Tratto da Senso religioso, peccato...

PRIMA LEZIONE




Prima lezione
Mercoledì 13 dicembre 2000


Nel De Spiritu et littera Agostino chiama l’attrattiva della grazia concupiscenza buona1.
Il termine concupiscenza cristianamente indica che la dinamica umana è ferita dal peccato. Anche la dimensione più alta della dinamica umana, il senso religioso, che è la sintesi dello spirito umano, è ferito. «La concupiscenza [questa è una definizione del Concilio di Trento] nei battezzati non è peccato, ma dal peccato nasce e al peccato inclina»2. Non la dinamica umana così come è uscita dalle mani del Creatore, ma le dinamiche umane, dopo il peccato originale, sono ferite dal peccato e tendono a corrompersi nei vizi. Così che dalla considerazione degli stessi vizi (vitia) si possono intravvedere le tendenze buone originarie (appetitus)3. Questo termine, concupiscenza, è uno dei termini che gli stessi apostoli usano. Lo si trova nelle lettere di Paolo, nelle lettere di Pietro, nella lettera di Giacomo e nelle lettere di Giovanni.
L’alternativa a questo impulso può essere solo una concupiscenza buona, più evidente e corrispondente al cuore che non la concupiscenza dovuta alla ferita del peccato originale. Se non fosse più evidente e corrispondente al cuore non ci sarebbe reale motivo per diventare e rimanere cristiani.
Oggi leggeremo due brani del De Spiritu et littera.


De Spiritu et littera 4, 6

«Doctrina quippe illa qua mandatum accipimus continenter recteque vivendi / Quella dottrina dalla quale riceviamo il comandamento di vivere sobriamente e piamente [sobriamente e piamente per usare due termini di Paolo nella lettera a Tito (Tt 2, 12)] / littera est occidens nisi adsit vivificans Spiritus. / è lettera che uccide se non è presente lo Spirito che dona la vita». Questa è come la sintesi di tutto quello che Agostino scrive nel De Spiritu et littera. Quella dottrina – potremmo tradurre la dottrina della fede e della morale evidentemente buona – è lettera che uccide se non è presente, se non viene donato lo Spirito che dà la vita.
«[...] Nam hoc ideo elegit Apostolus generale quiddam, quo cuncta complexus est, tamquam haec esset vox legis ab omni peccato prohibentis, quod ait: “Non concupisces” [Agostino sta commentando la Lettera ai Romani, in particolare il capitolo 7]; / Ecco perché l’apostolo ha scelto [come espressione della dottrina] il comandamento più generale, nel quale ha riassunto tutti i comandamenti, come se fosse questa la voce della legge che proibisce ogni peccato; cioè il comandamento che dice: “non desiderare”; / [e qui c’è una frase bellissima] neque enim illum peccatum nisi concupiscendo committitur. / e infatti nessun peccato si commette se non attraverso il desiderio». Nessun peccato viene commesso se non attraverso il desiderio. L’inizio del peccato è sempre e solo il desiderio. Come dice Gesù quando, parlando del sesto comandamento «Non commettere adulterio», afferma: «Ma io vi dico: Chiunque guarda una donna per desiderarla / iam moechatus est eam in corde suo / ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5, 27). Questo non per una rigidezza più grande rispetto alla legge di Mosè4, ma perché così sia evidente che occorre un altro desiderio per vincere il peccato. Se il peccato inizia dal desiderio, occorre qualcosa che sia al livello del desiderio, occorre qualcosa che desti, con un’attrattiva più grande, un desiderio buono. Se il peccato avviene nel cuore col desiderare, per non commettere peccati occorre un’attrattiva buona che attinga al cuore, al desiderio. Così proprio quella che sembra l’affermazione moralmente più esigente di Gesù, è l’affermazione più antimoralistica che esiste. Per cui è così evidente, per esperienza, che il peccato si compie quando, tentati dal diavolo, non si domanda. Non si compie dopo, si compie lì. Quando uno non domanda, ha già deciso in cuore suo il peccato, ha già compiuto il peccato. La domanda destata dalla grazia, infatti, non può peccare (cfr. 1Gv 3, 6. 9. 22).
