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SCIENZA E TECNICA
tratto dal n. 09 - 2005

Non di sola tecnoscienza vive l’uomo...


“Tecnoscienza” significa scienza fondata sulla tecnica. Indica la prassi attraverso cui la tecnica procede con sempre maggiore libertà e diventa una forma di manipolazione incurante della conoscenza profonda dei processi su cui interviene. Il professor Giorgio Israel, che è stato relatore del convegno “Scienza e regole?” durante l’ultimo Meeting per l’amicizia fra i popoli a Rimini, spiega come le biotecnologie rappresentino la manifestazione più evidente di questa pericolosa tendenza. Intervista


intervista con Giorgio Israel di Paolo Mattei


 Un’immagine della XXVI edizione del Meeting di Rimini che si è svolto dal 21 al 27 agosto 2005 con il titolo:
“La libertà è il bene più grande che i cieli abbiano donato agli uomini”; sotto,  il professor Giorgio Israel durante l’incontro “Scienza e regole?”

Un’immagine della XXVI edizione del Meeting di Rimini che si è svolto dal 21 al 27 agosto 2005 con il titolo: “La libertà è il bene più grande che i cieli abbiano donato agli uomini”; sotto, il professor Giorgio Israel durante l’incontro “Scienza e regole?”

Durante l’ultimo Meeting per l’amicizia fra i popoli (tenutosi nel Nuovo quartiere fieristico di Rimini dal 21 al 27 agosto scorsi), il professor Giorgio Israel è intervenuto all’incontro “Scienza e regole?”, cui ha partecipato anche Giancarlo Cesana in qualità di docente di Medicina del lavoro presso l’Università milanese della Bicocca. Nella sua relazione Israel ha ripercorso molti degli argomenti che gli stanno più a cuore. Argomenti che da tempo va illustrando con articoli su quotidiani e riviste e che si sono trovati nell’occhio del ciclone in occasione del dibattito innescato dagli ultimi referendum sulla procreazione assistita. Scienza e divulgazione, scienza e religioni, scienza e tecnologia, scienza ed economia, scienza e potere politico… Binomi, compendiati dal titolo interrogativo dell’incontro riminese del 23 agosto, che possono trasformarsi in temibili antinomie per la vita dell’uomo quando il rapporto fra pensiero scientifico e ognuno di quei secondi termini si altera o si interrompe. Di queste “relazioni pericolose”, il professor Israel ha spiegato la natura e l’evoluzione nella storia dell’Occidente, con la competenza dello studioso: è docente di Storia della matematica all’Università “La Sapienza” di Roma e autore di numerosi saggi (La mano invisibile. L’equilibrio economico nella storia della scienza, Roma-Bari 1987; Scienza e razza nell’Italia fascista, Bologna 1998; Il Giardino deiNoci. Incubi postmoderni e tirannia della tecnoscienza, Napoli 1988;
Scienza e storia: la convivenza difficile, Roma 1999). Gli abbiamo posto alcune domande.
Lei parla spesso di due “cesure” originatesi da tempo nella nostra cultura: la prima, tra il pensiero scientifico e il patrimonio culturale filosofico, teologico e religioso; la seconda, tra scienza e quella che lei definisce “tecnoscienza”. Può spiegare di che cosa si tratta?
GIORGIO ISRAEL: Il filosofo Edmund Husserl ha descritto con grande efficacia il progetto di una conoscenza onnicomprensiva, che si costituisce a partire dal Rinascimento: «Un’unica costruzione procedente all’infinito di generazione in generazione», che mira ad affrontare tutti i problemi, da quelli naturali a quelli etici e morali. La stessa costruzione della scienza moderna è riflesso di tale visione, perché il concetto di legge della natura ha un’origine teologica: l’idea che esiste un “ordine” del mondo stabilito da Dio. Il positivismo ha tratto dai successi delle scienze naturali la conclusione che il loro metodo conoscitivo fosse l’unico valido. Da quel momento, non soltanto ogni disciplina – come le scienze sociali – è stata valutata sulla base della sua aderenza al metodo delle scienze fisico-matematiche, ma tutti i problemi che riguardano la filosofia, l’etica, la morale e la religione sono stati esclusi come “metafisici” o “irrazionali”. La seconda rottura riguarda il rapporto tra scienza e