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USA e Santa Sede. Il lungo cammino



di Jim Nicholson



Non vi era bisogno di alcun permesso
per la nomina di un vescovo
Era il 1788 quando il papa, Pio VI, inviò un emissario a Parigi per incontrare il diplomatico appena assegnatovi dalla nuova Repubblica nel Nord America, gli Stati Uniti. Il diplomatico era Benjamin Franklin, e la richiesta che il Papa gli fece fu semplice e concisa: sarebbe stato d’accordo il presidente George Washington che il Papa nominasse un vescovo nel nuovo Stato? Ligio al dovere Franklin riportò la domanda al presidente Washington, e ciò che tornò a dire al Papa era che egli avrebbe potuto nominare qualunque vescovo avesse voluto per gli Stati Uniti, poiché quello che la rivoluzione aveva portato alle colonie era proprio la libertà, inclusa la libertà religiosa. Il papa prontamente designò un gesuita, padre John Carroll, a divenire il primo vescovo cattolico d’America. Il Papa, da allora, ha costituito la gerarchia della Chiesa negli Stati Uniti libero da ogni interferenza del governo. Questo incontro con Franklin diede inizio a un rapporto che alla fine condusse a piene relazioni diplomatiche, che però non furono tali fino al 1984, 196 anni più tardi.
Qualcuno si chiede perché ci sia voluto così tanto tempo. Altri si chiedono: per quale motivo deve esistere questo rapporto? Un inviato speciale del presidente, Henry Cabot Lodge, era solito rispondere a questi interrogativi narrando una storia. Lodge, il quale rappresentava il presidente Nixon in Vaticano, raccontava di un suo amico, un diplomatico musulmano presso la Santa Sede. Lodge aveva chiesto al suo amico perché il suo governo aveva ritenuto che valesse la pena mantenere una missione così grande «in un posto che non sembrava interessargli molto». Il diplomatico, in modo appropriato, rispose: «Noi non vogliamo trascurare nulla»1.
Dopo un anno come ambasciatore americano alla Santa Sede, ho visto tanto e spero di non aver trascurato nulla. Il Vaticano è un alveare di idee, di informazioni, di intrighi, di collaborazioni e di attività diplomatiche a livello mondiale. Alla nostra ambasciata noi non vendiamo merce o rilasciamo visti, ma assieme a questo piccolo Stato con un campo d’azione mondiale noi lavoriamo per risolvere i grandi problemi del nostro tempo. Sia la nostra ambasciata che la Santa Sede hanno una visione generale del mondo; i nostri obiettivi comuni sono di grande portata e spesso richiedono soluzioni di lungo termine. Gli Stati Uniti e la Santa Sede qualche volta possono anche essere in disaccordo sui mezzi per raggiungere questi obiettivi, ma siamo invece totalmente d’accordo sugli obiettivi finali: libertà, pace e creazione di opportunità. Quando il nostro primo ambasciatore, William A. Wilson, presentò le proprie credenziali a papa Giovanni Paolo II nell’aprile del 1984, egli disse: «I principi su cui fu fondata la nostra Repubblica e che continuano a guidare la nostra condotta nazionale, sono principi strettamente paralleli a quelli della Santa Sede». E dal momento che è stata indubbiamente percorsa una lunga strada per arrivare alle piene relazioni diplomatiche di cui godiamo oggi, l’edificio delle nostre attuali fruttuose relazioni riposa sopra questa fondazione di principi comuni, condivisione di valori e spirito di buona volontà.
