Perché la guerra la soffrono sempre di più i civili
Città sotto le bombe
La Convenzione di Ginevra del 1949, la base del diritto umanitario, proibisce i bombardamenti su obiettivi civili. Ma oggi viene sistematicamente disattesa. Il trattato firmato da quasi duecento nazioni ha ancora un valore? E come rilanciarlo? Intervista con Gianluigi Rossi, ordinario di Storia dei trattati e politica internazionale
di Pierluca Azzaro e Davide Malacaria
La città di Falluja in Iraq colpita dai pesanti bombardamenti del novembre 2004
Della Convenzione salta innanzitutto all’occhio il momento storico in cui fu siglata: siamo agli inizi della guerra fredda, eppure tante nazioni, al di là dei blocchi ideologici, s’impegnano senza riserve a proteggere le popolazioni inermi coinvolte nei conflitti. Quale fu la chiave di questo grande successo di politica internazionale?
Gianluigi Rossi: In realtà occorre precisare che quando si parla della Convenzione di Ginevra, che fu sottoscritta nel 1949 da quasi duecento nazioni, si fa riferimento a quattro distinte convenzioni volte a tutelare, in tempo di guerra, i feriti, i malati, i prigionieri di guerra e i civili. Più che un punto di partenza quel che accadde in quell’anno fu un punto di arrivo di un percorso iniziato nel 1864, quando, sempre a Ginevra, fu firmata la prima Convenzione che riguardava i feriti di guerra. Un’iniziativa nata dall’impulso di Henri Dunant, impressionato da quanto aveva visto durante la battaglia di Solferino. Però la Convenzione siglata nel 1949 rappresenta indubbiamente un salto di qualità rispetto a quello che esisteva in precedenza: si può dire che quella Convenzione è la base del diritto umanitario. Credo sia impossibile immaginare la riuscita di una tale iniziativa senza tener presente che si era appena concluso un conflitto devastante, nel quale le popolazioni civili erano state coinvolte alla stessa stregua dei militari. La comunità internazionale era ancora scossa dal dramma di un tipo di conflitto inedito nella storia e ciò fece emergere la preoccupazione e l’esigenza ampiamente condivisa di porre un freno al massacro di civili nelle situazioni di conflitto.
Di questo documento colpisce anche il linguaggio essenziale: non si fa differenza, ad esempio, tra guerra e guerra, ma si parla «di qualsiasi conflitto». Tra le ragioni alla base dell’ampio consenso che la Convenzione ottenne, va annoverata anche la rinuncia a un linguaggio ideologico in favore di uno pragmatico?
Rossi: L’impostazione pragmatica e non ideologica che caratterizza queste fonti normative ha certamente favorito l’ampio consenso ottenuto. In questo senso, è importante ricordare una caratteristica fondamentale dell’aiuto umanitario: il suo carattere di neutralità e apoliticità. Questo diritto si applica a tutti i conflitti armati (in cui siano coinvolti Stati che hanno aderito alla Convenzione), indipendentemente dalle cause politiche e ideologiche che ne stanno alla base. E proprio in ciò risiede la sua forza e la sua garanzia. Ma la Convenzione del ’49 non deve essere considerata un punto di arrivo definitivo. Anche questa si è evoluta per adeguarsi alla storia: così nel 1977, attraverso i due Protocolli addizionali, si è giunti a individuare due diverse categorie di eventi bellici cui deve essere applicato il Diritto internazionale umanitario. Il primo protocollo riguarda «i conflitti armati internazionali nei quali i popoli lottano contro la dominazione coloniale e l’occupazione straniera e contro i regimi razzisti, nell’esercizio del diritto dei popoli di disporre di sé stessi, consacrato dalla Carta delle Nazioni Unite»; il secondo si riferisce invece ai «conflitti armati che si svolgono sul territorio di uno Stato fra le sue forze armate e forze armate dissidenti o gruppi armati organizzati che, sotto la condotta di un comando responsabile, esercitano, su una parte del territorio, un controllo tale da permettere loro di condurre operazioni militari prolungate e concentrate». In pratica, alla fine degli anni Sessanta erano emersi nuovi tipi di conflitti, non previsti dalla Convenzione, che fecero emergere l’esigenza di aggiornare la Carta del ’49.
Nel corso del conflitto iracheno, in particolare a Falluja, sono state bombardate in maniera massiccia le abitazioni civili. Non le sembra una deroga alla Convenzione di Ginevra?