tecnica. Fin dalla rivoluzione scientifica la seconda ha avuto un rapporto di dipendenza concettuale dalla prima: la conoscenza dei processi era considerata determinante nell’indirizzo delle scelte tecnologiche (e “tecnologia” significa appunto “scienza fondata sulla tecnica”). Da circa mezzo secolo – per una serie di fattori, tra cui predominano quelli economico-produttivi – si è affermata una prassi in cui la tecnica procede con una crescente libertà e diventa una forma di manipolazione incurante della conoscenza profonda dei processi su cui interviene. Le biotecnologie costituiscono la manifestazione più evidente di questa tendenza, che chiamo “tecnoscienza” per sottolinearne la specificità.
Può fare qualche esempio concreto di che cosa hanno significato per la storia e per la cultura occidentali tali “cesure”?
ISRAEL: Per dirla con Husserl, il concetto positivistico di scienza è un concetto “residuo”, perché ha lasciato cadere tutti i problemi che in realtà più interessano l’uomo, perché riguardano il senso della sua esistenza e della sua libertà; o ha preteso di ridurli all’approccio scientista, come accade nelle trattazioni quantitative delle scelte soggettive ridotte a criteri di “utilità”. Ciò ha rappresentato un impoverimento spirituale e culturale drammatico. La congiunzione diquesto atteggiamento con lo sviluppo tecnoscientifico ha condotto ai dilemmi posti dalle biotecnologie e alla constatazione che, se accettiamo un approccio puramente utilitaristico, non possiamo altro che concludere che qualsiasi manipolazione può essere fatta. Diceva Dostoevskji: «Se Dio non esiste, allora tutto è possibile». Una versione “debole”, per un non credente, può essere: «Se non esistono un’etica e una morale autonome, allora tutto è possibile». Ma nessun essere ragionevole può ammettere che sia lecito fare qualsiasi cosa.
A fronte di questo pericolo “utilitaristico”, sarebbe proponibile l’idea di un pensiero scientifico dedito esclusivamente alla “conoscenza”, e non anche alla “trasformazione”?
ISRAEL: Non ritengo che il pensiero scientifico possa ridursi alla pura conoscenza, escludendo la trasformazione. Nelle concezioni costitutive della scienza è insita l’idea che conoscere significa anche trasformare. Difatti, conoscere la legge scientifica di un fenomeno significa anche conoscere le circostanze sotto cui il fenomeno si verificherà ogni volta in forma identica: ciò implica, almeno in linea di principio, la sua “riproducibilità” e quindi la possibilità di una realizzazione pratica. Ma qui intervengono due osservazioni. La prima è che una siffatta visione della “legge scientifica” non si applica bene al contesto dei fenomeni non fisici: i processi sociali ed economici e, in generale, quelli storici, non ricadono sotto una visione così stretta – nessuno può ragionevolmente dimostrare che esistano “leggi” della storia – e non sono riproducibili. L’applicazione del riduzionismo fisico-matematico alle scienze umane produce risultati cattivi e induce l’idea infondata di un’onnipotenza trasformativa. La seconda osservazione – forse più importante – è che il primato della conoscenza garantisce che ciò che si pretende manipolare sia conosciuto quanto più possibile. Invece l’approccio tecnoscientifico non si cura troppo di conoscere a fondo i processi che manipola. Si rischia così di riportare in auge un approccio simile a quello dell’alchimia medioevale e che presenta tutti i rischi della prassi dell’apprendista stregone: manipolare processi troppo complessi, di cui non si sa bene l’esito, e rischiare di provocare risultati imprevisti e indesiderati. Le nostre conoscenze del mondo biologico sono ancora modestissime ed enormemente sproporzionate rispetto alla nostra capacità di manipolarlo. Perciò, la scienza applicata dovrebbe procedere più lentamente, aspettando con maggiore pazienza il progresso delle conoscenze.
Come è possibile mettere a tema questa pazienza e questa lentezza quando si tratta di decidere se utilizzare o meno la tecnologia per provare a curare una grave malattia?