«Neque enim ullum peccatum nisi concupiscendo commititur. / Nessun peccato infatti avviene se non attraverso il desiderio. / Proinde quae hoc praecipit bona et laudabilis lex est. / Dunque quella legge che comanda di non desiderare è buona e lodevole. / Sed ubi sanctus non adiuvat Spiritus inspirans pro concupiscentia mala concupiscentiam bonam / Ma dove non aiuta lo Spirito Santo ispirando invece del desiderio cattivo un desiderio buono, / hoc est caritatem diffundens in cordibus nostris / cioè diffondendo la carità nei nostri cuori [la carità è questa concupiscenza buona. Carità cioè un’attrattiva che unisce. Delectatio è l’attrattiva e dilectio è l’unità cui l’attrattiva porta. Questa è la carità. L’attrattiva Gesù. La carità è l’attrattiva di quella presenza fino all’adesione a quella presenza, l’attrattiva fino all’abbraccio5], profecto illa lex, quamvis bona, auget prohibendo desiderium malum. / senza dubbio quella legge, sebbene buona, aumenta, con la proibizione, il desiderio cattivo». La legge, evidentemente buona, aumenta di fatto il desiderio cattivo. Dicendo “non desiderare la donna d’altri”, questo comando buono aumenta nell’uomo il desiderio della donna d’altri. E Agostino suggerisce l’esempio dell’impeto delle acque. Quando le acque corrono verso un’unica direzione, se si mette qualcosa che impedisce alle acque di correre, una volta che hanno travolto questo impedimento, esse corrono con più violenza e con più massa.
«Nescio quo enim modo hoc ipsum, quod concupiscitur, fit iocundius, dum vetatur. / Io non so perché capita che si desideri con più piacere una cosa proprio quando viene vietata. / Et hoc est quod fallit peccatum per mandatum / Ed è per questo che il peccato seduce attraverso il comandamento [proprio per il fatto che la legge buona dice di non desiderare la donna d’altri, il peccato usa di questa legge buona per aumentare il desiderio, per sedurre] / et per illud occidit, / e attraverso esso uccide, / cum accedit etiam praevaricatio quae nulla est ubi lex non est. / perché vi si aggiunge anche la trasgressione, che non ci sarebbe se non ci fosse la legge». Quindi la legge aggiunge al peccato anche il fatto di essere una trasgressione. Non solo si compie una cosa cattiva, ma si disubbidisce alla legge. Si trasgredisce la legge, mentre la trasgressione non ci sarebbe se non ci fosse la legge.
Ma la frase centrale di questo brano è: «Sed ubi sanctus non adiuvat Spiritus inspirans pro concupiscentia mala / Ma dove non aiuta lo Spirito Santo ispirando, invece del desiderio cattivo, / concupiscentiam bonam... / un desiderio buono...». Inspirans vuol dire che tocca la sorgente del cuore lì dove il desiderio nasce. È tutto qui. Occorre un’attrattiva che attinga dove il desiderio nasce. E questo si può solo domandare6. Altrimenti si può apparire giusti davanti agli uomini, ma non davanti a Dio che scruta i cuori. Perché anche se uno non va contro nessun comandamento, Dio che scruta i cuori sa che preferirebbe, nel suo cuore, come desiderio, andare contro il comandamento. Soltanto che circostanze – che sono comunque strumento del disegno del Signore – gli impediscono o non favoriscono il soddisfare quello che come desiderio preferirebbe (cfr. De Spiritu et littera 8, 13-14). Se il peccato si compie al livello del desiderio, l’alternativa al peccato non può che essere un’attrattiva che tocca il cuore lì dove il desiderio nasce. L’alternativa può essere solo un’attrattiva buona invece dell’impulso cattivo. Questa attrattiva buona si chiama anche carità. La carità (dilectio) compie l’attrattiva (delectatio) nell’abbraccio, nell’unità (cfr. 1Cor 6, 17).


De Spiritu et littera 12, 19-20

La legge, che è buona e lodevole, è usata dal peccato per aumentare il desiderio cattivo. Nella Lettera ai Romani, in particolare al capitolo 7, Paolo descrive questa dinamica. Nella prima Lettera ai Corinti Paolo sintetizza così: «La forza del peccato è la legge» (1Cor 15, 56). Ma il brano che leggiamo ora è come più attuale. Non solo la legge di Dio, ma la conoscenza della verità, e la conoscenza stessa di Dio, di fatto, storicamente, è lettera che uccide, conduce alla morte. Diventa lettera che uccide senza questa delectatio (attrattiva). Per suggerire questo, Agostino legge il primo capitolo della Lettera ai Romani. Ed è stata una sorpresa anche per me, quest’estate. Avevo letto tante volte il primo capitolo della Lettera ai Romani. Eppure è proprio vero che, spesso, quando uno crede di sapere già una cosa, non si accorge che essa è diversa da come crede di sapere. Ho sempre detto che Paolo dice che sono inescusabili gli uomini che non riconoscono l’esistenza del Creatore. Paolo non dice propriamente questo.