Ci abbiamo messo molto tempo per arrivare dove siamo ora. Non abbiamo sempre avuto le relazioni dinamiche e versatili che abbiamo al presente. Nel XVIII secolo, la missione americana presso la Santa Sede (lo Stato Pontificio) è stata insediata con lo scopo primario di proteggere gli interessi commerciali statunitensi. Non molto tempo dopo la ratifica della Costituzione, gli Stati Uniti iniziarono a riconoscere la necessità di una rappresentanza consolare americana a Roma che, in quel tempo, era anche la capitale dello Stato Pontificio. Il primo console americano nello Stato del papa fu Giovanni Sartori, designato dal presidente John Adams nel 1797. Sartori fu uno degli 11 consoli a rappresentare gli interessi dell’America a Roma tra il 1797 e la caduta dello Stato Pontificio del 18702. Nonostante il loro status di rappresentanti consolari, il governo pontificio garantiva loro ciò che uno di questi consoli descrisse come «inusuali privilegi e favori». Infatti, continuava, «essi erano ricevuti a tutte le cerimonie formali allo stesso livello con cui erano ammessi i diplomatici rappresentanti delle altre nazioni»3.
Oltre a proteggere gli interessi commerciali e a occuparsi delle necessità degli americani all’estero, l’ufficio consolare offrì una postazione unica per dare conto dell’agitazione rivoluzionaria che si diffondeva in tutta Europa nel XIX secolo. Ad esempio, in un cablogramma inviato a Washington nel 1831, il console Felix Cicognani riferisce la presenza delle truppe austriache nello Stato Pontificio e dei progettati tentativi di papa Gregorio XVI di fuggire in Spagna4. Roma era un centro di raccolta di preziose informazioni e divenne chiaro che la legazione nello Stato Pontificio era un eccellente “punto di ascolto”, non soltanto sulla Santa Sede ma su tutta l’Europa.


Alla corte di Pio IX,
primo papa sul suolo americano
Nel giugno 1846, Giovanni Maria Mastai Ferretti divenne papa col nome di Pio IX. Egli fu giudicato da alcuni storici un dogmatico reazionario. L’elezione di Pio IX e le conseguenti riforme liberali inizialmente gli giovarono una grande popolarità negli Stati Uniti, e nell’ambito dei sommovimenti politici della metà del XIX secolo furono una forte spinta a stabilire piene relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Agli americani che si trovavano a Roma l’allargamento delle relazioni diplomatiche sembrava naturale, ma c’erano ancora resistenze nell’opinione pubblica americana e da parte del Congresso degli Stati Uniti. Nel giugno 1847, alti funzionari del Vaticano manifestavano il loro discreto sostegno all’espandersi delle relazioni tra la Santa Sede e gli Stati Uniti. Ignorando i suoi critici, il presidente Polk elevò la qualifica del funzionario americano da “console” a “chargé d’affaires”. Nel dicembre 1847, rivolgendosi al Congresso, Polk disse che egli percepiva che i recenti eventi nello Stato Pontificio, vale a dire l’elezione di Pio IX, garantivano l’espansione delle relazioni5. Nonostante l’osservazione di Polk occupasse soltanto un paragrafo seppellito in un lungo discorso al Congresso, fu un segno espressivo della ricettività dell’amministrazione Polk nei confronti di un sommesso invito da parte di Pio IX per stabilire piene relazioni diplomatiche.
Il 21 marzo 1848 il Senato degli Stati Uniti discusse un disegno di legge di bilancio che stanziava fondi per il chargé d’affaires nominato da Polk alla Corte del papa. Gli argomenti in favore dell’elevazione di livello della missione a Roma seguirono due linee di ragionamento. Il senatore Lewis Cass, ad esempio, rallegrato del sostegno che il Papa stava mostrando per i moti popolari contro il governo corrotto in Italia, si espresse in favore dell’invio di un ambasciatore vero e proprio nello Stato Pontificio, in base al fatto che la Santa Sede esercitava un «potere temporale morale». Cass sperava che rapporti più stretti con la Santa Sede avrebbero consolidato le riforme liberali di Pio IX e avrebbero contribuito allo sviluppo di un governo più democratico nello Stato Pontificio. Nel suo discorso nell’aula del Senato, Cass proclamò: «Gli occhi della cristianità sono sul suo sovrano. Egli ha dato il primo colpo al dispotismo e il primo slancio verso la libertà. Molto ci si aspetta da lui… La diplomazia d’Europa troverà pieno impiego alla sua Corte, e i suoi inviati più esperti saranno lì in Vaticano. Anche il nostro governo dovrebbe esservi rappresentato»6.
