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PADRE FELICE CAPPELLO
tratto dal n. 06 - 2002

Il confessore di Roma visto da vicino


«A scuola spiegava: “I princìpi sono princìpi. Restano fermi e vanno sempre difesi. Ma le coscienze non sono tutte uguali. Nell’applicare i princìpi alle coscienze ci vuole tanta prudenza, tanto buon senso, tanta bontà”». Il cardinale Giovanni Battista Re ricorda padre Cappello, suo professore alla Gregoriana e per tre anni suo confessore


di Gianni Valente


Un'immagine di Padre Cappello

Un'immagine di Padre Cappello

A Roma, alla fine degli anni Cinquanta, tra gli studenti che seguivano le ultime lezioni di padre Felice Cappello e s’inginocchiavano al suo confessionale c’era anche don Giovanni Battista Re. Un giovane sacerdote, anche lui di origini montanare come il suo professore-confessore (Re proviene da una famiglia contadina della Val Camonica), che il vescovo di Brescia aveva mandato alla Gregoriana a studiare diritto canonico, con l’idea di tirarne fuori un bravo e preparato insegnante per il seminario diocesano.
Poi le cose hanno preso un’altra piega. Ma ancor oggi, per il cardinal Re, che dal settembre 2000 è prefetto della Congregazione per i vescovi dopo essere stato per 11 anni sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato, le stagioni romane dei suoi studi giovanili rimangono legate nel ricordo alla cara figura dell’esile gesuita che confessava a Sant’Ignazio.
Il cardinal Re ha accettato volentieri di raccontare a 30Giorni il padre Cappello che ha visto da vicino.
Eminenza, quando conobbe padre Felice Cappello?
GIOVANNI BATTISTA RE: Ho avuto la fortuna di averlo come professore alla Pontificia Università Gregoriana l’ultimo anno in cui insegnò come docente ordinario, nel ’57-58, e poi per tre anni l’ho avuto come confessore.
Che ricordo ha del professor Cappello?
RE: Come alunno mi colpiva la sua chiarezza e la sua memoria prodigiosa. Durante la lezione non apriva mai il libro e citava a memoria i canoni e interi brani di decretali senza modificare i testi di una parola. Sembra che, fin da giovane, conoscesse a memoria tutta la Divina commedia, tutta l’Eneide
Una cultura di cui andar fieri...
RE: Spesso chi sopravanza gli altri in cultura e in saggezza è portato ad atteggiamenti di superiorità e di distacco. In padre Cappello invece non c’era ombra di orgoglio. E non era per falsa modestia. Sembrava non accorgersi delle doti che gli altri ammiravano in lui. La sua fede aveva un riverbero immediato e riconoscibile nell’umile e affabile disponibilità che mostrava verso chiunque lo avvicinasse, senza eccezione, compresi gli importuni. Pur essendo il professore che più si imponeva per prestigio e per autorità, era quello che noi studenti avvicinavamo con più facilità e che sentivamo più vicino. Quando terminava la lezione, mentre usciva lo circondavamo per fargli domande che spesso non avevano nulla a che vedere con la lezione da lui tenuta, ma che riguardavano avvenimenti del giorno o problemi che ci incuriosivano. Lui rispondeva all’accavallarsi delle domande con saggezza e bontà, da vero maestro che voleva insegnare ai suoi alunni a crescere umanamente, intellettualmente e anche spiritualmente. Non dava mai segni d’impazienza o di aver fretta.
Com’erano le sue lezioni?
RE: Non gli interessava apparire originale, anche se alcune interpretazioni sue erano state accolte da altri autori e facevano testo; la sua preoccupazione era di facilitare agli studenti l’accesso ai tesori di dottrina custoditi dalla Tradizione. Era aggiornatissimo su tutte le pubblicazioni ed aveva una grande conoscenza del cuore umano.
E che cosa ricorda di padre Cappello come confessore?
RE: Aveva il dono di dare serenità e tranquillità. Era sempre breve, ma sapeva centrare l’essenziale. Sapeva incoraggiare e dare sicurezza e pace interiore. Era fedelissimo agli insegnamenti della Chiesa e, in pari tempo, padre Cappello era il contrario del rigorista.
A scuola spiegava: «I princìpi sono princìpi. Restano fermi e vanno sempre difesi. Ma le coscienze non sono tutte uguali. Nell’applicare i princìpi alle coscienze ci vuole tanta prudenza, tanto buon senso, tanta bontà». Anche la sua conoscenza sterminata del diritto canonico gli confermava che per la Chiesa la “salus animarum” è “suprema lex”: la legge suprema è la salvezza delle anime. E il sacramento della confessione è per la salvezza dei peccatori e per la liberazione dai peccati e per suscitare l’impegno a migliorare.
