardinale Tarcisio Bertone
arcivescovo di Genova
Un anno fa mi è stato chiesto se dopo il trasferimento a Genova non avevo nostalgia di Roma. Ho risposto che l’unico rimpianto era la mancanza degli incontri ravvicinati con il papa Giovanni Paolo II, incontri quindicinali e a volte anche settimanali.
Dopo aver assistito all’annuncio del “gaudium magnum” il 16 ottobre 1978, iniziai a lavorare per la Santa Sede e per il Papa dal 1979. L’incarico di consultore di diversi dicasteri della Curia romana e, in modo speciale, della Congregazione per la Dottrina della fede mi portò, per la fiducia del cardinale Ratzinger, a partecipare frequentemente alle giornate di studio del Santo Padre – normalmente il martedì – fruendo così di una familiarità che andò crescendo fino a quando, il 13 giugno 1995, il Papa mi chiamò a svolgere l’ufficio di segretario della Congregazione per la Dottrina della fede.
Contrariamente all’immagine indotta talvolta dai media – specie all’inizio del pontificato – di un Papa autoritario, Giovanni Paolo II era un uomo che interrogava e ascoltava più di chiunque altro.
Poneva domande cruciali, ti guardava profondamente negli occhi e attendeva risposte motivate. Ma sapeva anche scherzare con la battuta geniale, e divagare su argomenti fuori dell’ordine del giorno (come sulle partite dei Mondiali di calcio del 1998).
Nelle riunioni di lavoro dandomi la parola soleva dire: «Ora ascoltiamo il magnifico rettore dell’Università Salesiana». Quando nel 1991 mi nominò arcivescovo di Vercelli, andai a salutarlo prima di lasciare Roma, ed egli mi mise al collo una croce pettorale, un regalo prezioso. Allora il segretario monsignor Stanislao chiese al Santo Padre: «Come chiameremo don Bertone ora che non è più magnifico rettore?». Il Papa rispose prontamente: «Lo chiameremo magnifico arcivescovo!», e scoppiò in una schietta risata. Il fotografo pontificio scattò una foto proprio in quel momento, e quell’immagine, con il Papa che ride accanto a me, la conservo ancora oggi sulla scrivania del mio studio in arcivescovado a Genova.
Conservo un diario delle udienze particolari con Giovanni Paolo II, che ora rileggo con piacere, per ravvivare la ricchezza sapienziale che da lui promanava, sia quando preparava un’enciclica, come la Fides et ratio, o la dichiarazione Dominus Iesus, sia quando affrontava con cuore di padre i problemi sacerdotali, o matrimoniali, di centinaia di fedeli, cattolici e non cattolici.
Il patrimonio dei suoi insegnamenti sarà una miniera inesauribile, sia per lo sforzo audace di conciliare fede e scienza, Chiesa e modernità, sia per l’approccio del dialogo ecumenico e interreligioso, sia per lo stile nuovo di illuminare, con l’ispirazione del progetto morale cristiano, le problematiche sociali ed economiche a raggio planetario.
Ma Giovanni Paolo II ci ha testimoniato soprattutto la capacità di portare i giovani a Cristo, il termine più alto di ogni umana attesa. In uno dei suoi più bei discorsi ha confessato di voler dare la sua vita perché Cristo, quando tornerà sulla terra, ritrovi la fede negli uomini. Questo ideale concreto, che è l’ideale del Regno di Dio (don Bosco diceva: «La politica del Padre nostro»), ci impegna tutti appassionatamente.

José Saraiva Martins
Il papa che guardava lontano
del cardinale José Saraiva Martins
Capitava spesso che Giovanni Paolo II fosse ripreso dalle telecamere mentre, sommerso dalle folle, sembrava guardare lontano. Era come se davanti ai suoi occhi, ci fosse sempre un orizzonte da scrutare, in cui immergeva e contemplava chi gli stava davanti. Sì, perché credo che più di ogni altro egli sapesse guardare tutto e avvolgere ognuno con uno sguardo di fede profonda, vissuta e addirittura palpabile, attraverso la sua persona.
Con la morte di Giovanni Paolo è scomparso uno dei più grandi pontefici della storia della Chiesa. Il suo, infatti, non solo è stato uno dei pontificati più lunghi, ma anche uno dei più intensi e fecondi, un vero dono di Dio alla Chiesa tra il secondo e il terzo millennio.
