FATEBENEFRATELLI
Il buon samaritano nel Celeste impero
Pascual Piles Ferrando, generale dell’ordine ospedaliero fondato da san Giovanni di Dio, fa il punto sulla presenza del Fatebenefratelli nell’Estremo Oriente
di Giovanni Ricciardi
Da sinistra, fra Pierluigi Marchesi, fra Pascual Piles Ferrando e fra Brian O’ Donell, ex priore generale
Può presentarci una panoramica sulla vita dell’ordine nel mondo?
PASCUAL PILES FERRANDO: Noi adesso operiamo in cinquanta Paesi del mondo. Oltre alla tradizionale attività in Europa, America del nord e America Latina, siamo presenti nel Pacifico (Australia, Nuova Zelanda e Papua Nuova Guinea), e in Africa. Lo sviluppo più recente e più vivace dell’ordine si colloca però in Asia: oltre alla casa di Nazareth, siamo presenti in India (soprattutto in Kerala), Filippine, Corea del Sud, Vietnam e Giappone. Dal 2000 abbiamo avuto l’occasione di iniziare un’opera in Cina, nella regione dello Yanji.
Come è nata quest’opportunità?
PILES FERRANDO: Qualche anno fa, funzionari del servizio sanitario dello Yanji, una regione molto fredda situata a nord delle due Coree, sono andati in Corea del Sud per visitare dieci ospedali di quel Paese, tra cui uno gestito da noi. Nella loro relazione, la nostra struttura fu giudicata tra le migliori, soprattutto grazie a un’unità sanitaria per la cura “palliativa”, l’assistenza cioè ai malati terminali. Dopo questa prima visita, sono stati inviati due medici che hanno trascorso con noi un soggiorno di tre mesi, e tre infermieri che si sono fermati sei mesi. Alla fine le autorità locali ci hanno chiesto di fondare un ospedale nella loro regione. Abbiamo accettato con entusiasmo, anche se lo sforzo economico per creare questa struttura, che sarà dotata di 25 posti letto, non è indifferente. Tutta l’opera tra costruzione e attrezzature è completamente a carico nostro, e verrà a costare, una volta ultimata, circa tre milioni di dollari. Ma quello di entrare in Cina era un desiderio coltivato da tempo.
Che tipo di accordo avete sottoscritto con il governo?
PILES FERRANDO: Come struttura sanitaria abbiamo firmato un gemellaggio con l’ospedale generale dello Yanji. Come comunità religiosa invece abbiamo preso altri accordi, accettando alcune condizioni, a cui ci dobbiamo attenere soprattutto nel rapporto con i degenti.
Che genere di condizioni?
PILES FERRANDO: In linea generale, non possiamo manifestare pubblicamente la nostra fede né fare direttamente opera di apostolato con i malati. Possiamo però pregare davanti ai malati, senza coinvolgerli. Se invece sono loro a chiederci conto della nostra fede, a porre delle domande, possiamo rispondere. Del resto anche in Occidente, i nostri cappellani prestano la loro assistenza spirituale e portano i sacramenti su richiesta dei malati. Comunque nella zona esiste una presenza cattolica con cui siamo entrati in contatto: c’è una parrocchia e una comunità di salesiani.
Qual è la situazione dei vostri religiosi in Vietnam?
PILES FERRANDO: Prima della rivoluzione noi avevamo in Vietnam tre ospedali, fondati dai frati della nostra provincia canadese. In seguito, le strutture sono passate allo Stato. Ci hanno tolto gli ospedali, ma ci hanno lasciato la parte della “clausura” dove viveva la nostra comunità, in cui sono potuti rimanere soltanto i frati vietnamiti.
Che tipo di opera svolgono oggi?
PILES FERRANDO: Nove frati continuano a lavorare negli ospedali come infermieri, e la comunità vive degli stipendi che percepiscono. Ma la comunità, in questi anni, è sorprendentemente cresciuta. Dai venti frati vietnamiti che c’erano all’inizio, a sessanta, ora. Abbiamo aperto un’altra casa, in cui le autorità ci permettono di esercitare la medicina tradizionale orientale.
E nessuno straniero da allora è più potuto entrare?
