Zitti zitti, facciamo la pace
Come e perché l’ordinazione del nuovo vescovo ausiliare di Shanghai ha inaugurato una nuova fase dei rapporti tra Santa Sede, Chiesa in Cina e governo di Pechino
di Gianni Valente
Al momento dell’eucaristia, anche i non battezzati si mettono in fila, con le braccia incrociate sul petto, per ricevere la benedizione dal vescovo
Eppure l’ordinazione di Shanghai rappresenta una svolta cruciale e apre una fase nuova rispetto al punto più delicato – la nomina dei vescovi – dell’anomalia vissuta dalla Chiesa di Cina nei suoi rapporti con la Santa Sede da mezzo secolo. Perché Shanghai è la capitale economica e morale, la locomotiva del “secolo cinese” profetizzato dagli analisti e ormai alle porte. Perché la sua comunità cattolica ha storicamente giocato un ruolo di primo piano nelle vicende della cristianità in Cina. E perché la modalità concreta in cui tale ordinazione è avvenuta fa intravedere nuove vie lungo le quali i problematici rapporti tra Vaticano, Chiesa cinese e governo di Pechino potrebbero cercare l’auspicata normalizzazione.
I fatti
L’idea di segnalare ai dicasteri romani Giuseppe Xing come possibile successore dell’ormai novantenne Aloysius Jin è maturata all’interno della Chiesa shanghaiese, a partire dall’intuizione dello stesso Jin che su tale ipotesi ha trovato il consenso dei suoi collaboratori e della gran parte dei sacerdoti e dei responsabili laici. La nomina pontificia, emessa diverso tempo prima che le condizioni di salute di Giovanni Paolo II precipitassero, è stata tenuta riservata, e anche la documentazione che l’attestava, dopo essere stata vista dai preti più autorevoli e stimati di Shanghai, è stata “archiviata” per sempre. Poi, lo scorso 17 maggio, i 127 rappresentanti dei sacerdoti, delle suore e dei laici della diocesi di Shanghai, hanno eletto a maggioranza Xing come vescovo ausiliare della diocesi. Solo dopo questo, la Conferenza dei vescovi cinesi e il governo hanno approvato i risultati dell’elezione. Infine, la consacrazione. Lo scorso 28 giugno, prima della cerimonia, il vescovo Jin ha confermato quasi en passant ai più di sessanta preti shanghaiesi, in procinto di entrare in processione in Cattedrale, che l’ordinazione aveva l’approvazione della Santa Sede. Durante il rito liturgico, a tale approvazione non è stato fatto alcun riferimento esplicito, né è stato letto alcun documento che attestasse la nomina da parte del Papa. Il consacrando ha giurato di essere «fedele alla Chiesa una, santa, cattolica, apostolica, con alla testa san Pietro».
Le prospettive
Alla luce di questa lunga procedura vanno lette le “smentite” e gli eloquenti silenzi che hanno accompagnato e seguito l’ordinazione di Shanghai. Come quelle uscite dall’Ufficio affari religiosi cinese e dall’Associazione patriottica per contraddire lanci di agenzie occidentali imprecisi e fuorvianti che avevano parlato di «approvazione congiunta» tra Cina e Vaticano riguardo alla nomina episcopale di Xing. Come ha tenuto a sottolineare all’agenzia Ucanews Antonio Liu Bainian (vicepresidente dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, organo di controllo del governo sulla vita della Chiesa), la Conferenza dei vescovi cinesi ha approvato la nomina di Xing dopo che lui era stato eletto dalla maggioranza dei rappresentanti cattolici della diocesi di Shanghai. Liu ha aggiunto che «se poi è vero, come riportano i notiziari internazionali, che il vescovo Xing è stato riconosciuto dal Papa, sono contento di vedere che la Santa Sede ha fatto un passo avanti, riconoscendo il principio della auto-elezione e della auto-ordinazione dei vescovi in Cina».