Risuonano ancora nelle orecchie del cuore quelle parole pronunciate dal nuovo Papa «venuto da un Paese lontano», appena eletto al soglio di Pietro, in quel memorabile 22 ottobre 1978: «Non abbiate paura. Aprite le porte a Cristo, alla sua salvatrice potestà».
Queste parole, davvero profetiche, con cui l’allora appena eletto Pontefice si è presentato alla Chiesa e al mondo, contengono già in nuce tutto il vasto programma del suo pontificato, imperniato su Cristo redentore dell’uomo, come recita il titolo della sua prima enciclica.
Un pontificato straordinariamente ricco quello di papa Wojtyla. Preziosa l’eredità del suo magistero dottrinale e pastorale, dal quale la Chiesa, in futuro, non potrà più prescindere, nell’esercizio della sua missione tra gli uomini del nostro tempo.
Del pontificato del Papa polacco vanno sottolineati alcuni aspetti, per la loro grande importanza e scottante attualità.Innanzitutto la sua azione pastorale, instancabile ed estremamente efficace, a tutti i livelli della vita della Chiesa e dell’odierna società. I suoi numerosi viaggi apostolici ne sono una delle più eloquenti espressioni. Giovanni Paolo II iniziò un modo nuovo di fare il Papa: viaggiando, mettendosi in cammino per le strade del mondo, per guardare negli occhi, per così dire, le realtà delle varie Chiese locali nei diversi Continenti e per annunciare il Vangelo a tutti gli uomini e a tutti i popoli. Giovanni Paolo II è stato così il primo e più grande missionario negli oltre 26 anni del suo pontificato. Si tratta di una visione del ministero petrino in perfetta sintonia con le esigenze dei tempi.Un’altra caratteristica del pontificato di papa Wojtyla è stata la sua costante e paterna vicinanza all’uomo di oggi. Nella sua enciclica Redemptor hominis egli affermava che «l’uomo è la via della Chiesa». Una affermazione, questa, di enorme rilevanza pastorale, che il Papa non ha mai dimenticato. Egli è stato sempre vicino all’uomo, ai suoi problemi, difendendo sempre, con grande coraggio, la dignità della persona umana, le sue legittime aspirazioni, i suoi diritti fondamentali e, quindi, sacri, immutabili. Giustamente don Giussani, in occasione del venticinquesimo di pontificato, disse: «In Giovanni Paolo II, nella sua figura, il cristianesimo definisce la condizione umana, è la strada per il compimento della felicità dell’uomo». Grazie a Karol Wojtyla il mondo si è accorto che il cristianesimo tende a essere davvero la realizzazione dell’umano. Ancora nel suo ultimo libro il Papa scriveva quel ritornello che corrisponde al genio del cristianesimo: «Gloria Dei vivens homo», la gloria di Dio è l’uomo vivente. Il Pontefice ci ha ricordato spesso che ogni offesa all’uomo è sempre una grave offesa a Dio, che lo ha creato a Sua immagine e somiglianza. Bisognerebbe non dimenticare che, proprio a causa di questa sua tenace difesa dell’uomo, Giovanni Paolo II è stato bersaglio anche di attacchi e cattiverie. Resterà per sempre un testimone coraggioso e credibile della dignità umana.Giovanni Paolo II, inoltre, passerà alla storia come il Papa della pace tra gli uomini e tra i popoli. I suoi messaggi annuali per la Giornata mondiale della pace sono altrettante lezioni magistrali su tale prezioso dono che Cristo, il Principe della pace è venuto a portare al mondo. E i suoi frequenti e appassionati appelli alla pace fondata sulla verità, la libertà, la giustizia, l’amore, il perdono e la riconciliazione, sono altrettanti forti richiami all’obbligo che incombe su tutti gli uomini, credenti o meno, di essere dei veri e convinti costruttori di pace.Un altro aspetto fondamentale che caratterizza il pontificato del Papa scomparso è quello della santità. Papa Wojtyla da solo ha fatto più santi e beati di tutti i suoi predecessori insieme a partire dal 1588, anno in cui è stato creato il dicastero delle Cause dei santi. La santità appartiene al Dna della Chiesa di Cristo. È uno dei suoi elementi costitutivi. E nella Novo millennio ineunte dice che lo scopo di tutta l’attività pastorale della Chiesa è quello di suscitare nei fedeli l’anelito della santità (Nmi, 37).Infine, Giovanni Paolo II passerà alla storia anche come il Papa dei giovani. Sin dall’inizio del suo pontificato si è creato un vero feeling tra lui e i giovani. I giovani hanno amato il Papa, e il Papa ha amato i giovani, vedendo giustamente in loro il futuro della Chiesa e della società. Particolarmente significativo è stato l’invito che ha rivolto loro: «Giovani, non abbiate paura di essere i santi del terzo millennio».

