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CINA
tratto dal n. 10 - 2005

CONTROVERSIE STORICHE

Vaticano-Manchukuo: non servono i mea culpa


Un memorandum inedito del grande missionario Charles Lemaire, protagonista della vicenda, dimostra che la Santa Sede non diede alcun riconoscimento diplomatico allo Stato fantoccio creato negli anni Trenta in Manciuria dagli invasori giapponesi. Ma proprio lì si superò la secolare controversia sui “riti cinesi”. Le analogie e le differenze con il “caso” Santa Sede-Taiwan


di Gianni Valente


La propaganda giapponese 
in un manifesto del 1930 
in lingua inglese per lo Stato 
del Manchukuo. 
Lo sviluppo tecnico-economico 
e l’ordine sociale 
erano gli argomenti su cui puntavano gli aggressori 
per giustificare la creazione dello Stato fantoccio

La propaganda giapponese in un manifesto del 1930 in lingua inglese per lo Stato del Manchukuo. Lo sviluppo tecnico-economico e l’ordine sociale erano gli argomenti su cui puntavano gli aggressori per giustificare la creazione dello Stato fantoccio

Un rompicapo diplomatico che il pontificato di Karol Wojtyla ha lasciato in eredità al suo successore si gioca molto lontano dal Tevere, lungo le due sponde separate dallo stretto di Formosa. Al centro del rebus c’è la nunziatura vaticana a Taiwan – 22 milioni e mezzo di abitanti, di cui 300mila cattolici –, che sull’Annuario pontificio è ancora rubricata come «rappresentanza vaticana presso la Cina», e che serve come alibi prêt-à-porter ai funzionari di Pechino per snobbare con noncuranza le avances vaticane per l’inizio di un dialogo diretto tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese, erede di quel Celeste Impero dove adesso vive un quinto del genere umano, compresi dodici milioni di figli fedeli della Chiesa cattolica.
Quella vaticana è l’unica diplomazia di peso a mantenere la propria rappresentanza a Taipei, dove non ci sono ambasciate europee e dove anche gli Usa “amici” di Taiwan tengono aperti solo uffici commerciali. E quando si cercano nel passato le ragioni di tale anomalia, Roma e Pechino raccontano due storie diverse.
Fu il regime comunista da poco insediato a troncare con rudezza i rapporti diplomatici col Vaticano, quando nel settembre del ’51 espulse come persona non gradita il nunzio Antonio Riberi, che fino a quel momento risiedeva a Nanchino. Oltretevere, l’atto ostile viene ovviamente letto come un episodio della persecuzione inaugurata in quegli anni dal nuovo potere comunista per annullare ogni vincolo della Chiesa in Cina con la Sede apostolica. Ma il fatto che solo tre anni dopo lo stesso Riberi abbia trasferito la nunziatura presso il governo nazionalista di Chiang Kai-shek, che era fuggito a Formosa dopo aver perso la guerra civile coi comunisti, è stato sempre presentato dal regime cinese come una prova della radicale ostilità vaticana nei confronti della nuova Cina comunista. O addirittura come una conferma del sentimento negativo che animerebbe il Vaticano nei confronti della nazione cinese tout court.
C’è un precedente storico controverso che, messo in sequenza con la vicenda di Taiwan, sembra tagliato su misura per avvalorare le recriminazioni politico-diplomatiche cinesi. È la vicenda del Manchukuo, lo Stato fantoccio che l’occupazione militare giapponese creò negli anni Trenta nelle regioni nord-orientali della Cina. Anche in quella situazione, secondo la storiografia ufficiale cinese, la diplomazia del Papa si affrettò a dare il proprio sostegno alla illegittima entità statale creata dagli aggressori giapponesi a spese della Cina. Anche uno dei documenti governativi più impegnativi sulla questione religiosa, il “libro bianco” sulla religione elaborato dal Consiglio di Stato cinese nell’ottobre ’97, ricorda che «dopo che il Giappone invase il nord-est della Cina, il Vaticano prese una posizione che era di sostegno all’aggressione giapponese. Fu il primo a riconoscere il regime fantoccio di Manchukuo, istituito dal Giappone, e vi inviò un rappresentante».
In effetti, le foto del rappresentante vaticano ospite ai ricevimenti ufficiali del governo del Manchukuo furono usate per decenni dalla propaganda cinese antimperialista. Ma andò davvero così? Ci fu mai un reale riconoscimento diplomatico dello Stato fantoccio da parte del Vaticano? Nuovi documenti inediti – che 30Giorni è in grado di anticipare – aiutano a ricostruire in maniera diversa la vicenda. E, di riflesso, potrebbero collocare in una luce nuova anche l’intricata storia dei rapporti tra Vaticano e Taiwan.

