
Qui sopra, monsignor Joseph Theodorus Suwatan, vescovo di Manado
«Non mandate a morte quei tre contadini». È
l’appello che giunge dall’altro capo del mondo, precisamente
dall’Indonesia; e viene dal vescovo di Manado, diocesi nel nord
dell’isola di Sulawesi (Celebes), monsignor Joseph Theodorus Suwatan.
Loro sono Fabianus Tibo, di 60 anni, Marianus Riwu, di 48 anni, e Dominggus
da Silva, che di anni ne ha 42; “Tibo e compagni”, come ormai
sono chiamati dalle cronache di quello che è diventato un caso
nazionale. I tre sono stati accusati di aver commesso alcuni omicidi tra il
marzo e il giugno del 2000, crimini che avrebbero dato vita a un sanguinoso
conflitto tra cristiani e musulmani. Gli omicidi sono avvenuti nel quadro
degli scontri a sfondo religioso avvenuti nella zona di Poso tra il
1998 e il 2001, nei quali hanno perso la vita circa duemila persone; una
guerra che va di pari passo con il conflitto scoppiato in un’altra
zona dell’Indonesia, le isole Molucche, dove gli scontri tra
cristiani e musulmani hanno causato almeno 13.500 morti. Già,
perché anche in Indonesia, che ha una popolazione di 210 milioni di
persone, l’87% delle quali musulmane e il 10% cristiane (di cui il 3%
cattoliche), c’è stato chi ha cercato di innescare uno scontro
di civiltà, tra comunità religiose che, anche in nome dei
principi della Pancasila (i cinque principi guida dello Stato: fede in un solo Dio,
unità, umanità, democrazia e giustizia sociale), avevano
finora convissuto pacificamente. Grazie a Dio, per entrambi i conflitti si
è giunti a una riconciliazione, soprattutto per la ragionevolezza
delle comunità religiose cristiane e musulmane, ma gli strascichi di
quelle violenze non sono finiti. Tra questi c’è chi annovera
anche la vicenda di Tibo e compagni, il cui procedimento penale si è
concluso con la loro condanna a morte.
«Il loro processo è stato
frettoloso», dice padre John Mangkey, segretario generale dei
Missionari del Sacro Cuore di Gesù (Msc), originario di Manado e
residente a Roma: «Si volevano trovare subito dei colpevoli per
chiudere in fretta la vicenda e ne è scaturito un processo sommario.
È impossibile che quei tre siano le “menti” del
conflitto, ovvero che con i loro delitti volessero innescare uno scontro
religioso – perché per questo sono stati condannati. Sono tre
poveri contadini… Non dico che siano totalmente estranei alle
violenze avvenute in quel tragico periodo: loro erano venuti dalla campagna
per difendere la chiesa di Santa Teresa e il convento delle orsoline, e poi
hanno partecipato agli scontri successivi. Ma azioni del genere, purtroppo,
in quel momento erano diffuse. La pena di morte è davvero
eccessiva…». Anche perché per quei tragici avvenimenti,
Tibo e i suoi compagni sono gli unici a essere finiti sotto processo...
Si era sperato che il presidente della Repubblica,
Susilo Bambang Yudhoyono, potesse risolvere la questione concedendo la
grazia, ma così non è stato. Monsignor Suwatan, vescovo di
Manado, la cui diocesi abbraccia la tormentata zona di Poso, ha fatto
diversi appelli pubblici in favore dei tre condannati. Spiega: «Tibo
e i suoi compagni vengono dall’isola di Flores, perché avevano
aderito al programma governativo che prevede l’emigrazione di
contadini da zone sovrappopolate ad altre. Erano venuti a Poso in cerca di
una vita più dignitosa. Tutto qua. Come possono dei contadini
analfabeti essere gli ispiratori dei massacri? E poi i cattolici a Poso
sono stati delle vittime. Tutte le strutture cattoliche sono state
incendiate e distrutte durante quel conflitto: la chiesa di Santa Teresa,
il presbiterio, il convento delle orsoline, le scuole e gli alloggi degli
studenti, la sala parrocchiale. Non è rimasto niente…».
Ma il presule non sottolinea queste cose per puntare l’indice
accusatore contro gli islamici. «È una questione di
giustizia», spiega, ora che, con l’avvicinarsi della
fucilazione, i suoi appelli si sono fatti più serrati. A questo
proposito padre Mangkey pone l’accento su un particolare emerso
durante il processo: Tibo e i suoi compagni avevano detto agli inquirenti
che altri avevano avuto un ruolo molto più rilevante del loro in
quelle violenze. E avevano fatto i nomi di sedici persone. Ma nessuno ha
mai voluto approfondire quelle rivelazioni.