In sostegno a Cass, il senatore Edward Hannegan dello Stato dell’Indiana espresse la necessità di relazioni diplomatiche poiché Roma fungeva da «emporio dell’intelligence d’Europa»7. Come avvenne per l’immagine coniata da Cicognani di “punto di ascolto”, la concezione di Hannegan della legazione romana sarebbe riecheggiata ancora, quando le relazioni diplomatiche sarebbero state di nuovo chiamate in causa nel 1867 e nel 1984.
La seconda, maggiore, argomentazione in favore delle relazioni formali sottolineava i benefici commerciali di un rapporto più ampio con lo Stato Pontificio, e il primo esponente di questa tesi fu il senatore John Dix dello Stato di New York. Mentre altri senatori, finanche quelli favorevoli all’invio di un incaricato d’affari a Roma, giudicavano lo Stato Pontificio ininfluente dal punto di vista commerciale, Dix, al contrario, argomentò: «A dispetto della depressa condizione dell’industria dello Stato Pontificio, non c’è Paese capace di una più ricca e varia produzione; e se le misure della riforma in atto saranno portate avanti, e la condizione sociale, così come quella politica, della popolazione sarà migliorata dall’abrogazione delle cattive leggi, io non conosco nessuno Stato della stessa grandezza che possa sperare in una maggiore prosperità»8.
Sorprendentemente, le obiezioni di carattere religioso all’instaurarsi delle relazioni diplomatiche furono appena espresse durante il dibattito del 1848. Soltanto pochi di coloro che argomentarono contro l’invio di un chargé d’affaires a Roma protestarono che una tale missione sarebbe servita a istituzionalizzare la Chiesa cattolica negli Stati Uniti. Il senatore Andrew Butler della Carolina del Sud, ad esempio, asserì che non riusciva a trovare un motivo valido per inviare un rappresentante a Roma. Egli sostenne che «il nostro è un governo che non ci permette di legiferare circa la religione, e io non voglio indirettamente dare appoggio a una missione per motivi religiosi»9. Il senatore Cass fu, nondimeno, pronto nel fare l’importante distinzione che gli Stati Uniti avrebbero inviato un rappresentante al papa nella sua qualità di sovrano ma non nella sua veste spirituale di capo della Chiesa cattolica romana. La distinzione operata da Cass nel 1848 è ancora uno dei principi su cui si fonda l’ambasciata americana presso la Santa Sede.
Infine il disegno di legge di bilancio del Senato del 1848 fu approvato e quello stesso anno il presidente Polk designò Jacob L. Martin primo chargé d’affaires alla Corte del papa. Nonostante gli Stati Uniti avessero goduto di relazioni consolari ufficiali con lo Stato Pontificio già dal 1779, con questa legge del 1848 l’America riconobbe formalmente la Santa Sede come membro a tutti gli effetti della comunità delle nazioni. Ma anche mentre Jacob Martin si accingeva a partire per Roma, persistevano preoccupazioni sui conflitti di interesse religioso. Il segretario di Stato James Buchanan istruì esplicitamente Martin di «evitare attentamente di interferire anche minimamente nelle questioni ecclesiastiche, anche se queste avessero riguardato gli Stati Uniti o qualsiasi altra parte del mondo»10. Questo ordine, da allora, è stato ripetuto da quasi tutti i segretari di Stato.
All’inizio della carica di Martin, un’ondata di nazionalismo investì l’Italia sulla scia di un moto avvenuto poco prima in Francia in quello stesso anno. Martin era preoccupato che i rivoluzionari romani, essendosi schierati dalla parte degli ideali americani di libertà e indipendenza, cercassero il suo appoggio. Riconoscendo i suoi obblighi verso la Santa Sede, egli, prudentemente, decise che in qualità di rappresentante presso il governo pontificio non avrebbe potuto offrire sostegno alle fazioni politiche italiane11.
