POLITICA INTERNAZIONALE
La testimonianza di Primakov
All’ambasciata russa in Roma il nostro direttore ha presentato il 2 novembre la traduzione italiana del saggio scritto dall’ex primo ministro che guidò la transizione del suo Paese dall’epoca di Eltsin a quella di Putin
di Giulio Andreotti

Primakov con Yasser Arafat a Mosca nel febbraio 1997
In verità nella storia dell’Onu le disobbedienze erano la norma.
Tra i governi che dispiegarono sforzi molto seri per far desistere il dittatore iracheno, quello sovietico fu in prima linea e, come inviato del presidente Gorbaciov, Primakov andò anche più volte di persona per impetrare il rientro delle truppe di invasione. Nel nostro piccolo ambito anche noi italiani ci attivammo, in stretto contatto proprio con Mosca e con alcuni personaggi delle aree allora classificate come allineate a sinistra o non allineate (compresi autorevoli statisti dell’America Latina), come Ortega.
Purtroppo Saddam si arrese solo dopo la spettacolare azione aeronavale dell’Armata messa in campo dall’Onu tra il gennaio e il febbraio del 1991.
Restituita la sovranità al Kuwait, i propositi di punire Saddam invadendo il suo Paese furono bloccati dalla grande maggioranza delle nazioni, sia per motivi di principio sia per la convinzione (ho memoria in proposito di un intervento dell’allora capo di Stato maggiore americano Colin Powell) che metter piede sul territorio dell’Iraq sarebbe stata una autentica trappola.
Non va dimenticato d’altra parte che Saddam era stato il grande beniamino di molti Paesi occidentali quando aveva fatto guerra all’Iran di Khomeini.
Non è ardito dire – e lo faccio con tristezza – che se non avesse aggredito il Kuwait, molto probabilmente Saddam Hussein sarebbe ancora al suo posto, indisturbato, con buona pace della situazione dei curdi e degli altri.
Ma vengo al secondo degli incontri con Primakov. Qualche mese dopo la rapida Guerra del Golfo – esattamente a metà luglio del 1991 – si riunì a Londra il G7; e fu invitato come ospite d’onore il presidente Gorbaciov, che venne accompagnato appunto dal signor Primakov. La loro tesi fu molto netta. Avevano certamente bisogno di sostegni finanziari, ma prima di tutto chiedevano comprensione politica, specificando che questo voleva dire gradualità e differenziazione nell’assetto delle varie componenti dell’Unione. Pensare a un modello unico era errato e impossibile, essendo appunto molto diverse le realtà etniche, economiche e psicologiche. Dovevamo renderci conto di queste diversità. Chiedere, ad esempio, l’immediata restaurazione della sovranità dei Paesi Baltici era in contrasto con questo disegno articolato, che purtroppo non trovò comprensione dalla maggior parte dei presenti (fece particolare eccezione, con un intelligente intervento, il presidente Mitterrand). Anche una saggia esposizione del presidente della Commissione Jacques Delors sulle caratteristiche del tutto anomale della struttura economica dell’area – perfino con produzioni integrate tra Stati vicini – non trovò attenzione. Più tardi la signora Thatcher (che però non era al G7 essendosi dimessa dalla carica di primo ministro) scrisse nei suoi diari che Delors aveva nostalgia dell’Unione Sovietica. Sta di fatto che Gorbaciov e Primakov ripartirono da Londra soltanto con il conforto di un comunicato nel quale si auspicava che venissero ammessi come osservatori nel Fondo monetario. Era ben poco per statisti che dovevano compiere l’ardua impresa di far accettare alla popolazione e alle forze armate la dissoluzione del Partito comunista e la riunificazione della Germania. Erano a questo punto inevitabili le pericolosissime manovre del signor Boris Eltsin e di altri nostalgici.

Boris Eltsin, in piedi su un mezzo blindato dei golpisti, davanti al Parlamento di Mosca nell’agosto 1991
Desidero però annotare un’altra premessa. Nel dopoguerra la politica estera italiana si è articolata dividendo nettamente i rapporti tra gli Stati e quelli tra i partiti. Così, quando nel maggio 1947 sul fronte interno il Partito comunista italiano fu collocato in una dura opposizione, i rapporti diplomatici del nostro governo con quello di Mosca non ebbero confusioni o incrinature. E anche in pendenza, dopo due anni, della nostra partecipazione alla Nato, non furono mai interrotte tra noi corrette relazioni tra Stato e Stato. Io stesso per anni ho avuto rapporti molto frequenti e reciprocamente utili con un personaggio come Andrej Gromyko, di cui apprezzavo anche un’intelligente venatura di umorismo. Come quando, per definire i governi occidentali come staccati dalle popolazioni, mi mise in imbarazzo chiedendomi – e non lo sapevo – quanto costasse a Roma un passaggio in tram. Poco dopo girai a lui la stessa domanda, riguardo alla metropolitana di Mosca, e lui non me ne volle per dovermi confessare di non saperlo.