Una storia controversa
La Cina degli anni Trenta è un gigante febbricitante, reso fragile dai conflitti interni ed esposto all’ingordigia imperialista delle potenze straniere. La struttura imperiale si è sciolta da pochi decenni, a partire dall’abdicazione di Puyi, l’ultimo imperatore Qing, avvenuta nel 1912. Ma la giovane Repubblica inaugurata dai nazionalisti del Guomindang non riesce a mantenere il controllo su tutto l’immenso territorio. Mentre lo scontro coi comunisti di Mao degenera in un sanguinoso conflitto, nel settembre 1931 i giapponesi provocano ad arte un attentato alla loro linea ferroviaria che attraversa la Manciuria del sud per poi giustificare in nome del «principio di difesa preventiva» l’occupazione della ricca provincia cinese nordorientale, come base per ulteriori conquiste territoriali nell’ex Celeste Impero. Nel marzo ’32 gli stessi giapponesi, per mascherare l’occupazione, creano in Manciuria lo Stato fantoccio del Manchukuo, ponendovi a capo proprio Puyi, l’imperatore detronizzato (figura resa celebre dal film di Bernardo Bertolucci L’ultimo imperatore). La Società delle Nazioni rifiuta di riconoscere la nuova entità statale, dove comunque Puyi viene insediato il 1° marzo ’34 col titolo reale di Kang De (benessere e virtù). I giapponesi portano avanti la commedia fino a nominare un ambasciatore presso il governo del Manchukuo. Il nuovo Stato viene riconosciuto solo dall’Italia mussoliniana e dalla Germania nazista, che inviano anch’essi i propri rappresentanti.
A sinistra, la fanteria giapponese 
nel freddo inverno del 1933 
durante l’invasione della Manciuria

A sinistra, la fanteria giapponese nel freddo inverno del 1933 durante l’invasione della Manciuria