Jacob Martin morì a Roma nel giugno 1848 e il 6 gennaio del 1849 gli successe Lewis Cass Jr. (il figlio del senatore Cass). Al tempo della nomina di Cass, papa Pio IX era stato costretto dal governo rivoluzionario a lasciare Roma. Presto i seguaci del Papa furono coinvolti in una violenta lotta per il potere contro i rivoluzionari repubblicani.
Intanto, l’anno 1849 segnò la prima volta che un papa mise piede in territorio americano.
Il singolare incontro avvenne appena dopo che Pio IX ebbe abbandonato il fervore rivoluzionario di Roma per avere salvezza a Gaeta. Sembra che qui, mentre il Papa era in visita al re Ferdinando II del Regno delle Due Sicilie e alla regina, l’incaricato d’affari statunitense a Napoli, John Rowan, si presentò al palazzo. All’incirca in questo stesso periodo, capitava che la “USS Constitution” avesse ormeggiato nel porto di Gaeta. Il re Ferdinando espresse il desiderio di visitare la fregata e Rowan si sentì in dovere di invitare anche il Papa a partecipare alla visita.
Il Re e il Papa furono accolti a bordo dal comandante, il capitano John Gwinn.
All’insaputa di entrambi i capi di Stato, Gwinn aveva ricevuto un ordine scritto di non accogliere i due uomini a bordo perché entrambi stavano difendendo i loro troni contro i rivoluzionari, e gli Stati Uniti volevano mantenere una stretta neutralità. In realtà, la “USS Constitution” non era semplicemente un simbolo degli Stati Uniti d’America ma, secondo la legge della marina militare, era suolo statunitense extraterritoriale.
Il Papa passò tre ore a bordo andando a trovare i marinai, regalando corone di rosari ai cattolici dell’equipaggio e anche impartendo una benedizione. Alla fine il Papa ebbe il mal di mare, si ritemprò nelle cabine del capitano e poi si allontanò salutato da 21 colpi di cannone. Per il suo ruolo nell’incidente, il capitano Gwinn fu mandato alla corte marziale. Ma prima che alla corte marziale potesse darsi esecuzione, Gwinn morì di emorragia cerebrale. Pio IX fece ritorno a Roma nel 1850 e visse tanto da diventare il Papa con il pontificato più lungo della storia12.


La riparazione di un incidente diplomatico
Il Congresso elevò il rappresentante a Roma al rango di rappresentante (minister) residente nel 1854, e nel luglio 1858 John Stockton succedette a Cass a Roma in tale qualità. Stockton, come Cass, ereditò una situazione politica non facile in Italia. Il movimento per l’unificazione stava guadagnando di nuovo consensi nel popolo italiano. Come Cass, John Stockton mantenne la tradizione di usare il suo punto di osservazione alla Santa Sede per fare rapporto sulla instabile situazione politica in Italia.
I successivi rappresentanti a Roma mantennero l’incarico ognuno per un breve periodo. Per primo Rufus King, un eminente repubblicano e già editore di un quotidiano di Milwaukee, succedette a Stockton nell’aprile del 1861. Durante il mese di agosto tuttavia, un generale di brigata dell’esercito federale fu nominato per rimpiazzare King prima ancora che questi avesse il tempo di prendere il proprio posto13. Ma presto anche lui si dimise. Seguendo una raccomandazione di King, che sembrava ancora interessarsi alla questione, Alexander W. Randall fu nominato rappresentante residente. Trovando che la sua paga era troppo bassa e il protocollo troppo soffocante, anche lui presto si dimise14. Il successore, Richard M. Blatchford, fu nominato chargé, ma non volendo apparire come l’eccentrico della situazione, rassegnò le dimissioni nell’ottobre del 1863. Infine l’incarico tornò a Rufus King, che lo ricoprì fino a quando la missione, nel 1867, fu chiusa.
In tutto questo tempo di viavai di inviati a Roma, la situazione politica in Italia rimase turbolenta. Nell’ottobre 1863 King assunse l’incarico a Roma e iniziò a svolgere l’ufficio di quello che sarebbe stato l’ultimo minister statunitense presso lo Stato Pontificio. King rese il suo servizio in un periodo di sfida sia per gli Stati Uniti, che erano immersi nella guerra civile, sia per lo Stato Pontificio, che si trovava ad affrontare le crescenti opposizioni all’autorità temporale della Santa Sede.