Immagini di distruzione a Poso
Nella difesa dei tre contadini, la diocesi di Manado ha
cercato, e trovato, aiuto anche in ambito non cristiano. Alla conclusione
della Sagki (Grande riunione nazionale della Chiesa indonesiana), che si
è tenuta nel novembre scorso, erano presenti i capi delle diverse
comunità religiose del Paese, musulmani compresi. È in
quell’occasione, spiega monsignor Suwatan, che padre Jimmy Tumbelaka,
parroco di Santa Teresa, ha incontrato Hasyim Muzadi, presidente della
Nahdlatul Ulama, la più importante organizzazione musulmana di massa
del Paese, per parlare della vicenda giudiziaria di Tibo e dei suoi
compagni. Un incontro positivo, dal momento che il sacerdote cattolico ha
riferito alle agenzie di stampa che il leader islamico non aveva fatto
obiezioni a un eventuale appello internazionale in favore dei tre
condannati. Il presule di Manado ricorda che tutti i leader religiosi
presenti hanno aderito alle conclusioni di quell’assemblea,
sintetizzate in questa frase: «Innalzarsi e muoversi per costruire un
nuovo habitus per
una nuova moralità pubblica della nostra nazione». Un fatto
che testimonia come il desiderio di pace e convivenza sia diffuso tra tutte
le comunità religiose. Continua monsignor Suwatan: «A Poso non
c’è stato uno scontro tra religioni. È la politica che
manipola la religione e usa la religione per i suoi fini…
C’è chi ha interesse ad alimentare questi scontri, chi si
giova di queste tragedie come occasione di facili guadagni. Per fare un
solo esempio: il governo centrale ha stanziato dei fondi in favore delle
vittime del conflitto. Il vecchio reggente di Poso, l’equivalente del
vostro sindaco, e altri membri dell’amministrazione locale, sono
stati accusati di aver sottratto una parte di quei soldi e ora sono a
Giacarta, dove la loro posizione è al vaglio degli
inquirenti». Anche padre Mangkey è sulla stessa linea, lui che
da Roma segue con trepidazione l’evolversi della situazione nella
madrepatria, racconta di comunità locali (musulmane e cristiane)
unite nel tentare di respingere le infiltrazioni integraliste che vengono
da fuori. E di come, nelle Molucche, i musulmani diano una mano nella
ricostruzione delle chiese cristiane distrutte. Non solo: la Nahdlatul
Ulama, in particolare nell’isola di Giava, da anni organizza dei
presidi di volontari per vigilare sulle chiese cristiane in occasione del
Natale. Eppure c’è chi ancora cerca in tutti i modi di
incendiare questo immenso Stato-arcipelago formato da una miriade di isole
(dove vive la più popolosa comunità musulmana del pianeta),
progettando e compiendo attentati e violenze ai danni della minoranza
cristiana. Particolarmente efferata l’aggressione avvenuta il
29 ottobre scorso, quando tre studentesse cristiane sono state uccise e
decapitate. Un crimine che ha trovato ampia eco anche sui giornali
stranieri. In quella circostanza monsignor Suwatan disse: «Ci
troviamo di fronte a una strategia del terrore tesa a scioccare e a
provocare tensione proprio ora che i rapporti tra le comunità
cristiane e musulmane sono stati pacificati».

Una manifestazione per la pace
per le strade di Giacarta
Conclude monsignor Suwatan: «È
significativo che in questi giorni i capi di alcune organizzazioni
islamiche si siano esposti pubblicamente e abbiano chiesto di rimandare
l’esecuzione di Tibo e compagni, ma anche di rivedere la loro
condanna a morte, nello spirito della ricerca di una giustizia giusta. Uno
di loro è Nawawi S. Kilat, un esponente di primo piano della
comunità musulmana di Poso e, tra l’altro, anche uno dei
firmatari degli accordi di pace di Malino, del dicembre 2001, che hanno
posto fine al conflitto religioso. Anche il capo del Sinodo protestante di
Sulawesi, il reverendo Rinaldy Damanik, ha chiesto ulteriori indagini, in
particolare per approfondire il ruolo delle sedici persone indicate dai tre
condannati. Tutto questo è importante anche per evidenziare ancora
una volta come il conflitto che ha avuto luogo a Poso non è affatto
uno scontro tra cristianesimo e islam. E che dare voce alla difesa di Tibo
e compagni non è solo chiedere giustizia per queste persone, ma
è anche il tentativo di individuare i veri colpevoli del perpetuarsi
di questo conflitto. Farò del mio meglio, con l’aiuto di tutte
le persone di buona volontà e di qualsiasi religione, per cercare
giustizia».
Il presule indonesiano ha voluto informare della
questione anche il Santo Padre. Anche perché sa che Benedetto XVI
segue con attenzione le vicende del suo Paese, tanto che, in occasione
dell’uccisione delle tre studentesse, ha voluto far pervenire ai
familiari delle vittime le sue parole di conforto. Anche la Comunità
di Sant’Egidio ha preso a cuore la vicenda e il 19 dicembre, insieme
ad alcuni esponenti musulmani indonesiani, ha lanciato un appello in favore
dei tre condannati. Nel frattempo si contano i giorni che separano i tre
contadini di Poso
dall’esecuzione, la cui data dovrebbe essere fissata tra poco. Per
Tibo e i suoi compagni il tempo si è fatto breve.