In Vaticano, la prima urgenza appare quella di tutelare per quanto possibile la vita ordinaria delle missioni cattoliche – otto tra vicariati e prefetture apostoliche, più le due province di Jehol e Hingan – finite sotto il controllo del nuovo “impero”, che vieta con la forza del suo apparato poliziesco ogni contatto tra gli ordinari di tali circoscrizioni ecclesiastiche e il delegato apostolico in Cina (che fino al ’33 era ancora il leggendario Celso Costantini). Quando affiorano le prime difficoltà, come in primis la minaccia del nuovo regime di chiudere le scuole cattoliche che non rendono a Confucio i riti d’omaggio prescritti dalle autorità civili, si corre ai ripari. Con una lettera datata 20 marzo ’34, la Congregazione di Propaganda Fide fa pervenire a uno degli ordinari locali, il vicario apostolico di Kirin Auguste Ernest Pierre Gaspais, l’insolita nomina ad tempus di «rappresentante della Santa Sede e delle missioni cattoliche del Manchukuo presso il governo del Manchukuo».
Già in quei giorni, il bollettino della congregazione delle Missions étrangères de Paris denunciava la manovra in atto sulla stampa locale per «sopravvalutare le funzioni affidate al vescovo Gaspais». Anche la propaganda maoista leggerà nei nuovi incarichi affidati al vicario di Kirin il pieno riconoscimento vaticano del governo fantoccio. Ma andò veramente così? Davvero la diplomazia del Papa offrì la sua sponda per legittimare l’entità politica creata dall’aggressione giapponese? Un memorandum finora inedito, scritto a metà degli anni Ottanta da colui che allora si definiva «il solo testimone superstite di Kirin», permette di ricostruire dall’interno come andarono veramente le cose. La testimonianza proviene da uno dei protagonisti della vicenda: il francese Charles Lemaire, della società missionaria delle Missions étrangères de Paris (Mep), a quel tempo rettore del seminario diocesano di Kirin, e che proprio in quel frangente sarebbe stato anche nominato vescovo ausiliare (con una scelta “tattica” che, come si vedrà, già da sola bastava a chiarire quale fosse la mens vaticana riguardo ai rapporti col Manchukuo). Il promemoria – dodici pagine scritte a mano, piene di aggiunte e correzioni, con calligrafia lineare ma in qualche raro caso indecifrabile – porta la data del 16 giugno ’86 e fu steso da monsignor Lemaire su sollecitazione del grande sinologo gesuita Laszlo Ladany, che gli aveva chiesto un resoconto dettagliato sull’intera vicenda. Il manoscritto (il cui originale adesso è depositato presso l’archivio personale del missionario del Pime Giancarlo Politi) costituirà una delle fonti documentarie principali del volume in via di pubblicazione Santa Sede e Manciukuò 1932-1945 (autore Giovanni Coco, Libreria Editrice Vaticana), insieme ad altri documenti inediti conservati negli Archivi vaticani.
La ricostruzione sommaria dei fatti proposta da Lemaire non lascia dubbi. Il missionario francese afferma con tono fermo che «il Vaticano non riconobbe mai la legittimità del governo del Manchukuo, né la legittimità del potere giapponese, né quella del potere imperiale di Puyi e dei suoi ministri manciù». E tutto questo perché «il Vaticano era troppo informato per lasciarsi coinvolgere, troppo rispettoso dei diritti della Cina e delle sofferenze della popolazione cinese della Manciuria, umiliata e ridotta al silenzio da un potere poliziesco onnipresente e onnipotente, per recitare la commedia dando