PILES FERRANDO: Noi possiamo entrare e uscire, ma non restare stabilmente. Recentemente, invece, abbiamo chiesto e ottenuto il permesso di far uscire dal Paese dei frati vietnamiti per aiutare altre fondazioni in Estremo Oriente. Due di loro sono andati in Giappone. Lì abbiamo tre case, fondate dalla provincia tedesca, con sei frati giapponesi, ma ormai i tedeschi che vi si trovano sono molto anziani o sono deceduti. Anche nella nuova fondazione cinese andranno due frati vietnamiti, insieme a un irlandese che vive ormai da molti anni in Corea del Sud.
Qual è la sua impressione sulla vita della Chiesa in Asia?
PILES FERRANDO: Ci troviamo di fronte a culture e mondi molto diversi dai nostri. Ma dove la vita cristiana attecchisce, le persone la vivono in maniera autentica e convinta. Lo si vede dal modo di vivere e di celebrare la fede. In Vietnam ho visto una Chiesa molto solida e così anche in India. Nel Kerala la gente è profondamente cattolica. Lì abbiamo un grande ospedale e molte vocazioni. Gestiamo anche altre due opere in India: una a Chennai, nel sud-est, e l’altra al nord, in una zona completamente induista. Ma anche da lì abbiamo cominciato ad avere vocazioni.
In passato vi sono state polemiche, nella Chiesa, a proposito di ordini religiosi che andavano a “pescare” vocazioni nei Paesi in via di sviluppo, creando a volte anche contrasti con le Chiese locali…
PILES FERRANDO: Credo di poter dire che questo non è mai stato il nostro atteggiamento. In Cina non andiamo certo a cercare vocazioni. Guardi il caso del Giappone. In Giappone siamo entrati per essere un segno, sapevamo di trovarci in una realtà molto difficile, dove i cattolici sono un’esigua minoranza. Anche in Africa siamo andati innanzitutto per portare il carisma di san Giovanni di Dio: ospitalità e assistenza sanitaria. Abbiamo cominciato nel 1942. Ora siamo in undici Paesi e da alcuni di questi, per molti anni, non abbiamo avuto nessuna vocazione. Poi, nel 1982, il superiore generale di allora, fra Pierluigi Marchesi, che ha dato una svolta molto moderna all’ordine, ed è stato per noi una figura importante, decise, insieme con i responsabili delle comunità sparse per l’Africa, di promuovere le vocazioni creando un centro interprovinciale di formazione, che ha sede nel Togo. Formazione spirituale, naturalmente, e anche professionale, perché le opere da noi fondate potessero, con il tempo, essere sempre più affidate a frati africani. Abbiamo inoltre curato l’apprendimento delle lingue, perché tutti potessero agire sia in una realtà francofona che anglofona. Oggi possiamo dire che abbiamo fatto la scelta giusta. I frati africani sono un centinaio e sono ben formati in tutti i sensi.
È difficile operare in una situazione sanitaria precaria come quella africana?
PILES FERRANDO: Vi sono alcune realtà in cui siamo l’unica presenza sanitaria operante, come in Togo o nel sud del Sahel, dove abbiamo ospedali generali. Oggi molti vescovi ci chiedono di impiantare fondazioni nelle loro diocesi. Ma la situazione in molti casi è estremamente difficile. Avevamo un ospedale generale nella Sierra Leone che è stato distrutto due volte a causa della guerra, e oggi stiamo cercando di ricostruirlo con molte difficoltà. In altri Paesi abbiamo fatto una scelta più specifica: è il caso del Mozambico, del Senegal e del Malawi, dove siamo presenti con centri specializzati sulla salute mentale.
