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CINEMA
tratto dal n. 06 - 2002

Quella vita ancora possibile


Intervista con Amos Gitai. L’ultimo film del regista israeliano è la storia di otto ebrei scampati allo sterminio che sbarcano in Palestina alla vigilia della nascita dello Stato di Israele. In questa microcomunità vivono tutti quegli elementi che dovrebbero essere alla base della convivenza tra i due popoli


di Antonio Termenini


Il regista Amos Gitai sul set del suo ultimo film,  Kedma

Il regista Amos Gitai sul set del suo ultimo film, Kedma

Dopo aver focalizzato la propria attenzione di cineasta sulle contraddizioni e le divisioni che lacerano la società israeliana con la trilogia Devarim, Yom Yom e Kadosh, Amos Gitai è tornato alle origini, raccontando la nascita dello Stato di Israele. Prima con Kippur, cronaca dei tragici eventi del 1973, poi con la trasposizione per il grande schermo di un’opera letteraria, Eden, presentata all’ultimo Festival di Venezia. Infine quest’anno, portando in concorso al Festival di Cannes Kedma. L’azione di questo film inizia nel 1948, alla vigilia della nascita dello Stato di Israele, quando un cargo, il Kedma, sta portando in Palestina otto ebrei, sopravvissuti alla persecuzione nazista, appartenenti a diverse nazionalità. La presentazione in concorso del film a Cannes è stata l’occasione per parlare con Amos Gitai.

Fino a Kadosh, realizzato nel 1999, ha puntato la sua attenzione sulla società israeliana contemporanea. Perché da Kippur in avanti ha deciso di raccontare la nascita di Israele?
AMOS GITAI: Nel 1999 i rapporti tra israeliani e palestinesi sembravano essere migliorati in modo decisivo, nonostante l’assassinio di Rabin, e il percorso per la nascita di uno Stato palestinese sembrava al punto di arrivo. In quel momento politicamente favorevole, con Devarim, Yom Yom e Kadosh volevo mettere in evidenza come quella tregua fosse solo apparente e come la convivenza tra i due popoli fosse ancora molto lontana. Le armi tacevano e la diplomazia sembrava finalmente avere il sopravvento su questo scontro. Girando per Tel Aviv, per Gerusalemme, nei territori occupati emergeva, tuttavia, un forte malessere, una mancata volontà di riconciliazione delle contrapposizioni culturali. Kadosh, in particolare, era un disperato grido d’allarme, anche metaforico, sull’inconciliabilità dei due popoli, attraverso l’impossibile storia d’amore tra un ebreo e una palestinese.
È veramente impossibile, secondo lei, una riconciliazione tra i due popoli?
GITAI: In teoria assolutamente no. Anzi dovrebbe essere un processo naturale perché sia ebrei sia palestinesi discendono da Abramo. La mia opinione è che dopo i mancati accordi di Camp David tra Arafat e Barak, nell’estate del 2000, alla vigilia della scadenza della presidenza Clinton, la diplomazia internazionale abbia spostato la propria attenzione in altre zone di crisi del mondo, ritenendo ormai scontato o prossimo un accordo tra i due contendenti. La tragedia dell’11 settembre non ha fatto che acuire questa tendenza, creando, a mio parere, pericolosi equivoci su una possibile connivenza tra i palestinesi, Arafat e i terroristi talebani. A quel punto l’escalation di violenza da entrambe le parti è diventata inarrestabile, anche per colpa della politica del premier israeliano Sharon.
Se è vero che Arafat può avere delle responsabilità nel non essersi espresso nei tempi più opportuni contro le azioni estremiste di gruppi di Hamas, è altrettanto vero che l’azione militare di Sharon non era mossa da un piano strategico, dalla ricerca di un nuovo interlocutore. Si è trattato solo di una reazione istintiva agli attacchi dei kamikaze palestinesi
Quindi la sua opinione su una risoluzione del conflitto rimane la nascita di uno Stato palestinese.
GITAI: Non esiste un’altra opzione altrettanto valida e credibile. L’economia israeliana si basa, in gran parte sulla mano d’opera palestinese e gli innesti tra le due popolazioni avvengono a molti livelli, non solo commerciali ed economici. Nell’auspicata ripresa del processo di pace è necessario un intervento anche dell’Unione europea, non solo della diplomazia statunitense. Lo si è visto nel terribile episodio dell’assedio alla basilica della Natività. Senza l’intervento dei governi europei si sarebbe rischiata una situazione di stallo di altre settimane. L’idea che gli Stati Uniti, da soli, possano risolvere tutti i conflitti è ormai tramontata. Almeno per quanto riguarda il Medio Oriente.
Una scena tratta dal film

Una scena tratta dal film

Dopo aver portato lo scorso anno al festival di Cannes Kippur, quest’anno, in concorso, ha presentato Kedma, anch’esso uno sguardo rivolto al passato, alle radici della nascita dello Stato d’Israele.
GITAI: Con Kippur ho inaugurato un’altra fase del mio cinema. Kadosh entrava in tutte le contraddizioni e le false convergenze della società israeliana contemporanea, mentre con Kippur ho tentato di capire il travagliato processo che ha portato alla nascita dello Stato di Israele. Con Kedma ho voluto raccontare una storia dal carattere esemplare: otto cittadini europei di origine ebraica che sbarcano in terra palestinese alla vigilia della nascita dello Stato d’Israele in un clima di incertezza e di paura. In questa microcomunità si trovano in nuce le caratteristiche che dovrebbero essere alla base della convivenza tra palestinesi e israeliani, la multietnicità e la multiculturalità.
In concorso erano presenti altre due opere molto importanti che trattano sia dell’attuale situazione nei territori occupati in Palestina che dell’Olocausto, Intervento divino di Elia Souleimane e Il pianista di Roman Polanski. Come li valuta?
GITAI: Intervento divino è un film molto bello, volutamente di parte, ma mai manicheo, anzi, molto ironico nel sottolineare alcuni aspetti drammatici dello scontro ebraico-palestinese. Il pianista è un’opera necessaria, fondamentale per chi cerca di rimuovere la tragedia che ha segnato la storia del Novecento, l’Olocausto. Apparentemente può sembrare un film molto diplomatico, di ricostruzione neutra dei fatti, ma soprattutto nella seconda parte emergono dei tratti tipicamente polanskiani, come la crudeltà dei gerarchi nazisti e la solitudine di un uomo, il pianista Spielmann di fronte alle atrocità della storia.


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