«Quia enim commendaverat pietatem fidei / Poiché infatti aveva lodato la pietà della fede [è bellissimo questo: la pietas della fede. Che cos’è la pietas della fede? Agostino ha imparato da Ambrogio che «il dovere più grande è ringraziare»7. Non esiste dovere più grande di questo: rendere grazie] / qua Deo iustificati grati esse debemus, / per la quale dobbiamo essere grati a Dio perché per essa ci ha resi giusti, / velut contrarium quod detestaremur subinferens / introducendo ciò che si deve detestare come contrario [Paolo] dice: / “Revelatur enim”, inquit, “ira Dei de caelo / “L’ira di Dio si rivela dal cielo / super omnem impietatem et iniustitiam hominum eorum / contro ogni empietà e ogni ingiustizia di quegli uomini / qui veritatem in iniquitate detinent, / che soffocano [ovvero imprigionano: detinent può indicare soffocare o imprigionare] la verità nell’iniquità [conoscendo la verità, la soffocano, la imprigionano nell’iniquità. Come conoscono la verità?] / quia quod notum est Dei manifestum est in illis, / perché quello che di Dio si può conoscere a loro è manifesto, / Deus enim illis manifestavit / Dio stesso lo ha loro manifestato».
E qui c’è una delle frasi più note di Paolo: «Invisibilia enim eius / Infatti le sue perfezioni invisibili / a creatura mundi, per ea quae facta sunt, intellecta, conspiciuntur / si possono vedere con l’intelligenza, dalla creazione del mondo, attraverso le cose che Lui ha fatto [l’intelligenza dell’uomo attraverso le creature può riconoscere l’esistenza dell’invisibile Creatore. Questo è dogma di fede8] / sempiterna quoque virtus eius ac divinitas, / e anche la sua eterna potenza e la sua divinità [attraverso le cose che ha creato, l’intelligenza umana può riconoscere il Mistero eterno che crea. Può riconoscere il Tu che crea], / ut sint inexcusabiles / così che essi sono inescusabili / quia cognoscentes Deum non ut Deum glorificaverunt aut gratias egerunt, / perché, conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria come Dio, non gli hanno reso grazie». Paolo non parla degli atei, non parla di coloro che non ammettono l’esistenza di Dio. Sono inescusabili coloro che, conoscendo Dio, non gli rendono grazie. Quindi non Lo riconoscono come Dio dal momento che non gli rendono grazie. Perché non si conosce veramente se non nella gratitudine. Un essere vivente e personale non si conosce veramente se non perché si è grati che ci sia, che sia per noi. Non si conosce se non rende lieti che sia per noi. Al di fuori della letizia che sia per noi, e quindi al di fuori della gratitudine, non si conosce veramente9;
«sed evanuerunt in cogitationibus suis. / e sono impazziti nei loro pensieri [non gli atei, non i nichilisti, non i cinici. Ma coloro che ammettono l’esistenza di Dio]. / Et obscuratum est insipiens cor eorum, /E il loro cuore insipiente è diventato tenebroso / dicentes se esse sapientes stulti facti sunt / e poiché si sono dichiarati sapienti sono diventati stolti». Siccome sono teisti, cioè ammettono Dio, si ritengono sapienti rispetto agli altri. Anche in questo caso vale la parabola del fariseo e del pubblicano (cfr. Lc 18, 9-14).
E, concludendo, Paolo sembra anticipare l’accenno di Agostino circa i platonici. I platonici, con tutto il loro parlare di Dio, «pensano che occorra offrire onori di riti sacri e di sacrifici ai demoni»10; «et mutaverunt gloriam incorruptibilis Dei in similitudinem imaginis corruptibilis hominis et volucrum et quadrupedum e serpentium” / e hanno cambiato la gloria del Dio incorruttibile con immagini dell’uomo corruttibile, di uccelli, di animali e di rettili”».