Un incidente in questo periodo mise a dura prova le relazioni diplomatiche tra l’America e il Papa. Nel 1863, durante il momento più confuso della guerra civile americana, Pio IX inviò una lettera agli arcivescovi di New York e di New Orleans suggerendo che dovesse essere fatto ogni sforzo per la causa della pace. Il presidente confederale Jefferson Davis rispose a questa lettera. Pio IX a sua volta rispose a Davis, rivolgendosi a lui nei seguenti termini: «All’illustre e onorabile Jefferson Davis, presidente degli Stati confederati d’America». A molti nordisti questa intestazione parve un riconoscimento da parte del Papa del governo confederale. Il segretario di Stato del Vaticano Giacomo Antonelli contestò ciò insistendo che il Papa in nessun modo aveva inteso fare una dichiarazione politica nel rivolgersi a Davis15. Alcuni americani furono soddisfatti della dichiarazione di neutralità della Santa Sede; altri mantennero dei sospetti sulle intenzioni di questa. La Santa Sede avrebbe avuto, più tardi, l’opportunità di fare ammenda.
Nel 1865 un americano di nome John Surrat si arruolò nell’esercito del papa. All’insaputa della Santa Sede, Surrat era accusato insieme a John Wilkes Booth dell’assassinio del presidente Abraham Lincoln. A causa dell’assenza di un trattato di estradizione tra Stati Uniti e Stato Pontificio, gli Stati Uniti avevano una ridotta capacità legale di far leva sul governo papale per richiedere l’estradizione di Surrat, al fine di processarlo per il suo ruolo nell’assassinio. Il governo pontificio, comunque, fu pronto nel dimostrare la sua buona volontà e trattenne quindi Surrat fino a quando questi potesse essere riconsegnato alle autorità americane. Rufus King scrisse al segretario di Stato William Seward che «ciò era stato fatto con il solo scopo di mostrare la pronta disponibilità delle autorità pontificie ad accondiscendere all’attesa richiesta del governo americano»16. Questo significativo atto di cortesia diplomatica rispecchiava il rapporto di cordialità che era stato coltivato tra consoli e minister degli Stati Uniti e la Santa Sede, e il desiderio della Santa Sede di intrattenere buone relazioni con il governo americano dopo la guerra civile.


«Il Papa stesso si sente offeso»
Ma nonostante questi gesti di amicizia, negli Stati Uniti ritornava ad aumentare l’ostilità alla missione a Roma. I critici finalmente l’ebbero vinta nel 1867 quando il Congresso ritirò tutti i finanziamenti per la legazione a Roma. La motivazione di facciata fu una diceria relativa alla libertà religiosa dei protestanti nello Stato Pontificio. Fin dall’inizio della legazione a Roma, le autorità pontificie avevano permesso la celebrazione delle funzioni religiose protestanti a casa del rappresentante americano. Quando aumentò l’affluenza a queste funzioni, per accogliere i partecipanti esse furono trasferite in un appartamento affittato, sottoposto all’autorità della legazione americana. Le notizie che circolavano a Washington e che furono riportate dal New York Times dicevano che il Papa aveva costretto la comunità protestante fuori dalle mura di Roma. Questo, secondo lo stesso Rufus King, il rappresentante americano, era del tutto falso17. Nel febbraio del 1867, King toccò con mano la gravità della diceria negli Stati Uniti che ormai stava dilagando. Il 18 di quello stesso mese egli scrisse un cablogramma al segretario di Stato Seward nel quale delineava, secondo la sua opinione, le ragioni per cui la missione a Roma era essenziale per la diplomazia degli Stati Uniti e perché non era vantaggioso, a quel punto, chiuderla. Il giorno dopo, in un ultimo tentativo di screditare tale diceria, King scriveva urgentemente al Dipartimento di Stato affermando laconicamente: «Non c’è nulla di vero nella riferita chiusura della cappella americana a Roma»18.