Se del libro di cui stiamo parlando politicamente mi sono interessati i passaggi che riguardano il grande trapasso istituzionale, non meno affascinanti sono le pagine relative alla nascita e alla formazione personale dell’autore. Suo padre fu fucilato nel 1937; sua madre era medico di fabbrica e gli insegnò fierezza e, per quel che possibile, una certa autonomia. Ne ricorda la grande popolarità tra le operaie dello stabilimento e accenna alla austerità di vita nell’unica stanza loro assegnata in appartamenti di coabitazione familiare (lo stesso accadrà quando, giovanissimo, si sposa).
Durante gli studi superiori – aveva scelto l’indirizzo di orientalistica – si incrocia con giovani destinati ad avere un grande avvenire, tra cui Nehru e Tito, e con quest’ultimo avrebbe avuto più tardi incontri, dopo l’espulsione di Tito stesso dal Cominform.
Diventa giornalista della Pravda e redattore radiofonico; in quest’ultima veste è al seguito di Krusciov in Albania e riporta gli interessanti commenti del suo capo al culto di Stalin, che gli albanesi conservavano intatto. A sua volta Krusciov scandalizzò i compagni albanesi esprimendo le condoglianze per la morte, avvenuta in quei giorni, di John Foster Dulles.
Cronista politico, segue da vicino vicende importanti come il colpo di Stato in Siria, gli sviluppi della politica egiziana di Nasser, i difficili rapporti tra Baghdad e i curdi. Alcuni accenni al partito Baath ci aiutano a comprendere lo sviluppo di molte situazioni. Ma anche in altre zone fece esperienze singolari: tra cui colloqui in Sudan con Nimeiry, il cui programma fu quello di voler imporre anche al sud cristiano e animista del suo Paese la legislazione islamica.
Descrizioni di grande interesse riguardano i contatti avuti con Arafat (al quale sottolineò l’errore nella valutazione positiva delle gesta kuwaitiane di Saddam Hussein), con il povero Sadat, con alti esponenti sauditi e con i re di Giordania e del Marocco.
Difficile dire, degli undici capitoli di questo libro, quale sia il più interessante. Vi è – costante – un intreccio di storia e di autobiografia, mettendosi in luce una personalità molto forte e anche una capacità straordinaria di intuire le variazioni e di individuare contributi alle correzioni delle crisi.
Di particolarissimo rilievo sono le dettagliate memorie degli incontri, in varie riprese ed eventi, con Saddam Hussein e anche con Tareq Aziz (oggi soggetti di cronache non più politiche ma giudiziarie).
I rapporti di Primakov con Gorbaciov – come è inevitabile tra due personalità motivate e dure – non sono stati sempre facili. Anzi. In più pagine si descrivono incontri e scontri sempre ispirati però a considerazioni non banali.
I rapporti di Primakov con Gorbaciov – come
è inevitabile tra due personalità motivate e dure – non
sono stati sempre facili. Anzi. In più pagine si descrivono incontri
e scontri sempre ispirati però a considerazioni non banali. Credo
che la vocazione orientalistica di Primakov gli abbia dato una carta in
più da giocare.
Sorvolo sul capitolo sui servizi segreti, che in ogni Paese e in ogni stagione politica provocano problemi particolari, esuberanza di organici, disinvoltura di procedimenti. D’altra parte ce ne stiamo occupando anche noi a seguito delle rivelazioni di un trasfuga (Mitrokhin) abilmente sfruttato dagli inglesi e di fatto ormai prive di interesse dopo tanti anni e numerose iniziative editoriali.
Suggestiva è la descrizione della investitura di Primakov come ministro degli Esteri, decisa da Eltsin il 5 gennaio 1996. Non posso certo personalmente, con un solo incontro, sia pure di qualche ora, avuto con lo stesso Eltsin, darne un giudizio competente. Certo è che ne riportai una impressione deludente e disastrosa. Forse per i russi fu la punizione per avere accettato (ma che potevano fare?) i lunghi anni della dittatura.