Così san Paolo. Qui comincia il commento di Agostino. «Vide quemadmodum non eos dixerit veritatis ignaros / Vedi come ha detto non che hanno ignorato la verità [non sono ignari della verità questi uomini inescusabili], / sed quod veritatem in iniquitate detinuerint. / ma che hanno soffocato la verità nell’iniquità. / Et quia occurrebat animo ut quaereretur unde illis esse potuerit cognitio veritatis / E siccome si affacciava all’animo la domanda da dove a loro potesse essere venuta la conoscenza della verità, / quibus Deus legem non dederat, / loro ai quali Dio non aveva dato la legge [che non avevano ricevuto la legge, cioè che non avevano la rivelazione storica], / neque hoc tacuit unde habere potuerint: / [l’apostolo] non ha taciuto da dove questi uomini poterono avere la conoscenza della verità: / per visibilia namque creaturae / attraverso le cose visibili della creazione [questo è il realismo di Paolo. La verità comunque si conosce sempre e solo attraverso le cose visibili della creazione, attraverso la realtà creata] / pervenisse eos dixit ad intelligentiam invisibilium Creatoris, / essi pervennero, ha detto, all’intelligenza delle perfezioni invisibili del Creatore, / quoniam revera sic magna ingenia quaerere perstiterunt sic invenire potuerunt. / poiché in realtà i grandi ingegni, perseverando nel cercare, riuscirono a trovare». Qui è molto bello, perché Agostino ha compassione della loro perseveranza nel cercare. Quando si dichiarano sapienti da sé stessi, allora diventano inescusabili. Ma il loro tentativo commuove. Questa perseveranza nel cercare è stata l’espressione poetica anche di questi ultimi secoli. Leopardi per esempio ha perseverato nel cercare, Pavese ha perseverato nel cercare. In alcuni momenti hanno intuito. E quindi li chiama magna ingenia / di intelligenza grande. Le domande del pastore errante dell’Asia sono le domande del cuore di ogni uomo e sono una cosa commovente11. Così è umano, quando un bimbo nasce e quando una persona muore, domandarsi se c’è qualcosa per cui val la pena vivere e morire.
«Ubi ergo impietas? / Allora dov’è l’empietà? / “Quia” videlicet “cum cognovissent Deum, non sicut Deum glorificaverunt aut gratias egerunt / [qui ripete le parole di Paolo, Rm 1, 21] Perché, avendo conosciuto Dio, non Lo hanno glorificato come Dio e non gli hanno reso grazie, / sed evenuerunt in cogitationibus suis”. / ma hanno vaneggiato nei loro pensieri”». Non è innanzitutto un problema di incoerenza morale il non renderGli grazie. Il non renderGli grazie vuol dire non riconoscerLo come Dio. Vuol dire non accorgersi che Lo si riconosce in quanto è Lui che nella creazione si rivela. L’iniziativa è del Mistero12. Quando invece uno si vanta di arrivare lui a comprendere Dio, ciò di cui parla non è Dio, è altro da Dio13. Il non renderGli grazie non è innanzitutto una questione di incoerenza morale. Il rendere grazie è all’origine della possibilità stessa di riconoscere l’esistenza del Mistero come Mistero. Lo si può riconoscere nello stupore. Anche a livello creaturale, Lo si riconosce per stupore. Lo si riconosce perché Lui nella creazione si manifesta. Nella bellezza della creazione si manifesta14. La bellezza pur fragile delle cose create lascia intravvedere il Creatore, è testimonianza del Creatore15. Quindi il renderGli grazie non è innanzitutto una conseguenza morale. Non Lo si riconosce come Mistero se non rendendo grazie. Diventa una proiezione di sé, non è il Mistero che si rivela nella realtà creata, se non Gli si rende grazie. Se è una proiezione di sé, dalla religione possono nascere pazzie e violenze grandi16.
«Eorum proprie vanitas morbus est / Vaneggiare [impazzire] è propriamente la loro malattia [la malattia di chi pure conosce la verità], / qui se ipsos seducunt / in quanto ingannano sé stessi / dum videntur sibi aliquid esse cum nihil sint [cfr. Gal 6, 3]. / [questa è la frase che dice tutto] perché si credono qualcosa, mentre non sono niente». Si credono talmente qualcosa che, in un’altra opera, Agostino dice che si creano Dio17. Quel Dio che affermano è una creatura loro, non è il Mistero che si manifesta. Si credono talmente qualcosa che creano loro Dio. Non riconoscono quell’originale dipendenza, non hanno quella reverentia cui accenna anche Tacito18.
