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ARMENIA
tratto dal n. 06 - 2005

Cronache di poveri eroi


Che ne fu dei quattromila armeni che grazie a un’eroica resistenza sul Mussa Dagh e all’intervento francese sfuggirono al genocidio del 1915? Un destino difficile e contrastato. Marco Tosatti e Flavia Amabile ne hanno ricostruito la storia in un libro. Intervista


Intervista a Marco Tosatti di Giovanni Ricciardi


Corpi di armeni trucidati da turchi. Dice Zekiyan: «Il genocidio rappresentò la prima tragica premessa della costruzione di una “nuova era” per la nazione turca»

Corpi di armeni trucidati da turchi. Dice Zekiyan: «Il genocidio rappresentò la prima tragica premessa della costruzione di una “nuova era” per la nazione turca»

Una bandiera bianca sventola sulla cima del Mussa Dagh. Non è una bandiera di resa, ma una richiesta d’aiuto. È l’agosto del 1915. Nella tremenda cornice della Grande Guerra, un evento ancora più terribile si sta consumando nelle fertili terre dell’Anatolia orientale: lo sterminio di un milione e mezzo di armeni, il primo genocidio del XX secolo.
La bandiera è quella dei quattromila armeni che, rifiutando di obbedire all’ordine di deportazione intimato dai militari turchi – destinazione: il deserto siriano di Deir-es-Zor e la morte –, decisero di sostenere un assedio su quella montagna, a nord del Libano, vicino Antiochia, nel punto in cui la costa del Mediterraneo disegna quasi un angolo retto e marca il profilo della penisola anatolica separandola dal resto del Medio Oriente. Quarantacinque giorni di resistenza eroica, sorretta dalla disperazione e da una nebbia che impediva all’esercito turco le manovre più elementari. Finché la nave francese Guichen non avvistò la loro bandiera e li pose in salvo: un piccolo “resto” di fortunati nel mare della disperazione.
La loro vicenda era stata immortalata dal celebre romanzo dell’ebreo austriaco Franz Werfel, che vide la luce nel 1933, l’anno in cui Hitler sale al potere. E sarà proprio Hitler, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, a rimarcare ai suoi generali, prima di invadere la Polonia e accingersi allo sterminio di due milioni di ebrei polacchi: «Chi si ricorda oggi del massacro degli armeni?».
Per fortuna la previsione di Hitler non si è realizzata. Ma solo negli anni Ottanta in Italia hanno cominciato a vedere la luce i primi libri sul tema. Il merito va soprattutto alla casa editrice Guerini, che vi dedica da tempo una collana e che quest’anno, in occasione del novantesimo anniversario del genocidio, ha presentato l’ultima fatica di Marco Tosatti e Flavia Amabile: Mussa Dagh: gli eroi traditi. Un libro-inchiesta che racconta il seguito di quella storia: dove finirono gli eroi del Mussa Dagh, che vita fecero, quali speranze riuscirono a realizzare, a quali delusioni andarono incontro. Ne parliamo con uno dei due autori, da più di vent’anni vaticanista della Stampa.