l’impressione di riconoscerne la legittimità e avere delle relazioni diplomatiche». L’attribuzione del nuovo incarico a Gaspais serviva solo ad assicurare presso le missioni la presenza «di qualcuno che rappresentasse l’autorità centrale della Chiesa» in quella condizione d’emergenza e, a nome dei vescovi del posto, potesse gestire trattative con il governo illegittimo, pur senza riconoscerlo sul piano diplomatico. Nell’impossibilità di avere contatti con il delegato apostolico in Cina, serviva qualcuno che «per diritto ecclesiastico potesse essere messo al corrente delle difficoltà spirituali e temporali degli ordinari, e potesse a loro nome trattare con le autorità centrali». Lemaire elenca nel dettaglio le difficoltà concrete che richiedevano la presenza di un rappresentante delle missioni che potesse prendere decisioni a nome della Santa Sede, come la facoltà di erogare dispense, o di condurre inchieste preliminari alle nomine ecclesiastiche. E soprattutto, la facoltà di far fronte a «incidenti locali, contestazioni, atti arbitrari, ingiustizie flagranti da parte delle autorità locali contro cui gli ordinari erano impotenti».
Lemaire documenta con precisione i dettagli, anche tecnico-protocollari, che dimostrano la natura non diplomatica dei rapporti intercorsi in quegli anni tra il rappresentante nominato dal Vaticano e il governo del Manchukuo. «Per far fronte ai bisogni delle Chiese locali», scrive, «il Vaticano voleva avere qualcuno che lo rappresentasse in mezzo alle Chiese e presso il governo. Ma voleva anche, e molto fermamente, astenersi dal riconoscere la legittimità del governo della Manciuria; non voleva compiere neanche un atto che potesse apparire come una “legittimazione implicita”». Le funzioni del rappresentante corrispondevano più o meno a quelle che il Codice di diritto canonico attribuisce alla figura del delegato apostolico. Ma la Santa Sede non voleva fornire alcun pretesto, neanche lessicale, alle prevedibili strumentalizzazioni del governo fantoccio. Si evitò accuratamente di investire Gaspais coi titoli normalmente usati dalla Santa Sede per designare i propri rappresentanti in Stati retti da governi legittimi. «Questo» sottolinea Lemaire «spiega il nome, fino allora inconsueto nel diritto ecclesiastico, immaginato per questo caso particolare, di rappresentante della Santa Sede presso il governo del Manchukuo e delle missioni cattoliche del Manchukuo». Era eloquente anche il fatto che a nominare Gaspais fosse stata la Congregazione di Propaganda Fide, «quindi non il Papa in persona, e neanche la Segreteria di Stato, ma l’organismo detentore dell’autorità sulle missioni, organismo dunque puramente religioso, senza funzione di relazioni diplomatiche con gli Stati». E anche la scelta di attribuire le nuove funzioni a un ecclesiastico del posto stava a ribadire che la Santa Sede non aveva alcuna intenzione di «inviare da Roma» nessun rappresentante. «Tutto questo» sintetizza Lemaire «lasciava bene intendere cosa voleva la Santa Sede: essere rappresentata, ma senza riconoscere la legittimità del governo», per «poter accostarsi al governo in caso di necessità». Questo, ovviamente, comportava il riconoscimento dell’esistenza de facto dello Stato fantoccio. Ma «anche coloro che erano convinti dell’usurpazione, erano obbligati a riconoscere che questo governo di fatto esisteva. Le stesse proteste della Cina implicavano che questo potere tirannico fosse esistente».