«Denique hoc tumore superbiae sese obumbrantes / Poi ottenebrando sé stessi con questo cancro della superbia, / cuius pedem sibi non venire deprecatur sanctus ille cantator qui dixit: “In lumine tuo videbimus lumen”, / dal cui piede il salmista aveva pregato di non essere raggiunto quando disse: “Nella tua luce vedremo la luce” [Ps 35, 10] [per quanto riguarda la conoscenza naturale di Dio, il versetto del salmo «Nella tua luce vedremo la luce» vuol dire semplicemente che le creature in quanto creature sono testimonianza del Creatore. La creatura visibile è segno, lascia intravvedere l’esistenza del Creatore invisibile], / ab ipso lumine incommutabilis veritatis aversi sunt “et obscuratum est insipiens cor eorum”. / da questa luce della verità che non muta si sono allontanati [si sono allontanati da questo stupore creaturale] “e il loro cuore insipiente è diventato tenebra”. / Non enim sapiens cor quamvis cognovissent Deum / Un cuore dunque che non è sapiente, benché abbiano conosciuto Dio, / sed insipiens potius, / ma piuttosto insipiente, / quia non sicut Deum glorificaverunt aut gratias egerunt. / perché non hanno a Lui dato gloria come Dio e reso grazie». Quindi non Lo hanno riconosciuto come Dio. Ciò di cui parlano è un idolo cioè un’immagine loro, una proiezione di sé.
«“Dixit” enim “homini: Ecce pietas est sapientia” [Gb 28, 28]. / Infatti “disse all’uomo: la sapienza è la pietà”. / Ac per hoc “dicentes se esse sapientes”, quod non aliter intellegendum est nisi hoc ipsum sibi tribuentes, “stulti facti sunt” [Rm 1, 22]. / E per questo, “dicendo di essere sapienti”, cosa che non si può intendere diversamente se non nel senso che si sono attribuiti ciò da loro stessi, “sono diventati stolti”. / Iam quae sequuntur quid opus est dicere? / Che bisogno c’è di aggiungere ormai altre cose? / Per hanc quippe impietatem illi homines – illi, inquam, homines, qui per creaturam Creatorem cognoscere potuerunt – / Attraverso questa empietà, quegli uomini – quegli uomini, dico, che hanno potuto conoscere il Creatore attraverso la realtà creata – / quo prolapsi, cum Deus superbis resistit, atque ubi demersi sint, / dove siano caduti, perché Dio resiste ai superbi, e dove siano affondati, / melius ipsius epistolae consequentia docent / le parti che seguono di questa stessa lettera [la Lettera ai Romani] lo dicono meglio / quam hic commemoratur a nobis / di quanto possiamo ricordarlo ora noi». Questi uomini hanno ammesso l’esistenza di Dio, ma non gli hanno reso grazie e si sono attribuiti loro da loro stessi di essere sapienti, come se fosse una loro bravura arrivare a conoscere l’esistenza del Creatore.
«[...] Non in eo nos divinitus adiuvari ad operandam iustitiam quod legem Deus dedit plenam bonis sanctisque praeceptis, / [...] Noi non siamo aiutati da Dio nell’operare la giustizia [nel fare il bene] dal fatto che Dio ha dato una legge piena di santi e buoni comandamenti, / sed quod ipsa voluntas nostra, sine qua operari bonum non possumus, adiuvetur et erigatur impertito spiritu gratiae / ma dal fatto che la nostra stessa volontà, senza la quale non possiamo fare il bene, è aiutata ed è destata dal dono dello Spirito della grazia». È buona la legge. Ma la legge non può destare la volontà di compiere quel bene che indica. Anzi la legge di per sé conferma e stimola il desiderio cattivo. Dio aiuta e desta la volontà a fare il bene attraverso il suo dono, il dono della sua grazia;
«sine quo adiutorio / e senza questo aiuto / doctrina illa littera est occidens. / quella dottrina [il sapere che Dio esiste e il conoscere la legge di Dio] è lettera che uccide. / Quia reos potius praevaricationis tenet quam iustificat impios. / Perché la dottrina rende i peccatori anche prevaricatori, piuttosto che rendere gli empi giusti. / Nam sicut illis per creaturam cognitoribus Creatoris ea ipsa cognitio nihil profuit ad salutem, / Infatti come per coloro che hanno conosciuto il Creatore attraverso la realtà creata, quella stessa conosce


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