Le nostre conoscenze del mondo biologico sono ancora modestissime ed enormemente sproporzionate rispetto alla nostra capacità di manipolarlo. Perciò, la scienza applicata dovrebbe procedere più lentamente, aspettando con maggiore pazienza il progresso delle conoscenze
ISRAEL: È una domanda complessa che investe la natura della medicina, la quale cerca di salvaguardare un essere – l’uomo – la cui natura è un “dono” e che è al contempo capace di perturbare l’ordine naturale. Un grande medico e storico della medicina, Mirko Drazen Grmek – richiamando le parole di Herbert George Wells nella Guerra dei mondi: «L’uomo ha pagato al prezzo di milioni e milioni di morti il suo possesso ereditario del globo terrestre» – osservava che l’uomo dovrà continuare a pagare questo tributo «come prezzo delle azioni che perturbano gli equilibri dinamici tra l’uomo stesso, l’ambiente fisico e l’insieme degli esseri viventi». La medicina non è una scienza in senso stretto, bensì un’arte, nella misura in cui si muove su un sentiero stretto: difendere la salute dell’uomo, senza perturbare troppo gli equilibri naturali. Il rischio nasce con la pretesa smisurata di voler risolvere una volta per tutte ogni problema – ottenere salute eterna, immortalità, vittoria finale contro le malattie – ricostruendo daccapo l’uomo: Riprogettare gli esseri umani è il titolo del recente libro del biologo statunitense Gregory Stock. È una pretesa delirante non soltanto perché non possediamo un’oncia delle conoscenze necessarie e rischiamo di produrre catastrofi che è difficile persino immaginare; ma perché esclude totalmente il problema etico e di “senso” che è racchiuso nella constatazione: il mondo non l’abbiamo fatto noi e non ci siamo fatti da soli, quale che sia l’origine, le cui modalità sono comunque un assoluto mistero. Di conseguenza, il criterio principale è non intervenire sulla struttura naturale dell’uomo, pretendendo di “ricrearlo” dalle basi, e non concepire la vita umana come un oggetto manipolabile a volontà. E non si avanzino assurde obiezioni circa il fatto che nel passato si sarebbe già “manipolato”: tanto varrebbe dire che, siccome qualcuno è stato ucciso, è lecito uccidere.
Sarebbe auspicabile secondo lei una forma di controllo da parte di un’autorità scientifica sulle attività tecnologiche? Le pare concretamente realizzabile un’ipotesi del genere – una sorta di riedizione dell’Accademia delle Scienze di Parigi del XVII secolo – nel nostro tempo? E se, come è capitato in occasione del dibattito sugli ultimi referendum, anche l’“accademia” scientifica si sorprendesse divisa al proprio interno?
ISRAEL: No, non auspico affatto questo tipo di controllo. L’ideale di una società governata dai saggi, che ha origini in Platone, è stato propugnato dall’Illuminismo e ha prodotto soltanto disastri. Condorcet diceva che «una società che non è governata dai filosofi è condannata a cadere in mano dei ciarlatani». Ma i filosofi, o gli scienziati, sarebbero titolati a governare la società, con il loro sapere, soltanto se fossero onniscienti, e poiché l’onniscienza non è di questo mondo, sono condannati a essere dei tiranni. Anche in tempi più recenti, il presidente statunitense Eisenhower lamentò il prepotere di una certa élite scientifico-tecnologica, affermando che, «pur nutrendo il massimo rispetto per le ricerche e le scoperte scientifiche, dobbiamo essere attenti al pericolo che la politica pubblica ne diventi prigioniera». L’unico governo ragionevole e ammissibile è quello della politica, espresso tramite le regole più perfezionate che sia possibile della rappresentanza democratica. Le questioni etiche legate alle biotecnologie debbono essere affrontate e risolte dai cittadini, tramite gli strumenti della politica. Gli accademici si dividono in quanto le questioni etiche non sono riducibili alla scienza e gli scienziati finiscono col prendere posizione in quanto cittadini, e cioè secondo le loro visioni etiche, filosofiche e religiose – o atee. Non è un caso che i comitati di consulenza non sono mai serviti a nulla, nella misura in cui ci si attende da loro soluzioni “scientifiche” a problemi che non ne ammettono.