Paul Poupard
«SIGNORE, TU LO SAI CHE TI AMO»
del cardinale Paul Poupard
Proprio qui, a San Callisto, ricordo la prima cena con l’allora arcivescovo di Cracovia Wojtyla. Lui sapeva che lavoravo in Segreteria di Stato, e mi chiese di spiegarli quella “cosa misteriosa” che erano per lui gli uffici del Palazzo Apostolico. Un’altra volta a Lublino, con il cardinale Wojtyla la sera si era al teatro insieme, e mi raccontava di come da giovane era stato anche lui un attore. Pochi mesi dopo la sua nomina a Papa mi ricevette, e iniziammo a parlare, tra l’altro, di Parigi. Scoprii allora che era stato all’Institute catholique a studiare francese e fui anche interrogato, così: «Lei ha lavorato a lungo con il mio grande predecessore, Paolo VI, mi parli di lui». Da lì in poi, quanti incontri con Papa Wojtyla... L’ultimo, a metà dello scorso dicembre, a pranzo. Gli mostravo la croce pettorale che Sua Santità il patriarca di Mosca Alessio II mi aveva dato in segno di comunione di fede e le foto del mio incontro con Alessio. Al che il Papa mi disse: «La cultura è la chiave dell’incontro». Attraverso questi accenni, che cosa potrei dire di lui ancora? Che era un uomo di una umanità straordinaria, che faceva corpo con la sua fede. E sempre, sempre, tutto nella croce di Cristo.
Non dimenticherò mai le messe concelebrate con lui, specialmente quelle nella sua cappella privata. Una su tutte. Eravamo poche persone, e lui invitò me a leggere il Vangelo. Era il Vangelo di Giovanni, quando il Signore chiede a Pietro: «Simone, mi ami tu?». E lui lì davanti a me, mentre leggevo, ogni volta che Gesù ripeteva quella domanda a Simone, rispondeva con il suo corpo, in silenzio, stringendo ancora di più le sue mani nel gesto della preghiera, portandole sul viso, stringendo gli occhi, e con tutto sé stesso rispondeva: «Signore, tu lo sai che ti amo».

Jean-Louis Tauran
la sua eredità
del cardinale Jean-Louis Tauran
Sono del parere che l’eredità lasciata dal papa Giovanni Paolo II sia quella d’un grande testimone. Durante i tredici anni in cui ho ricoperto l’incarico di segretario per i Rapporti della Santa Sede con gli altri Stati, ho avuto il privilegio d’essere ricevuto ogni mercoledì al fine d’informarlo dell’attuale situazione internazionale e ricevere altresì le sue direttive.
Di tali conversazioni ricordo innanzitutto la testimonianza d’un uomo di Chiesa, che viveva immerso in Dio. Sulla scorta di quanto ho visto ho spesso affermato che tutte le grandi decisioni o interventi pontifici non sono stati pensati in ufficio, bensì in ginocchio dinanzi al tabernacolo della cappella privata.Mi sembra inoltre che il papa Giovanni Paolo II sia stato un difensore appassionato della dignità della persona umana e dei suoi diritti fondamentali, in particolare il diritto alla libertà di coscienza e di religione. La personale esperienza dei due regimi totalitari dell’ultimo secolo lo rese particolarmente sensibile ai pericoli arrecabili agli uomini dei nostri giorni da sistemi che nullificano la dimensione spirituale. Il materialismo, il consumismo, alcune aberrazioni in materia di biotecnologia, l’infralimento della famiglia o, ancor peggio, il disprezzo della vita furono da lui ritenuti tanto nocivi al pari delle ideologie del secolo scorso. Il suo operato a servizio dell’umanità lo portò infine a concepire la società internazionale come una comunità di nazioni, in cui le più benestanti aiutano le meno fortunate... come in una famiglia! Nei rapporti diplomatici Giovanni Paolo II non si stancò mai di ripetere ai suoi interlocutori che il diritto e la giustizia sono il fondamento d’una pace durevole.La sua persona, i suoi insegnamenti e i suoi viaggi apostolici avranno certamente conferito alla Chiesa una visibilità che le ha permesso – e le permetterà – d’adempiere meglio la sua missione spirituale, il suo impegno ecumenico e il suo contributo al dialogo interreligioso. Essa, a sua volta, gli ha fatto dono d’essere, lungo il cammino degli uomini, un compagno di viaggio che ricordasse loro con tutta semplicità «che non di solo pane vive l’uomo».