Frati assistono degli infermi, affresco del soffitto della sacrestia della chiesa di San Giovanni Calibita (ospedale Fatebenefratelli), Isola Tiberina, Roma
PILES FERRANDO: In Russia non abbiamo mai avuto una presenza. Avevamo frati in Romania, ne abbiamo ancora qualcuno nella Repubblica Ceca e in Ungheria. Per questo non ci è possibile riprendere antiche opere, che gestivamo prima dell’avvento del comunismo, per il numero troppo esiguo dei confratelli. Quelli che sono rimasti esercitano un servizio pastorale negli ospedali, o come infermieri. Nonostante queste difficoltà, noi vorremmo cercare di mantenere tutte le opere esistenti. Piuttosto che chiuderne alcune per mancanza di frati, cerchiamo di comunicare il nostro carisma ai collaboratori. Questo ha permesso di conservare tutte le opere che abbiamo in Germania, dove il numero dei frati si è ridotto, dalla Seconda guerra mondiale a oggi, da 400 a 40. I collaboratori, in molti casi, riescono a perpetuare lo spirito di san Giovanni di Dio anche senza la presenza di una comunità.
E in America Latina?
PILES FERRANDO: Lì c’è una realtà variegata: dagli ospedali generali alle strutture per i senzatetto, alle case di riposo. Naturalmente, trattandosi di opere autofinanziate, che cercano di accogliere tutti, soprattutto quelli che non possono pagare, spesso queste opere vivono tra mille difficoltà.
Come reperite i fondi per finanziare queste opere?
PILES FERRANDO: Nella maggior parte dei casi siamo autonomi, promuoviamo raccolte di fondi attraverso amici e benefattori. In altri casi abbiamo avuto contributi speciali dalla Cei, o dalla Chiesa spagnola, o anche da organizzazioni internazionali come la Comunità europea. Questi contributi “straordinari” sono molto utili per raggiungere obiettivi “mirati”, acquisto di macchinari, edificazione di strutture. Ma è chiaro che i costi di gestione ordinaria sono tutti sulle nostre spalle, e ci orientiamo allora verso forme di medicina i cui costi siano contenuti e sopportabili nel lungo periodo.
Qual è in genere la situazione delle vocazioni?
PILES FERRANDO: Il numero complessivo dei frati cala progressivamente. Oggi siamo circa 1500. I nuovi non rimpiazzano mai del tutto quelli che muoiono. Questo problema è molto forte in America del nord, specialmente in Canada, dove anni fa avevamo numerose vocazioni, mentre oggi i frati sono tutti molto anziani. Ma ci sono segnali positivi. Oggi in tutto il mondo i novizi sono circa 120: 30 dall’Asia, 30 dall’Africa, 30 dall’America Latina e una trentina anche dall’Europa, in prevalenza polacchi.
Quale ruolo hanno i sacerdoti nell’ordine?
PILES FERRANDO: San Pio V, che approvò le costituzioni dei Fatebenefratelli nel 1571, ci concesse che alcuni dei frati fossero ordinati per provvedere alla cura pastorale della comunità e dei malati. E da allora i sacerdoti nell’ordine continuano a svolgere questa missione. Oggi sono più o meno il dieci per cento del totale. Ma il Fatebenefratelli resta un ordine laicale. Ci teniamo a garantire l’identità dell’ordine, lo dico io che sono un frate sacerdote.
Ha accennato prima alla figura di Pierluigi Marchesi, exsuperiore generale…
PILES FERRANDO: Marchesi, che è scomparso lo scorso anno, ha impresso una svolta all’ordine, promuovendo l’umanizzazione della medicina, la trasmissione del carisma di san Giovanni di Dio ai nostri collaboratori, non solo volontari e benefattori, ma anche coloro che lavorano per noi – medici e infermieri – sotto contratto. In questo modo è stato possibile portare avanti lo spirito del Fatebenefratelli anche in situazioni – penso ad esempio alla Germania – dove le opere avviate sono molte, ma il numero dei frati è molto ridotto. Questo è un fenomeno piuttosto diffuso nell’Europa del nord, dove le vocazioni sono poche. Inoltre ha promosso un tipo di assistenza attenta ai nuovi bisogni. Accennavo prima al campo delle cure “palliative” per i moribondi, che spesso vengono rifiutati dagli ospedali; è importante anche il sostegno alla sofferenza dei malati, che oggi sono meno capaci, rispetto al passato, di accettare e sopportare la propria condizione. È ospitalità e assistenza anche il ricovero per i senzatetto, come il lavoro con i tossicodipendenti. È quello che san Giovanni di Dio faceva, con tutti, e che cerchiamo di continuare a fare sul suo esempio, in una forma il più possibile adeguata ai bisogni di oggi.