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DARFUR
tratto dal n. 07/08 - 2005

Darfur: il dramma continua


Dopo oltre venti anni di guerra, è pace tra il nord e il sud del Sudan. Ma in Darfur la situazione umanitaria resta tragica, mentre all’est si intravedono i bagliori di un nuovo, pericoloso conflitto. Intervista con Barbara Contini, inviata speciale del governo italiano in Darfur


di Davide Malacaria


Barbara Contini saluta una bambina nel campo profughi di Nyala. Le foto sono tratte dal libro Darfur. Un dramma dimenticato, a cura della Cooperazione italiana allo sviluppo

Barbara Contini saluta una bambina nel campo profughi di Nyala. Le foto sono tratte dal libro Darfur. Un dramma dimenticato, a cura della Cooperazione italiana allo sviluppo

La piccola pace del Sudan, quella tra il governo del Nord e i ribelli del Sud, è ormai una realtà. Dopo oltre venti anni di guerra, e più di due milioni di morti, tra le due fazioni è fiorita una concordia nuova. Una riconciliazione che ha portato, tra l’altro, il 9 luglio scorso, all’entrata in vigore di una nuova Costituzione. Ora John Garang, per anni strenuo oppositore del governo di Khartoum, è il nuovo vicepresidente del Paese ed è chiamato ad amministrare il più grande Stato africano con quelli che un tempo erano i suoi nemici. Una pacificazione che, purtroppo, convive con diversi focolai di tensione che ancora attanagliano grandi aree del Paese. In Darfur, nell’Ovest, il conflitto che da due anni oppone i movimenti guerriglieri dello Sla (Sudan Liberation Army) e Jem (Justice and Equality Movement) ai cavalieri arabi detti Janjaweed (che i ribelli accusano di essere usati dal governo in chiave repressiva) attraversa una fase di stallo, che sembra preludere, o almeno si spera, più a un momento di pacificazione che di recrudescenza degli scontri. Ma, a raffreddare le speranze, nell’Est s’intravedono i bagliori di un altro e nuovo conflitto tra le forze governative e i guerriglieri del Sef (Sudan’s Eastern Front). Di questa complessa situazione, e del costo umano dell’ennesimo mattatoio africano, parliamo con Barbara Contini che, da settembre dello scorso anno, è inviato speciale del governo italiano per il Darfur, dove dirige l’Ufficio per la cooperazione italiana.