Primakov con il segretario di Stato americano Madeleine Albright a Mosca nel febbraio 1997
Si trovò ad affrontare il problema della espansione della Nato. Secondo un accenno del libro, qualche tempo prima (1990) Gorbaciov avrebbe avanzato l’idea di barattare il ritiro della Germania federale dalla Nato con il ritiro delle truppe sovietiche dalla Germania est. Ma l’idea era – in verità bizzarra – rimasta lì, senza sviluppi.
L’abilità diplomatica del ministro Primakov si dimostrò notevole; e ne fa testo la cronaca dei suoi incontri specialmente con gli americani. Comunque, dopo qualche tempo, la formula del “sedici più uno” divenne il modus operandi; e questo ha certamente contribuito a una effettiva distensione. Si registra anche un ruolo del personaggio Solana, in precedenza non molto conosciuto. Ma è particolarmente colorita la cronaca dell’incontro a Helsinki di Eltsin con il presidente Clinton infermo e in carrozzella. All’interlocutore russo avrebbe detto: «Boris, abbi pietà di uno storpio».
Comunque i colloqui, qui e dopo, non furono sterili; e si descrivono bene gli sviluppi, maturati più tardi con la dichiarazione congiunta Putin-Bush del 24 maggio 2002 sulla riduzione delle armi strategiche.
Segue una descrizione interessante dei contatti di Primakov con la difficile signora Albright, che Primakov – e questo mi sorprende – definisce «incisiva, determinata, intelligente e (soprattutto) affascinante».
Al termine di questo capitolo, Primakov ritorna sui contatti avuti a più riprese con Solana e definisce il rapporto Russia-Nato come garante della pace attraverso un compromesso costruttivo e solido.

Qui sopra, Primakov, in qualità di primo ministro, con il vicepresidente iracheno Tareq Aziz a Mosca il 7 dicembre 1998
Senza nulla togliere all’importanza del resto del libro, credo che di un particolarissimo interesse sia il capitolo su: “La polveriera del Medio Oriente”. Quasi rassegnato, l’autore sottolinea che l’area non è stata mai in grado di raggiungere e sostenere uno stato né di guerra né di pace, che avrebbe potuto portare alla creazione della stabilità territoriale. E parte, nell’analisi, da quando era redattore dei programmi di Radio Mosca durante l’attacco anglo-franco-israeliano all’Egitto nel 1956 (dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez) che si concluse con la conquista da parte di Israele della penisola del Sinai, della riva occidentale del fiume Giordano e della Gerusalemme orientale.
Primakov descrive bene involuzioni ed evoluzioni nella zona, rammentando che nel 1948 anche Stalin aveva formalmente riconosciuto lo Stato di Israele. Il principio del dialogo tra Israele e i palestinesi ha ciclicamente ispirato da allora varie iniziative, prima e dopo la Conferenza di Madrid del 1991. In particolare si descrivono qui le speranze e i tentativi per superare le continue vicende critiche con il Libano, con la Siria; un po’ con tutti (evidenziandosi anche i differenti tipi umani: da Shimon Peres a Netanyahu). Viene posto l’accento anche – e non lo si deve dimenticare – sul fatto che esiste tuttora una zona siriana occupata dagli israeliani, il Golan. Illuminante è la cronaca degli incontri tra Primakov e lo stesso Netanyahu e più tardi Barak. Ma problemi interni alla propria area ebbero la precedenza per il nostro personaggio: tra i quali il tentativo dell’Abkasia di staccarsi dalla Georgia. È una conclusione deludente di questo capitolo.
Di particolarissimo rilievo sono
le dettagliate memorie degli incontri, in varie riprese ed eventi,
con Saddam Hussein e anche con Tareq Aziz (oggi soggetti di cronache non più politiche ma giudiziarie)
Il 12 settembre 1998 Eltsin promosse – se
così si può dire – Primakov a capo del governo, in un
momento di grande contestazione con la Duma, che accettò il nuovo
candidato con una votazione superiore al quorum necessario. Diffusa era la preoccupazione per la
situazione generale sia nell’economia che nel resto. La moratoria dei
pagamenti ai possessori dei titoli statali fu un disastro e aveva messo in
gioco la validità dell’azione dei cosiddetti pseudoliberali.
Primakov illustra il piano da lui promosso per un risanamento economico
effettivo, ma si dedicò anche ad altri settori, dimostrando buona
intuizione e saggezza. La crisi della Cecenia (tuttora non rimarginata) fu
un colpo negativo tremendo, descritto in queste pagine efficacemente.