Nonostante tutti gli sforzi di King di mantenere la missione a Roma, il 28 febbraio 1867 il Congresso infine approvò la legge che proibiva di stanziare fondi per qualunque futura missione diplomatica degli Stati Uniti presso la Santa Sede. Il Congresso non pose realmente fine alle relazioni diplomatiche, ma smise semplicemente di finanziare la missione presso la Santa Sede. Alla fine, comunque, questa distinzione avrebbe fatto poca differenza. Ironia della sorte, King puntualizzò in un cablogramma finale inviato a maggio al segretario Seward, che, allontanando il rappresentante americano da Roma, gli Stati Uniti, in sostanza, avevano costretto i protestanti americani a celebrare le loro funzioni fuori Roma, poiché queste non potevano più essere tenute sotto la sovrana autorità della legazione americana19. In uno sviluppo degli eventi ancora più confuso, Rufus King fu lasciato senza indicazioni su come spiegare il suo allontanamento ai funzionari vaticani. Lasciò Roma senza una lettera di dimissioni, la doverosa nota diplomatica che spiega la partenza del rappresentante. Infatti King scrisse al segretario Seward: «Il Papa stesso si sente offeso dall’azione affrettata e apparentemente senza fondamento del Congresso e pensa che sia uno scortese e ingeneroso contraccambio per la buona volontà che egli ha sempre manifestato verso il governo e il popolo americano»20.
Col senno di poi si capì che il taglio dei fondi per la missione a Roma era stato politicamente guidato, e aveva meno a che fare con la diceria sulla cappella americana a Roma quanto piuttosto col desiderio del Congresso di assestare una sconfitta politica all’appena nominato presidente Andrew Johnson21. Ancora, probabilmente, il pregiudizio religioso influenzava le azioni del Congresso.
Mentre gli auspici sotto i quali il rappresentante americano lasciò Roma erano sfavorevoli, settanta anni di scambi consolari e diplomatici si erano dimostrati fecondi. L’ufficio di Roma aveva avuto successo sia nella sua missione di proteggere i cittadini americani dello Stato Pontificio sia nel mantenere cortesi relazioni con il Papa, e nel riferire sulla situazione politica europea. Ciononostante, la rappresentanza americana presso la Santa Sede sarebbe rimasta solamente un ricordo fino al 1940.


La Chiesa americana, il New Deal e il “radio-prete”
Dal 1867 in avanti gli Stati Uniti ebbero soltanto i più informali e irregolari contatti con la Santa Sede. Tuttavia l’interazione tra la Santa Sede e la gerarchia americana continuò a crescere. Per tutto il XIX secolo e l’inizio del XX la Chiesa americana crebbe in numeri, potere, influenza e ricchezza. Con il flusso di immigrati da Paesi prevalentemente cattolici negli ultimi anni del 1800, gli Stati Uniti divennero un Paese di una importanza così grande che la Santa Sede non aveva nessun desiderio di ignorarli. Durante questi anni gli scaltri e politicamente avvertiti vescovi, arcivescovi e cardinali americani mantennero stretti legami con gli organi vitali del nostro governo federale, dando vita a canali informali di comunicazione diplomatica tra il governo degli Stati Uniti e la Chiesa cattolica.
Nel 1892 papa Leone XIII designò l’arcivescovo Francesco Satolli a delegato apostolico presso la gerarchia cattolica americana. Al fine di ridurre le controversie ed evitare ulteriori risentimenti pubblici contro la Chiesa, fu studiato un piano secondo il quale Satolli sarebbe venuto negli Stati Uniti con il pretesto di rappresentare il Papa alla Columbian Exposition di Chicago del 189222. Le ragioni della Chiesa per inviare un delegato negli Stati Uniti ebbero più a che fare con il desiderio di avere un rappresentante sul posto, che si occupasse di mediare tra le lamentele dei preti contro i loro vescovi e risolvesse i problemi concernenti le scuole parrocchiali, piuttosto che con l’intrattenere relazioni diplomatiche con il governo. Nonostante le continue controversie sulla presenza di Satolli in America (la maggior parte delle critiche proveniva dalla stessa gerarchia americana) egli vi rimase per circa quattro anni. Le relazioni tra le due parti furono ulteriormente messe a dura prova durante la Prima guerra mondiale, quando il cardinale James Gibbons di Baltimora, che rappresentava la gerarchia americana, combatté per promuovere la pace in Europa, scontrandosi allo stesso momento con l’amministrazione del presidente Woodrow Wilson, un uomo riservato con nette tendenze anticattoliche.