Rossi: Quel che è accaduto a Falluja è tragico. Ma, al di là del caso specifico, la questione si pone in termini più ampi ed è molto delicata. Dalla firma dei Protocolli aggiuntivi del 1977 sono trascorsi quasi trent’anni e sono emersi tipi “più attuali” di conflitto (il terrorismo, la cosiddetta guerra preventiva, l’ingerenza umanitaria) che hanno riproposto la questione dell’adeguatezza del Diritto umanitario; il che sembra dare un certo peso ad alcune tesi che si sono manifestate in questi ultimi anni, per esempio negli Stati Uniti, che vedono il Diritto umanitario del ’49 e del ’77 non applicabile alla guerra “moderna” contro il terrorismo internazionale. Si tratta infatti di un tipo di conflitto nuovo, di una fattispecie non considerata. Il vero nodo da sciogliere consiste nel fatto che il terrorismo in genere è opera di piccoli gruppi difficilmente individuabili, e un adeguamento in questa materia del cosiddetto Diritto di Ginevra sarebbe assai più di un semplice aggiornamento.
Dopo l’11 settembre negli Stati Uniti la Convenzione di Ginevra è stata messa in discussione, fino ad essere dichiarata obsoleta. A parte altre deroghe, non si sa bene cosa sia successo a Guantánamo, ma si sa abbastanza di quanto successo ad Abu Ghraib: come si è arrivati a questo e cosa comporta?
Rossi: Al di là della questione se la tutela di Ginevra possa applicarsi ai prigionieri di guerra collusi con il terrorismo – e certamente non si applica agli atti terroristici commessi in tempo di pace – e a prescindere dal carattere decisamente particolare del conflitto iracheno, sembra difficile sottrarsi al rispetto di quel minimo di umanità cui fa riferimento l’articolo 3 della Convenzione, che funge da copertura di tutte le possibili lacune del diritto positivo, laddove impegna le parti in conflitto a trovare, in ogni circostanza e in qualsiasi tipo di scontro bellico, soluzioni che non violino il diritto delle genti, quali risultano dagli usi stabiliti fra le nazioni civili, dalle leggi dell’umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica. Senza contare che occorre in questi casi anche una valutazione di natura “politica”: non è possibile procedere ad azioni di grave rappresaglia o a un trattamento degradante e umiliante dei prigionieri senza correre il rischio di allargare indefinitamente l’azione terroristica e senza correre il rischio della reciprocità. Infine vorrei sottolineare che il bombardamento dei luoghi di culto è espressamente vietato dalla normativa del 1949.
La firma del Trattato di Ginevra, il 12 agosto 1949
Rossi: Dopo la creazione dei Tribunali internazionali per il Ruanda e per l’ex Iugoslavia, ma soprattutto dopo la costituzione della Corte penale internazionale, la nozione di responsabilità penale individuale per “crimini di guerra” ha assunto finalmente un significato concreto. In particolare, mi sembra che lo Statuto della Corte, richiamandosi puntualmente al “Diritto di Ginevra” in materia di crimini di guerra, abbia di per sé rilanciato le Convenzioni del 1949. Questo è un fatto positivo perché c’è un riferimento preciso alla Convezione, che la dichiara ancora attuale e cogente. Ma, al di là di questo, credo che occorra un maggiore impegno delle società civili, un lavoro di sensibilizzazione che, partendo dal basso, si ponga l’obiettivo di diffondere la conoscenza delle norme del Diritto internazionale umanitario per giungere a una visione condivisa su problematiche tanto delicate che fanno riferimento al valore e alla dignità della persona umana. Un ruolo chiave in questa promozione ritengo possa essere svolto dalle organizzazioni non governative, dalle università, dalle società nazionali della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa.
In calce alla Convenzione spiccano le firme di Stati le cui relazioni reciproche sono caratterizzate da particolare tensione: Stati Uniti, Israele, Iran, Corea del Nord, per fare solo alcuni esempi. Rilanciare la Convenzione e lo spirito che la anima potrebbe essere un modo concreto per tentare di superare questo nefasto scontro di civiltà?
Rossi: Sicuramente il rilancio della Convenzione contribuirebbe a rilanciare il dialogo, ma per ottenere questo risultato occorre indurre le autorità politiche e di governo a ritenere pienamente valide quelle norme e la cultura che ne sta alla base. Anche in questo senso il lavoro di sensibilizzazione all’interno delle società civili può essere utile. Non meno utile sarebbe portare questa problematica al centro dell’azione dell’Onu, nel quadro di un più incisivo ruolo delle Nazioni Unite quale motore delle relazioni internazionali.