Sopra, la cavalleria imperiale cinese durante l’intronizzazione dell’imperatore Puyi 
a capo dello Stato del Manchukuo

Sopra, la cavalleria imperiale cinese durante l’intronizzazione dell’imperatore Puyi a capo dello Stato del Manchukuo

L’anello debole
«I giapponesi» fa notare Lemaire «non hanno mai dichiarato formalmente che il Vaticano aveva riconosciuto il governo del Manchukuo; in pratica, hanno fatto di tutto perché lo si pensasse». Gaspais viene ripetutamente invitato ai ricevimenti ufficiali insieme agli ambasciatori dell’Asse. Quando si reca in visita alle comunità più remote della sua circoscrizione ecclesiastica, la propaganda di regime gli riserva accoglienze trionfanti, coi bambini che sventolano le bandierine gialle e bianche del Vaticano, come se fosse un nunzio in piena regola. Ogni inizio d’anno, seguendo il protocollo diplomatico, va a presentare i suoi auguri all’imperatore fantoccio. I giapponesi lo coprono di onorificenze, compresa la medaglia di grande ufficiale dell’Ordine del sostegno nazionale. Attraverso di lui vengono concessi a tutti i missionari dei piccoli benefits, come lo sconto del 30 per cento sui biglietti del treno.
È Gaspais l’anello debole su cui i giapponesi fanno pressione per forzare la mano alla Santa Sede. Nel 1936 il bonario figlio di contadini bretoni, finito per caso al centro dell’intricata vicenda, scrive addirittura una lettera a Roma per convincere la diplomazia vaticana a inviare in Manchukuo un rappresentante effettivo. Motiva la richiesta col desiderio di sgravarsi dagli impegni legati all’incarico ricevuto ad tempus, che lo distolgono dalla cura pastorale della diocesi a lui affidata. Secondo il racconto di Lemaire, Gaspais mette anche a disposizione dell’eventuale inviato vaticano «un palazzo per stabilirvi la “rappresentanza”». La risposta non si fa attendere, ed è più che eloquente. A novembre del ’36 Gaspais confida a Lemaire di aver ricevuto da Roma dei moduli con l’invito a compilarli coi nomi di qualche suo collaboratore da eleggere come vescovo ausiliare, per affiancarlo nella cura pastorale del Vicariato apostolico. Il messaggio è chiaro: dal Vaticano non verrà inviato nessun “rappresentante”. Visto che Gaspais dice di non farcela, gli verrà affiancato un vescovo coadiutore a cui delegare parte delle ordinarie incombenze pastorali. «Monsignore» commenta Lemaire «capì di aver scritto una lettera imprudente; la soluzione trovata da Roma era molto lontana da ciò che lui aveva sognato». Nel frattempo, anche il sovraccarico di lavoro lamentato da Gaspais si rivela un pretesto. Solo tre anni dopo, dietro ulteriore sollecitazione di Roma, il vicario si deciderà a segnalare come candidato al ruolo di vescovo coadiutore proprio il Lemaire. «Il 10 luglio 1939» racconta il missionario francese, che negli anni Cinquanta diverrà anche superiore delle Missions étrangères de Paris, «fui eletto vescovo titolare di Otro e coadiutore di Kirin, e consacrato il 15 novembre seguente». Mentre per i contatti col governo, Gaspais lascia spazio volentieri alla “mediazione” di sacerdoti giapponesi, inviati dalla madrepatria e con buone entrature presso la nomenclatura del regime fantoccio. Tra questi, un ruolo crescente viene assunto da Paul Yoshigoro Taguchi, futuro arcivescovo di Osaka e cardinale. «Il monsignore» nota Lemaire «non appariva mai, non scriveva niente. Padre Taguchi riuscì quasi sempre ad appianare le difficoltà. Non ci furono mai questioni diplomatiche trattate tra la Santa Sede e il governo».
Fatte salve le buone intenzioni personali, è indubbio che il modus operandi di Gaspais assecondò in alcune occasioni le operazioni di propaganda orchestrate dallo Stato fantoccio, ansioso di ostentare davanti al mondo un inesistente “riconoscimento” vaticano. Di queste ambiguità approfitta da decenni anche la storiografia ufficiale cinese nelle sue polemiche col Vaticano riguardo al Manchukuo. Analogamente, anche nelle vicende che nei primi anni Cinquanta porteranno al trasferimento della nunziatura di Cina a Taiwan, un ruolo decisivo sarà giocato dal nunzio Antonio Riberi. Sarà lui, dopo l’espulsione subita da parte dei maoisti, a rendere fatto compiuto l’ipotesi di trasferire la rappresentanza vaticana presso il governo nazionalista cinese rifugiatosi sull’isola di Formosa, con ovvia soddisfazione di quest’ultimo. Solo quando saranno pubblicati i documenti vaticani su questa vicenda, si potranno misurare nel dettaglio analogie e differenze della prassi seguita nei due diversi frangenti storici dalla diplomazia vaticana. La quale, come tutte le diplomazie del mondo, cammina con le gambe degli uomini, con le loro ambizioni e i loro limiti.

Sotto, gli alti funzionari di Manchukuo con l’imperatore Puyi 
durante un ricevimento di inizio anno

Sotto, gli alti funzionari di Manchukuo con l’imperatore Puyi durante un ricevimento di inizio anno