quella messa AL GEMELLI

Francesco Marchisano
del cardinale Francesco Marchisano
Incontrai Karol Wojtyla nel 1962. Credo che siamo stati in pochi ad averlo conosciuto da così lungo tempo. Mi trovavo allora alla Congregazione per l’Educazione cattolica ed ero incaricato dei seminari delle nazioni di lingua inglese, tedesca, dei Paesi oltre la cortina di ferro e dei collegi ecclesiastici di Roma. Pochi giorni prima del Concilio venne da me il rettore del Collegio polacco e mi disse: «Lei deve farmi un favore». «Prego, se posso volentieri», risposi. E lui: «In questi giorni ho tutti i vescovi polacchi ospiti nel mio Collegio, non sanno nulla dell’Italia e hanno sentito dire tante cose… positive e negative. Venga lei a spiegare». Io, giovane come ero allora, non volevo andare, ma il rettore mi obbligò letteralmente. Mi preparai un po’ e andai all’incontro. Parlai per un’ora e venti, con parole semplici e frasi corte, in polacco – ne conosco dieci parole – e in italiano. Al termine, i vescovi polacchi mi misero molto in imbarazzo per i ringraziamenti che mi rivolgevano, direi, davvero col cuore. L’ultimo della fila era il giovane ausiliare di Cracovia monsignor Wojtyla, che non conoscevo, il quale mi rivolse queste testuali parole, parlando molto adagio in un italiano che non padroneggiava ancora: «La ringrazio, perché io ho capito tutto quello che ha detto, e se ho capito io, hanno capito tutti i vescovi di Polonia». Poi, muovendo la mano come ad imitare una barriera, continuò: «Noi siamo tagliati fuori dall’Europa; non sappiamo se, finito il Concilio, potremo poi ritornare a Roma. Ma se sarà possibile, possiamo rivederci? Lei parla chiaro…». «Eccellenza… volentieri», risposi.
Da allora, lui fu nominato arcivescovo di Cracovia e presidente della Commissione episcopale per i seminari e le Facoltà teologiche polacche, e io divenni sottosegretario alla Congregazione per l’Educazione cattolica. Tra il 1962 e il 1978 sarà venuto a Roma almeno quaranta o cinquanta volte, o forse più. Vorrei testimoniare soltanto una cosa che di lui mi ha sempre colpito: la sua infinita umanità. Una volta andai da lui a Cracovia. Voleva offrirmi per forza la sua camera, che era molto semplice (c’era un letto che sembrava più una rete con un materasso…), pareva la cella di un monaco, con della mobilia molto alla buona. «Ma eminenza, scusi, questa è la sua camera, ci sarà qualche altro posto per ospitarmi», replicai. E il cardinale Wojtyla: «Sì, sì, sotto il tetto ci sono alcune stanze, ma sono piene di polvere... Dirò alla suora che ne tolga un po’ e io andrò a dormire là, lei stia qui». La sua umanità… Venne a trovarmi dopo che fui colpito da un attacco cardiaco, e venne cinque anni fa quando, dopo un’operazione alla carotide, ebbi la corda vocale destra paralizzata (mi svegliai dall’anestesia che ero quasi muto e dovetti fare sette mesi di logoterapia quotidiana). Tornato a casa, passarono pochi giorni e il Papa mi chiamò per invitarmi a pranzo, come aveva fatto tante volte. Dopo avermi salutato, mi chiese come stavo. Ci sedemmo, io non potevo ancora parlare bene e lui, durante tutto il pranzo, col gomito appoggiato sul tavolo e la mano vicino all’orecchio, cercava di capire quelle poche parole che riuscivo a emettere. Finito il pranzo, si alzò, venne verso di me e cominciò ad accarezzarmi quella parte del collo che aveva subìto l’operazione. Poi mi disse, come fa un padre: «Non abbia timore; vedrà, la voce ritornerà, diciamo una preghiera al Signore». Un Papa così umano, capace di scherzare... Nel 1976 predicò gli esercizi spirituali alla Curia. Un giorno, nel 1977, l’usciere mi avvertì che il cardinale Wojtyla chiedeva di vedermi. Non mi aveva avvertito e io avevo già una lunga serie di persone ad attendermi. Così lo feci attendere quasi un’ora! Ricevendolo, chiesi subito perdono, ma lui si schernì: «Non le avevo telefonato». Così ci sedemmo ed io gli annunciai che avevamo risolto il problema. Infatti il governo comunista polacco aveva emanato un decreto secondo cui i docenti delle Università