Quando è sorto in lei l’interesse per la “questione armena”?
MARCO TOSATTI: A metà degli anni Novanta Flavia Amabile e io facemmo un viaggio in Siria, e giungemmo ad Aleppo; sapevo che c’era un albergo, il Baron Hotel, dove Lawrence d’Arabia aveva a lungo soggiornato, e dove c’erano degli oggetti che gli erano appartenuti. L’albergo era molto délabré, ma affascinante (e lo è ancora). Una sera, per caso, il padrone, Armen Mazloumian, ci raccontò la storia della sua famiglia e dell’albergo. Una storia affascinante. Rientrammo a Roma e decidemmo di scrivere un libro (previo un altro soggiorno ad Aleppo, per raccogliere il materiale). Nacque così I Baroni di Aleppo. E scoprimmo ciò che avevamo ignorato prima: che cosa erano gli armeni, che cosa era stato il genocidio del 1915 e degli anni seguenti, e il fatto che quell’orrore era un qualche cosa di ancora aperto, perché il governo di Ankara conduce una serrata politica negazionista, contro ogni evidenza. Abbiamo visto che in Italia (compresi i libri di storia sui quali avevamo studiato) non si parlava mai di questo problema, che non esistevano libri che affrontavano l’argomento, e abbiamo pensato che forse sarebbe stato giusto fare qualche cosa perché le cose cambiassero. Anche perché, come ha scritto Yossi Sarid, un «genocidio orfano è il padre di altri genocidi».
Come nasce l’idea di quest’ultimo libro?
TOSATTI: Abbiamo letto I quaranta giorni del Mussa Dagh, quel romanzo capolavoro scritto da Franz Werfel, un grande autore mitteleuropeo. E con Flavia abbiamo deciso di andare a vedere e verificare, da giornalisti, se era proprio andata così e, soprattutto, che cosa era successo “dopo” che quel piccolo popolo di montanari, circa quattromila persone, era stato salvato dalle navi francesi che li sottrassero allo sterminio. Purtroppo non esistevano documenti in nessun’altra lingua che l’armeno. Abbiamo passato un paio di estati a Venezia, dove il professor Boghos Levon Zekiyan organizza corsi estivi di armeno, continuando poi a studiare a Roma con Seta Martayan; così siamo stati in grado di tradurre i testi che ci interessavano. Ne abbiamo trovati, grazie all’aiuto di molti amici armeni, in Libano, a Beirut e ad Anjar, a Parigi, dove abbiamo fatto delle ricerche allo Shat (“Service Historique de l’Armée de Terre”) e abbiamo rintracciato dei testi alla Bibliothèque “Nubar Pashà” di Parigi, e altri ne abbiamo trovati negli Stati Uniti. Ci è sembrato giusto offrire al pubblico, almeno quello italiano, queste storie; sono belle, costituiscono una vera e propria saga, e soprattutto, secondo noi, rappresentano un inno alla vita e alla speranza anche in un contesto che più tragico e tremendo non potrebbe essere, quello di un genocidio assolutamente spietato, e per di più colorato da motivazioni religiose, perché se i mandanti erano sostanzialmente dei positivisti atei o agnostici, hanno saputo sfruttare molto bene una religione, quella musulmana, contro i cristiani.
Perché avete scelto come titolo Gli eroi traditi?
TOSATTI: Non c’è dubbio che il popolo del Mussa Dagh fosse composto in larga parte da eroi. Uomini, donne e bambini, piuttosto che accettare l’ordine di deportazione, che voleva dire morte sicura, sono saliti sulla loro montagna, prospiciente il mare, vicino ad Alessandretta, e hanno resistito per due mesi agli attacchi dell’esercito turco. E in seguito, una volta salvati, molti si sono arruolati nella Legione d’Oriente per andare a combattere. Sono stati traditi varie volte. La prima, nel 1939, quando la Francia ha ceduto il sangiaccato di Alessandretta e il Mussa Dagh alla Turchia per cercare di comprare la neutralità di Ankara nella Seconda guerra mondiale. Poi quando sono stati collocati a Basit, un luogo disperato sulla costa siriana, e poi ad Anjar, un altro posto desolato nella Valle della Bekaa che sono riusciti a trasformare in giardino. Più in generale, mi sembra che, dopo essere stati abbandonati dalle potenze vincitrici nel 1919, adesso, di recente, si sia consumato nei confronti degli armeni un altro tradimento. Il Parlamento europeo aveva posto come condizione per i negoziati di adesione della Turchia alla Ue il riconoscimento del genocidio. Ma la Commissione ha molto addolcito quello che era un “paletto” ben preciso. In fondo si tratta solo di un’ecatombe di cristiani accaduta novant’anni fa… La memoria è un lusso riservato ad altri.
F. Amabile-M. Tosatti, Mussa Dagh. Gli eroi traditi, Guerini e Associati, Milano 2005,154 pp., euro 14,00

F. Amabile-M. Tosatti, Mussa Dagh. Gli eroi traditi, Guerini e Associati, Milano 2005,154 pp., euro 14,00

Cercando materiale per il libro, ha avuto modo di raccogliere testimonianze degli ultimi sopravvissuti e di visitare luoghi legati alla vicenda del Mussa Dagh. Qual è il momento che più le è rimasto impresso?
TOSATTI: La visita ad Anjar. Vedere e toccare la bandiera, bianca con una grande croce rossa, che ha sventolato sul Mussa Dagh e che ha segnalato la presenza di quei cristiani alle navi francesi, è stato un momento indimenticabile.
Fino a quindici anni fa quasi nessuno in Italia si occupava del genocidio armeno. Come spiega l’ampio spazio che la stampa ha dato quest’anno al tema?
TOSATTI: Vari fattori hanno contribuito. Sono usciti – grazie anche a editori coraggiosi come Guerini – numerosi libri sull’argomento. Quando con Flavia abbiamo cominciato a interessarci al tema, c’erano uno o al massimo due titoli. Poi il problema dell’ingresso della Turchia in Europa ha acuito l’interesse e le sensibilità anche sul tema del riconoscimento del genocidio. L’Europa non è certamente un club cristiano, ma forse il problema del negazionismo di Ankara getta una luce inquietante su altri problemi: democrazia interna, libertà religiosa, libertà di espressione, multiculturalismo. E il fatto che tre università turche che avevano organizzato conferenze di studio sul tema abbiano rinviato sine die l’appuntamento, dopo che il ministro della Giustizia aveva apostrofato come “traditori” gli organizzatori, non può che accrescere le preoccupazioni. Chi stiamo per far entrare in Europa? È una cartina di tornasole importante, forse determinante. E il genocidio armeno non è assimilabile ad altre, sia pure crudeli, forme di spostamento di popoli quali ne abbiamo viste nel secondo dopoguerra, come invece sostenuto da qualcuno. È stato un vero e proprio genocidio, e secondo molti – fra cui, per esempio, il già citato Yossi Sarid – se la comunità internazionale l’avesse punito allora come avrebbe dovuto, forse non ci sarebbe stata la Shoah.


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