Quello che non fece la crisi cecena compirono – a detta di Primakov – il Fondo monetario e, in generale, un ritenuto mutamento della politica americana verso la Russia, sia da parte di chi riteneva laggiù che la Russia dovesse cuocersi nel proprio brodo, sia in quanti censuravano la corruzione e il tentativo degli oligarchi di impossessarsi del potere.
Trascrivo una pagina importante del nostro libro, anche per una certa attualità del tema: «Come aveva fatto l’Iran a diventare un argomento di interesse per il rapporto Russia-America? L’Iran è uno Stato sovrano in cui sono ancora in corso processi complicati. È caratterizzato da una lotta interna tra il movimento secolare, che si sta sempre più rafforzando, e gli estremisti religiosi, che ancora detenevano un potere notevole. L’elezione del presidente Mohammad Khatami nel 1998 aveva mostrato che la vasta maggioranza dell’elettorato rifiutava un’organizzazione strettamente islamica dello Stato e della società. Era stato un passo in avanti. Un altro passo in avanti era dato dal fatto che Qum, il centro religioso dell’Iran, sembrava rifiutare l’idea di esportare la rivoluzione islamica dell’ayatollah Khomeini: si trattava di una delle principali caratteristiche di quegli islamici che erano saliti al potere dopo la deposizione dello Scià nel 1979.
La Russia seguiva con attenzione tutti questi cambiamenti, e non solo per pura curiosità. L’Iran è una regione a noi vicina con la quale per decine di anni abbiamo intrattenuto dei rapporti vantaggiosi per entrambi. Questi rapporti continuano tuttora e non solo hanno una forte componente economica, ma dalla metà degli anni Novanta includono anche la cooperazione politica, specialmente su questioni in cui i nostri interessi coincidono.
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Lo raggiunse sull’Atlantico una telefonata di Gore che gli comunicava la decisione Usa di attaccare nel giro di poche ore la Iugoslavia. Vano fu il tentativo di farli desistere, compiuto da Primakov richiamando al telefono Gore, dopo aver parlato con Milosevic Quello che non fece la crisi
In molte occasioni ho parlato con Madeleine Albright
della situazione in Iran, tentando di persuaderla che i duri metodi che
tendevano a far diventare quel Paese come esiliato dalla comunità
mondiale servivano solo a peggiorare le cose, risultando così
controproducenti.
La cooperazione tra la Russia e l’Iran per costruire una centrale nucleare a Busher è sempre stata il pomo della discordia nei rapporti tra la Russia e l’America. Washington era come sorda di fronte alle nostre spiegazioni quando le dicevamo che quel che stavamo facendo a Busher non aveva nulla a che fare con le armi nucleari, e che stavamo installando reattori ad acqua leggera, le cui caratteristiche e potenzialità erano identiche a quelle dei reattori che gli Stati Uniti avevano promesso alla Cina. Un’organizzazione russa aveva intenzione, ed era la sua unica intenzione, di sviluppare in Iran un supporto scientifico (non militare) e una miniera di uranio, ma questi progetti vennero proibiti dal presidente della Federazione russa».

George W. Bush con Vladimir Putin a San Pietroburgo nel maggio 2002
Ultimo tema che estraggo nella presentazione di questo libro davvero interessante. Primakov era in volo per Washington per un incontro con il vicepresidente Gore, programmato su questo argomento, quando lo raggiunse sull’Atlantico una telefonata dello stesso Gore che gli comunicava la decisione americana di attaccare nel giro di poche ore la Iugoslavia. Vano fu il tentativo di farli desistere, compiuto da Primakov richiamando al telefono Gore, dopo aver parlato con Milosevic.
L’attacco aereo americano e – purtroppo – Nato distrusse le infrastrutture civili della Iugoslavia e, quel che è grave, molte vite umane. La mediazione era stata rifiutata.
Primakov conclude il capitolo con questa malinconica frase con la quale io stesso termino la mia presentazione, lasciando a voi, se lo credete, la lettura del capitolo sui rapporti tra lo stesso Primakov e la complessa “Famiglia del Presidente”: «Spero che come primo ministro io sia riuscito a lasciare un’eredità positiva per coloro che hanno continuato con successo a tentare di porre fine agli attacchi aerei e poi hanno lavorato per stabilizzare la situazione in Kosovo. Sfortunatamente, nel momento in cui scrivo, la situazione in Kosovo non ha ancora avuto una soluzione di tranquillità e sicurezza per tutti».
Non siamo questa sera in condizione di poter dire il contrario.