Chi s’inginocchiava al suo confessionale percepiva subito che egli attuava quanto insegnava.
Padre Cappello trovava poi tempo anche per visitare gli ammalati e, in particolare, quanti erano vicini alla morte. Sono celebri alcuni casi in cui egli preparò spiritualmente alla morte persone lontane dalla Chiesa (Curzio Malaparte, Concetto Marchesi).
Un filo d’oro lega le storie di Cappello e di Albino Luciani. Nascono nello stesso posto, la zona di Agordo, e crescono avendo davanti agli occhi le stesse figure di santi sacerdoti di montagna. Quali affinità vede tra queste due persone?
RE: Albino Luciani e padre Cappello erano parenti per via paterna. Anche Albino Luciani aveva una memoria prodigiosa, benché ad un livello inferiore rispetto a padre Cappello. Ambedue avevano grande semplicità e grande bontà. Ambedue erano animati dallo stesso amore a Cristo, alla Chiesa e all’umanità. Ambedue avevano un cuore grande. Ambedue sono stati convincenti testimoni dell’amore di Dio.
Padre Cappello per ben due volte fu respinto a due concorsi nelle Congregazioni vaticane che gli avrebbero senz’altro aperto una brillante carriera di Curia. Fu un incidente o una fortuna, per lui e per la Chiesa?
RE: Con padre Cappello gesuita, la Chiesa ha avuto un religioso che alla Pontificia Università Gregoriana ha contribuito alla formazione di generazioni di sacerdoti, che sono stati o sono ora professori nei seminari o vescovi e cardinali o superiori di istituti religiosi. La provvidenza divina ha voluto che egli, giovanissimo sacerdote, non fosse ammesso a lavorare nella Curia romana per ragioni che non riguardavano la sua persona ma il seminario dal quale proveniva e in cui era stato giovane insegnante.
La sua mancata assunzione in un dicastero della Curia romana e l’amicizia col direttore della Civiltà Cattolica padre Enrico Rosa fecero nascere in lui il desiderio di farsi gesuita. Tuttavia, aveva qualche dubbio circa tale decisione che comportava un cambio nella traiettoria della sua vita. Volle pertanto recarsi in pellegrinaggio a Lourdes per chiedere alla Madonna di illuminarlo.
Passò un’intera notte in preghiera, inginocchiato davanti alla grotta della Madonna. Fu una notte di preghiera che richiamava la “veglia d’armi” di sant’Ignazio nel santuario di Montserrat.
Appena spuntato il sole, padre Cappello dalla grotta di Lourdes si recò all’ufficio telegrafico per spedire al padre Ottavio Turchi, provinciale dei Gesuiti a Roma, un telegramma col quale chiedeva di essere accettato nella Compagnia di Gesù.
Fatto questo, andò a celebrare la messa per ringraziare della nuova vocazione che era spuntata nel suo cuore e alla quale intendeva essere fedele per l’intera vita.
Questo episodio mi fu raccontato da padre Paolo Dezza, diventato poi cardinale.
Cos’altro ricorda di padre Cappello?
RE: La devozione a Maria e al Sacro Cuore di Gesù. Padre Cappello spesso aveva la corona del rosario in mano. Vedendolo pregare, veniva voglia di pregare e di raccomandarsi alle sue preghiere. La preghiera era il suo riposo: vi trovava ristoro, faceva fatica a interromperla per fare altro. E poi c’erano le sue tante piccole penitenze. Alla Gregoriana, nella sua stanza molto semplice, il suo letto era sempre sepolto sotto una montagna di libri.
Un giorno chiesi ad un suo confratello come padre Cappello poteva dormire in quel letto coperto sempre di un mucchio di libri. Mi rispose che padre Cappello passava le sue poche ore di sonno notturno in una sedia a sdraio, avvolto in una coperta.
Qualche anno fa, lei ha celebrato la messa a Sant’Ignazio nell’anniversario della morte di padre Cappello.

RE: Padre Cappello morì alle prime ore del 25 marzo, festa dell’Annunciazione. Aveva 83 anni. Fino al giorno prima aveva normalmente lavorato. Si sentì male nel pomeriggio del 24 marzo. Fu portato nell’infermeria dell’Università Gregoriana. Si spense serenamente alle prime luci del giorno seguente, festa dell’Annunciazione della Madonna. o


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