Nel 1929 la Santa Sede e l’Italia firmarono il Trattato Lateranense, che garantiva effettivamente la sovranità dello Stato della Città del Vaticano e la personalità internazionale della Santa Sede.
Secondo il Trattato, «l’Italia riconosce alla Santa Sede la piena proprietà e la esclusiva e assoluta giurisdizione sovrana sul Vaticano, come è attualmente costituito», un’area geografica di 108,7 acri. Il Trattato affermava anche la speciale personalità internazionale della Santa Sede e il suo diritto di entrare in relazione con altri Stati. Il Trattato Lateranense, dapprincipio, non influenzò immediatamente le relazioni tra gli Stati Uniti e la Santa Sede ma ebbe importanti conseguenze per il futuro stabilirsi di legami formali.
Nella metà degli anni Trenta, il periodo della Grande depressione in America, questioni interne di mutuo interesse per la Chiesa cattolica e l’amministrazione Roosevelt portarono i potenti membri del governo e le gerarchie della Chiesa ad uno stato di crescente collaborazione. La crociata del presidente Roosevelt contro la disoccupazione, le ingiuste pratiche di lavoro, la discriminazione e la povertà erano problemi che anche la gerarchia cattolica americana stava tentando di affrontare con uguale vigore. Fu una relazione che Roosevelt fu più che felice di incoraggiare.
Roosevelt trovò un amico devoto e un sostenitore nel potente cardinale George Mundelein, arcivescovo di Chicago e zelante riformatore sociale. I primi cento giorni della presidenza Roosevelt furono segnati dal felice esito dell’attuazione dei programmi di recupero destinati a fronteggiare la Grande depressione. Nei mesi in cui Roosevelt usava energicamente il suo potere di governo, il cardinale Mundelein scrisse al presidente lodando il suo «notevole record di risultati»23. Ciò si sarebbe rivelato l’inizio di una lunga amicizia tra questi due illustri personaggi.
Continuando ad attuare il suo programma sociale, il New Deal, Roosevelt ebbe l’appoggio di eminenti prelati in tutta la Chiesa americana ma si guadagnò anche critiche aspre e sonore nel clero. Un prete della diocesi di Detroit, di nome Charles Coughlin, divenne una costante spina nel fianco di Roosevelt. Coughlin, all’inizio, fu un sostenitore di Roosevelt, ma gli voltò le spalle perché percepiva il fallimento delle riforme del New Deal. Le critiche alla fine si trasformarono in paranoia da quando Coughlin prese a strigliare ripetutamente Roosevelt nel suo programma radiofonico settimanale. Lo show radiofonico di Coughlin vantava la più ampia diffusione, con circa un terzo della nazione sintonizzata. Egli accusò Roosevelt di simpatie comuniste e denunciava il governo nelle sue filippiche antisemite. La Chiesa americana ebbe un momento di difficoltà nel controllare il “radio-prete”, in parte a causa dei conflitti interni alla gerarchia cattolica e in parte per l’enorme popolarità di Coughlin, che intanto stava erodendo la popolarità politica di Roosevelt.