Una sua impressione sulle cause della guerra.
BARBARA CONTINI: Darfur vuol dire “terra dei Fur”, l’etnia africana prevalente in Sudan. Da oltre venti anni i movimenti ribelli – lo Sla, cui si è affiancato da qualche anno lo Jem, a carattere fondamentalista – portano avanti la loro lotta per ottenere dal governo centrale il rispetto della popolazione locale, la loro ammissione allo sfruttamento delle risorse locali e la rappresentatività a Khartoum. Su questa situazione si è innestata la guerra per il controllo della terra. Due anni fa sono apparsi i cavalieri arabi, o Janjaweed, come vengono chiamati con un termine spregiativo, dediti all’allevamento, che hanno occupato terre appartenenti alle etnie africane locali, dedite all’agricoltura. Insomma, una situazione complessa…
Sembra che, finalmente, il conflitto in Darfur si vada placando.
CONTINI: In realtà il cessate il fuoco era stato proclamato da molto tempo, ma era sempre stato disatteso dalle parti. Ora sembra funzionare, anche perché è iniziata una sorta di dialogo. Al momento c’è un periodo di stasi: le parti stanno valutando se la strada del dialogo è percorribile e se sia il caso o meno di perseverare nello scontro armato. Questo non vuol dire che la situazione non resti tragica. Da anni la gente, per sfuggire la guerra, ha abbandonato i villaggi per stabilirsi nei campi di accoglienza. Né bisogna farsi eccessive illusioni sulle trattative: è vero che ad Abuja, capitale della Nigeria, sono iniziati i negoziati tra le parti, ma non si è ancora arrivati a individuare neanche le basi sulle quali discutere. A complicare le cose c’è il fatto che i rappresentanti della comunità internazionale, incaricati di facilitare il dialogo, non sono mai stati in Darfur, né conoscono gli attori del dramma che qui si consuma. Da questo punto di vista mi sembra che il governo italiano, inviando un proprio rappresentante in Darfur, abbia fatto la scelta migliore. Perché non si può conoscere la situazione di questa tormentata regione rimanendo a Khartoum. A parte i tanti aspetti che lo stare in loco aiuta a cogliere, si parla anche di una distanza geografica notevole. È come voler intervenire in un conflitto che si svolge in Portogallo restando a Oslo… L’Italia è l’unico Stato ad aver inviato un suo rappresentante in Darfur, una decisione politica felice dei nostri ministri degli Esteri, Frattini prima e Fini poi.
La pace tra Nord e Sud può favorire i negoziati in corso sul Darfur?
CONTINI: Non credo. Penso che anche l’ingresso di John Garang nel governo sia, da questo punto di vista, ininfluente. Non credo che potrà occuparsi di questa questione. Comunque i prossimi mesi saranno decisivi… Ormai la situazione del Darfur è sotto gli occhi di tutto il mondo. Il governo di Khartoum è obbligato a tener conto delle pressioni della comunità internazionale, che chiede sicurezza per i popoli del Darfur, in particolare per gli sfollati.
Durante una recente visita nel nostro Paese, il ministro degli Esteri sudanese, Mustafa Osma Ismail, ha rilasciato un’intervista in cui si dichiarava disposto a collaborare con il Tribunale internazionale incaricato di far luce sui crimini commessi in Darfur…
CONTINI: Il governo di Khartoum ha capito che non può più far finta di nulla e quindi ha fatto la cosa più intelligente: si è deciso a collaborare. Anche perché, in caso contrario, si troverebbe contro tutto e tutti.
Molti osservatori internazionali sottolineano come il governo di Khartoum abbia in sé diverse anime, da quella più dialogante a quella più rigida…
CONTINI: A me pare che la linea del governo sia sempre stata quella dura, quella, per intenderci, che si è imposta con il colpo di Stato del generale Bashir e del vicepresidente Taha nel 1989. Quel colpo di Stato portò al potere un’élite araba proveniente dall’Alto Nilo, che ha avuto la pretesa di gestire da sola una realtà multiforme e multietnica come quella del Sudan. Non si può costruire uno Stato con un righello…
Sembra che adesso si sia aperto un altro conflitto nell’Est del Paese, ai confini con l’Eritrea.
CONTINI: Sono circa sei mesi che quell’area è calda. Noi che siamo qui vediamo da tempo questi bagliori. Credo che questo nuovo focolaio di tensione faccia molta paura al governo di Khartoum, che si trova a dover fronteggiare un altro fronte. Troppi fronti aperti… c’è la possibilità che crolli tutto il sistema.
In Darfur operano, con funzione di peacekeeping, le truppe inviate dall’Unione africana. È la prima volta che l’Ua riesce in una simile operazione. Come giudica questa prova?
CONTINI: Nella regione ci sono circa duemila militari, provenienti da una decina di Stati africani, ma presto ne saranno dispiegati altri. È sicuramente positivo che l’Unione africana riesca a organizzare un intervento di questo genere. Ma, in Darfur, la situazione richiede, data la gravità, una risposta rapida e tempestiva che l’intervento dell’Ua (proprio perché è il primo del genere, con i problemi, non solo logistici, che questo comporta) non può, al momento, dare. In ogni caso è una buona cosa il fatto che ci siano.
Com’è la situazione in Darfur da un punto di vista umanitario?
CONTINI: Disastrosa. Si tratta ormai di 2 milioni di persone – cui vanno aggiunte le 250mila che hanno trovato rifugio in Ciad – fuggite dalla guerra e raccolte in campi, in ognuno dei quali sono ammassate anche 150mila persone; parliamo di vere e proprie città la cui popolazione versa in condizioni tragiche. È appena iniziata la stagione delle piogge e i campi sono invasi dal fango. Non hanno mezzi di sostentamento, le condizioni di vita sono malsane. L’80% dei decessi dei bambini è causato dalla malaria e dalla diarrea. La gente non ne può più, vuole tornare ai propri villaggi… Nell’area interessata sono presenti 40-50 organizzazioni umanitarie internazionali, più le varie agenzie specializzate dell’Onu, che cercano di far fronte come possono alle emergenze, assicurando la distribuzione dei viveri e l’assistenza sanitaria, ma in queste condizioni non si può fare più di tanto. A complicare le cose c’è poi il problema logistico: l’area di cui stiamo parlando è grande due volte la Francia e tra una capitale e l’altra dei tre Stati che costituiscono il Darfur ci sono non meno di nove ore di automobile…
In alto, il campo profughi Kalma, a Nyala, in Darfur