In effetti, non c’è stata – e non poteva ancora esserci – nessuna «approvazione congiunta», nessun accordo diretto tra Santa Sede e governo cinese sull’ordinazione di Shanghai. Come ha spiegato, sempre a Ucanews, Anthony Lam Sui-ki, ricercatore dell’Holy Spirit Study Center della diocesi di Hong Kong, in questa fase «Pechino non chiederebbe al Vaticano di dare il permesso all’elezione di un vescovo, e neanche la Santa Sede consulterebbe Pechino prima di concedere la propria approvazione». Anche perché «Pechino proclama sempre che la Chiesa in Cina è “indipendente, autonoma e autofinanziata”, e se il vescovo fosse nominato dal governo, si cadrebbe in quella che i media descrivono come una Chiesa controllata dal governo. Per questo Pechino ha sempre tenuto a sottolineare che i vescovi sono scelti per elezione [da parte dei rappresentanti cattolici della diocesi, ndr] e il governo di per sé non è coinvolto nell’approvazione o nella nomina dei vescovi».
Nonostante le smentite di rito, l’ordinazione di Shanghai rimane nei fatti una sorta di “tacito accordo senza consenso”, un appeasement giocato sull’implicito, sul complice sottinteso, sul non detto. Se da parte cinese si enfatizza la piena consonanza formale dell’elezione alle regole previste dallo Stato, tale sottolineatura non si accanisce a escludere che ci sia stata anche la nomina papale.
Silenzi
Su tutta la vicenda la Santa Sede ha mantenuto un silenzio assoluto. Astenendosi da ogni conferma della nomina che in questa fase delicata potesse essere letta come rivendicazione di poteri giurisdizionali da parte di Roma sul nuovo vescovo. Con questo profilo silenzioso, i vertici della Santa Sede hanno disinnescato preventivamente ogni incidente di percorso. Evitando che si ripetesse il patatrac del giugno ’81, quando il vescovo di Canton Deng Yiming, ricevuto in Vaticano con il tacito consenso dei gerarchi di Pechino, venne elevato proprio in quei giorni al rango di arcivescovo. Un atto che fu letto dai gerarchi di Pechino come il tentativo di affermare sul vescovo prerogative giurisdizionali ancora tutte da negoziare, fornendo loro il pretesto per far saltare le allora incipienti ipotesi di normalizzazione dei rapporti sino-vaticani.
Il silenzio vaticano toglie alibi a chi, all’interno degli apparati governativi cinesi, mira a sabotare i processi di normalizzazione e a mantenere lo status quo, magari solo per paura di perdere posizioni e competenze all’interno della nomenclatura. Tanta delicatezza mira anche a documentare, oltre ogni sclerotizzato pregiudizio, che il legame di comunione tra i vescovi e il Papa non può in alcun modo essere valutato come un caso di “ingerenza” negli affari interni degli Stati. E per questo è del tutto fuori luogo ogni competizione tra governo e Vaticano sulla questione delle ordinazioni episcopali.
Ma il nuovo approccio vaticano non va certo letto come un indizio di arrendevolezza. Esso esprime piuttosto la percezione sempre più realistica della “questione cinese” raggiunta nei Palazzi vaticani. Fino a metà degli anni Novanta, anche in Vaticano la vista era annebbiata da diffuse sacche di diffidenza nei confronti della parte di Chiesa cinese più collaborativa nei confronti del governo. Nel gennaio ’95, i sacerdoti delle chiese “aperte”, giunti a Manila per vedere il Papa alla Giornata mondiale della gioventù, secondo le indicazioni vaticane avrebbero dovuto sottoscrivere una solenne professione di fede per “dimostrare” la propria fede (poi tutto si risolse più sobriamente con un Credo recitato insieme). Adesso, proprio la condivisa fiducia nel sensus fidei dei cattolici cinesi – vescovi, sacerdoti, religiosi, laici – è il fattore nuovo che consente alla Santa Sede di modulare in maniera diversa la propria strategia. Lasciando al discernimento dei pastori in loco la gestione delle situazioni complesse e la ricerca delle soluzioni. Lo si è visto nel caso di Shanghai, dove la Santa Sede non ha preteso che la nomina papale fosse esplicitamente menzionata durante il rito di ordinazione. E tale prospettiva potrebbe suggerire applicazioni concrete anche davanti a un inizio di trattativa diretta tra Vaticano e Cina popolare (ad esempio, nel calibrare il profilo anomalo e le competenze sui generis di un eventuale nunzio apostolico a Pechino).