teologiche polacche non potevano fregiarsi del titolo di professore e se lo avessero fatto, sarebbero stati sanzionati, dato che le Università pontificie non erano riconosciute dallo Stato. Ma lui già sapeva che la questione era stata risolta e ne era contento. Mi disse: «Le ho portato un regalo». «Ma eminenza, lei lo sa che noi qui, durante l’orario di lavoro in Curia, non possiamo ricevere nulla», risposi. «Ma questo è un dono personale», replicò, ed estrasse dalla sua cartella il volume Segno di contraddizione. «Lei sa che lo scorso anno ho predicato gli esercizi? L’Università Cattolica di Milano ha stampato le mie meditazioni, ed eccole a lei». «Beh, un libro posso prenderlo», feci io. Apertolo, trovai una dedica scritta di suo pugno, molto bella, come le altre di cui, anche da Papa, mi avrebbe onorato. Allora gli spiegai che, lavorando in Congregazione, non avevo tempo per fare una settimana intera di esercizi spirituali in Vaticano e che quindi li facevo durante il mio periodo di vacanze. Allora si fece serio e, per ridere, mi disse: «Lei non è venuto ai miei esercizi spirituali?!». «Eminenza, non sono venuto». «Ah, lei non ha sentito neppure una predica?!». «Non ho sentito neppure una predica». Eravamo seduti vicini, mi prese per il braccio, con forza, e disse: «Mica ha perso niente!».Quando fui operato al cuore, undici anni fa, anche lui era al Gemelli per l’operazione all’anca, e un sabato monsignor Stanislao venne da me, perché il Papa diceva sempre ai suoi visitatori: «Dovete andare a trovare anche monsignor Marchisano: stiamo facendo a gara a chi esce per primo da quest’ospedale». Don Stanislao mi comunicò che il Papa voleva che andassi a celebrare la messa con lui l’indomani, domenica, dato che era a letto. Il giorno dopo mi sentivo già meglio e andai. Lo salutai; nella camera c’era solo una suora che, rimanendo lui sdraiato, gli fece indossare una stola. Così celebrammo la santa messa. Alla fine recitammo una piccola preghiera di ringraziamento. Poi avvicinandomi gli dissi: «Santità, s’è accorto che è capitata una cosa molto importante in questa mezz’ora?». «Che cosa è successo?». «Una cosa molto importante», continuai sorridendo. E lui di nuovo: «Che cosa è capitato?». «Che lei, pur essendo Papa, per mezz’ora ha concelebrato con me, che ero il primo celebrante. Quindi per mezz’ora sono stato io il capo della Chiesa!». E lui approvò con un battimano dicendo: «Bene, bene!», e scoppiò a ridere... Ci sono tanti episodi ancora che descrivono l’umanità infinita di quest’uomo.Quando ebbi il primo infarto, il cardinale Wojtyla, che mi cercava in ufficio, avvisato del mio stato, arrivò a casa mia. Gli aprì la porta mia cugina, che m’accudiva, e gli disse che non poteva farmi visita perché i medici lo avevano proibito. Lui la pregò: «Mi lasci entrare, mi lasci entrare...». Mia cugina venne dunque a comunicarmi che il cardinale Wojtyla era alla porta; le dissi di farlo passare. Si sedette accanto al mio letto, come un fratello, parlando di tante cose (come quando veniva da me alla Congregazione per l’Educazione cattolica per vedere i libri che lo interessavano), e stette a farmi compagnia, in semplicità, per un’ora. Dopo che, nel 1988, mi ordinò vescovo, gli capitò sovente di incontrare mia cugina, e tutte le volte le diceva: «Ah, ma lei è la signora che non voleva lasciarmi entrare in casa sua?».Una volta ero negli Stati Uniti, a Chicago, dove mi invitava sempre un cardinale, il quale mi disse che l’indomani sarebbero arrivati tre vescovi polacchi per visitare i loro conterranei presenti in città. Fra i tre c’era Wojtyla, che fu sorpreso e contento di trovarmi lì. Mi chiese di fare assieme il giro della città, e andammo a passeggio, di nuovo come due fratelli.Quando lo vedevo ammalato, mi ritornavano alla mente tutte queste esperienze, e avevo veramente pena per lui.Credo che sia stata questa sua umanità – il saper accogliere le persone, dire una parola buona a tutti – che l’ha reso così amato e amabile a tutti e a quella folla immensa che lo ha salutato fino all’ultimo.