A proposito di filosofi e potere, Peter Singer, professore di bioetica a Princeton, ha recentemente spiegato come il confine tra l’esistenza e la morte sia sostanzialmente solo una “convenzione scientifica”. E ha ribadito che permetterebbe ai genitori di decidere la soppressione del proprio bambino, subito dopo la nascita, quando presentasse delle gravi malformazioni…
Il mondo non l’abbiamo fatto noi e non ci siamo fatti da soli, quale che sia l’origine, le cui modalità sono comunque un assoluto mistero. Di conseguenza, il criterio principale è non intervenire sulla struttura naturale dell’uomo, pretendendo di “ricrearlo” dalle basi, e non concepire la vita umana come un oggetto manipolabile a volontà
ISRAEL: È un’affermazione di stupefacente rozzezza, in quanto capovolge la questione. Il problema del confine tra vita e morte non può essere risolto in termini meramente “scientifici”, in quanto non si tratta soltanto dell’arresto di una macchina – di un essere-oggetto – ma della sparizione di una “persona”, di una soggettività. In termini scientifici esso non ammette altro che soluzioni convenzionali. Per fortuna, siamo in molti a non accettare che la questione possa essere posta in questi termini materialistici e che, ad esempio, di fronte a una persona in coma profondo, si debba decidere se staccare o no la spina in funzione di una convenzione “scientifica”.
Lo scrittore francese Michel Houellebecq, nel suo ultimo ancora una volta provocatorio romanzo, La possibilità di un’isola, racconta le vicende di una serie di personaggi nati dalla clonazione di un unico uomo. Immagina un futuro terribile, di devastazione umana. Un pessimismo esasperato secondo cui giovinezza, forza e bellezza stanno alla base dell’amore ma anche del nazismo. Che cosa pensa di questa visione del futuro dell’Occidente?
ISRAEL: Non ho ancora letto il romanzo di Houellebecq, ma penso che questo genere di letteratura, quando sia di elevato livello, eserciti una funzione utilissima per risvegliare le coscienze. Si pensi all’influenza che ha avuto il celebre romanzo di Huxley, Brave New World. Si potrebbe dire che parte delle previsioni catastrofiche di Huxley si stiano avverando, ma, al contempo, siamo ben lungi da un mondo uniformato a una visione globale totalitaria. Da questo punto di vista sono ottimista, nel senso che sono convinto che le energie spirituali umane e le “domande profonde” che stanno al fondo della nostra coscienza non sono sopprimibili e finiscono con l’imporsi, per quanto grandi siano i danni collaterali. Il problema è certamente quello dei guasti: programmi tecnoscientifici radicali possono provocare reazioni altrettanto radicali ispirate a integralismo e fanatismo. Per questo – tornando sul tema dell’importanza e della responsabilità della politica – la cosa più importante mi sembra essere una presa di coscienza quanto più diffusa e profonda. Da questo punto di vista, l’esperienza avuta al Meeting di Rimini nel dibattito su “Scienza e regole?”, con l’intensità morale e intellettuale che vi ho sentito, mi ha confermato in questa convinzione. Alcune prescrizioni legislative sono importanti – la clonazione va vietata, punto e basta – ma non sono sufficienti ed è impossibile regolamentare tutto. È assai più importante che la gente rifiuti certe prospettive e che certe pratiche non trovino clienti. Proviamo a leggere questa frase del libro di Stock: «Con qualche operazione di marketing mirata da parte dei centri di Fiv [Fecondazione in vitro, ndr], la riproduzione tradizionale potrebbe diventare antiquata, se non del tutto irresponsabile. Un giorno il sesso potrebbe essere considerato un’attività prettamente ricreazionale e il concepimento qualcosa che è meglio fare in laboratorio». Ne proporrei una lettura di massa perché sono convinto che una persona ragionevole – chiunque sappia cosa significhi avere un figlio attraverso un atto d’amore – non può non provare un senso di disgusto e di disprezzo di fronte a pensieri così miserandi.


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