In alto, il campo profughi Kalma, a Nyala, in Darfur

Cosa fa la Cooperazione italiana?
CONTINI: Non ci limitiamo alla distribuzione del cibo, ma realizziamo opere che rispondano alle esigenze dell’emergenza e, allo stesso tempo, apportino dei benefici anche nel futuro. In genere sono interventi richiesti dalla popolazione locale, per lo più nel settore idrico-sanitario: cliniche, presidi di emergenza sanitaria, pozzi, scuole. Ma anche progetti di ricostruzione delle aree distrutte, in genere villaggi, con relativi mercati. Diamo alla popolazione locale la possibilità di lavorare alla costruzione del proprio villaggio: con metà dello stipendio si pagano da mangiare, con l’altra metà si costruiscono la casa. Poi sta a noi intervenire a livello politico, per chiedere al governo locale o alle truppe inviate dall’Unione africana di garantire la sicurezza nell’area in questione. E ottenere questo è la cosa più difficile... Inoltre aiutiamo le Ong italiane che lavorano in loco, finanziando progetti per rifare acquedotti, per preparare un management in grado di gestire gli ospedali che costruiamo o programmi volti alla protezione dei bambini. Infine ci sono gli interventi a favore delle donne. Quando si parla di vittime della guerra, e a oggi si contano più di 200mila i morti causati dalla crisi del Darfur – tra quelli periti negli scontri e i decessi causati da stenti e malattie –, non bisogna dimenticare le tante donne che hanno subito violenza e le tantissime rimaste vedove. Alla fine del conflitto ci saranno villaggi con tante, tantissime donne sole. Occorre fin da ora prepararle a sostentarsi, insegnar loro un mestiere. Stiamo lavorando anche in questo senso.
Con i missionari presenti si è stabilita una qualche forma di collaborazione?
CONTINI: A Nyala, la città in cui abbiamo stabilito la nostra base, ci sono i comboniani e le suore della carità. Con loro si è stabilito un rapporto bellissimo. In genere, quando si parla di missionari, si parla di gente che sta lì da trenta o quarant’anni. Alcuni di loro hanno praticamente vissuto tutta la storia del Paese dopo la decolonizzazione. Ci danno un apporto di conoscenza e di memoria importante. Con loro si è stabilito anche un rapporto di lavoro proficuo: aiutiamo le suore della carità che hanno creato una scuola di formazione per le donne, dove insegnano di tutto, dall’uso del computer alla sartoria. Poi aiutiamo i padri comboniani per lo sviluppo di un’area agricola, che hanno acquistato trent’anni fa, fornendo loro attrezzature agricole. Infine diamo aiuto alle infermerie della città, gestite anche queste dalle suore della carità. Stiamo anche ristrutturando la chiesa di Nyala. Aiutare le attività dei missionari mi è sembrato proficuo per le popolazioni locali, perché la conoscenza che hanno i missionari della realtà locale permette loro di intervenire in modo molto efficace. E poi mi sembrava assurdo, come cooperazione italiana, non supportare, anche se in minima parte, questa presenza di Chiesa italiana in loco. Per parte mia, ricordo ancora la messa di Natale celebrata a Nyala lo scorso anno: c’erano circa 1500 persone… Una cosa molto bella.


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