Riti cinesi, il caso è chiuso
C’è però almeno una questione in cui proprio Gaspais gioca, senza neanche accorgersene, un ruolo che meriterebbe più attenzione da parte degli storici della Chiesa.
Nel Manchukuo, racconta ancora Lemaire, «i giapponesi, per assicurarsi la sottomissione del popolo al governo, ebbero l’idea di ristabilire l’insegnamento del Wang Tao», la dottrina confuciana che prescrive la piena lealtà verso il sovrano. I rituali in onore di Confucio e dell’imperatore vennero imposti come obbligatori agli studenti e agli insegnanti di tutte le scuole, «con la minaccia di chiudere le scuole che si fossero rifiutate».
Come si è visto, proprio il ricatto sulle scuole cattoliche “convince” la Santa Sede a operare la nomina sui generis di Gaspais. Il quale, dopo aver ricevuto il suo nuovo incarico, incontrando il ministro degli Esteri, gli chiede con candore se i riti confuciani prescritti hanno carattere religioso o possono essere considerati come semplici manifestazioni di civico ossequio.
Dietro la questione posta da Gaspais riaffiora la controversia dei riti cinesi, secolare tormento della missione in terra cinese. Negli anni Trenta del secolo scorso era ancora in vigore il decreto Ex quo singulari del 1742 con cui Benedetto XIV aveva proibito a tutti i cattolici del Celeste Impero di prendere parte ai riti in onore di Confucio, condannati come idolatrici. Tutti i missionari, prima di partire per la missione in Cina, dovevano ancora prestare giuramento di obbedienza alle interdizioni contenute nel decreto.
È proprio la domanda naïf di Gaspais a innescare il processo che nel ’39 porterà al superamento definitivo di quella che Celso Costantini definiva «la maledetta questione dei riti». Essa riceve una risposta scritta, firmata dal ministro dell’Educazione, in cui le cerimonie in onore di Confucio vengono formalmente definite «manifestazioni esteriori di venerazione» prive di carattere religioso, e si ribadisce la loro natura di atti «dal significato puramente civile». Sulla base di tali rassicurazioni, nel marzo ’35 i vescovi del Manchukuo inviano a Roma un rapporto per chiedere almeno la possibilità di autorizzare la «partecipazione passiva» dei cattolici alle cerimonie confuciane. A metà maggio lo stesso Gaspais viene ricevuto in udienza da Pio XI.
Una delegazione del Manchukuo e membri del Partito fascista rendono omaggio 
al Monumento del milite ignoto a Roma nel 1938

Una delegazione del Manchukuo e membri del Partito fascista rendono omaggio al Monumento del milite ignoto a Roma nel 1938

Le circostanze politiche di emergenza, con la minaccia che pesa sulle scuole cattoliche, favoriscono un approccio pragmatico. Per la prima volta la Santa Sede concede alcune deroghe ai divieti che aveva sempre opposto davanti alle richieste dei missionari operanti in Cina. Il 28 maggio del ’35 la Congregazione di Propaganda Fide delega ai vescovi del Manchukuo la facoltà di regolare caso per caso la partecipazione dei cattolici ai riti cinesi. Solo nel dicembre ’39, con il decreto di Propaganda Fide Plane compertum, il permesso di offrire omaggio rituale a Confucio e agli antenati sarà esteso alla Cina intera.
Lemaire, nel suo memoriale, tiene a sottolineare che «anche la questione stessa dei riti cinesi non fu mai oggetto di nessun atto diplomatico tra il rappresentante della Santa Sede e il governo. La Santa Sede non aveva dato alcun mandato a Gaspais per trattare questo affare col governo. La risposta scritta del governo non era destinata alla Santa Sede, ma a monsignor Gaspais». Sta di fatto che il realismo accomodante imboccato dalla Santa Sede sotto il ricatto di uno Stato fantoccio considerato illegittimo liberò la Chiesa da una zavorra che per secoli aveva intralciato la sua missione nell’universo culturale cinese. Come ha notato padre Jean Charbonner, uno dei massimi sinologi cattolici viventi, durante una sua magistrale conferenza sui rapporti tra Vaticano e Manchukuo tenuta all’Università Cattolica di Taipei, «c’è solo da rammaricarsi che la Chiesa sia stata disponibile a un maggiore compromesso con i giapponesi aggressori piuttosto che con i legittimi imperatori cinesi del passato».


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