Imperterrito Roosevelt andava avanti con le sue riforme del New Deal. Lo storico cattolico Gerald Fogarty ha scritto: «Le affinità tra l’insegnamento sociale cattolico e la legislazione del New Deal dettero vita a uno dei legami più stretti tra la Chiesa e il governo»24. Il vincolo trovò rinnovate energie negli emergenti leader cattolici come Francis Spellman, vescovo ausiliare di Boston dal 1932 e successivamente cardinale arcivescovo di New York. Fu infatti Spellman che coordinò la visita negli Stati Uniti del cardinale segretario di Stato Eugenio Pacelli nell’autunno del 1936.
Spellman era diventato amico e protetto di Pacelli quando lo accompagnò in una visita a Roma durante la seconda metà degli anni Venti. Non deve sorprendere che sia stato Spellman, con l’assistenza di Joseph Kennedy, a organizzare un incontro tra Pacelli e Roosevelt alla fine del giro, durato un mese, che il cardinale fece nella nazione. I due uomini si incontrarono nella casa della madre del presidente in Hyde Park, a New York, il 6 novembre, il giorno dopo che il presidente Roosevelt era stato rieletto. Entrambi erano figure di forte carisma e si ritiene che abbiano beneficiato immensamente della vicinanza reciproca.
Noi possiamo solo immaginare che l’argomento delle relazioni diplomatiche fra i loro due Stati venisse fuori più di una volta durante la permanenza di Pacelli. Anche John Cornwell in un libro del 1999 su Pio XII ci suggerisce che i due uomini raggiunsero un accordo di «tacito quid pro quo» per stabilire rapporti formali25. Cornwell asserisce che Roosevelt richiese il silenzio di padre Coughlin in cambio delle rinnovate relazioni diplomatiche. Di contro si crede che Pacelli abbia desiderato le relazioni diplomatiche con l’America come garanzia dell’amicizia degli Stati Uniti di fronte agli abusi sovietici nell’Europa dell’Est26. Mentre alcune fonti indicano che la questione Coughlin emerse nei colloqui tra importanti prelati durante la visita di Pacelli negli Stati Uniti, l’idea che un accordo di “quid pro quo” sia stato stretto con implicazioni diplomatiche appare essere infondata. Piuttosto, l’incontro tra Pacelli e Roosevelt probabilmente gettò i semi di un’amicizia e di una fiducia che sarebbero maturati quando l’Europa entrò in guerra, assumendo Pacelli il papato.
Alla fine, gli affabili rapporti di Roosevelt con i leader della gerarchia americana, insieme alla sua crescente fiducia in Pacelli, concorsero a fare delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede un proposito possibile, ragionevole e interessante. Quando iniziò a crescere l’aggressione tedesca e italiana in Europa, Roosevelt mantenne una posizione neutrale con l’intento di tenere gli Stati Uniti fuori dalla guerra. Il suo obiettivo principale era la restaurazione della pace nel mondo, scopo al quale la Santa Sede era completamente dedita. Il comune interesse alle questioni interne del welfare sociale portò Roosevelt ad avvicinarsi alla gerarchia della Chiesa americana, e una crescente preoccupazione per la pace e per la stabilità politica in Europa lo condusse ad intrecciare rapporti più stretti con la Santa Sede. La sua già ben avviata amicizia con i prelati americani che avevano forti legami con Roma rese il nuovo rapporto molto più produttivo.
Tuttavia, la crescente presa di coscienza delle atrocità umane che accadevano in Europa mise presto in chiaro che gli Stati Uniti avrebbero dovuto avere un maggiore ruolo nelle vicende europee se si voleva conseguire la pace. Sia Roosevelt che il Vaticano ebbero sempre maggiore interesse nello stabilire relazioni diplomatiche come mezzo per aumentare il flusso di informazioni tra l’America e l’Europa e, ciò che è più importante, come mezzo per coordinare e rafforzare i programmi di soccorso per le vittime di un’Europa straziata dalla guerra.


Pio XII è papa. L’audacia del cardinale Spellman

Quando papa Pio XI morì nel febbraio 1939, il cardinale Pacelli fu eletto a succedergli, prendendo il nome di Pio XII. La coronazione di Pacelli ebbe luogo il 12 marzo, e il presidente Roosevelt inviò come suo rappresentante personale l’ambasciatore degli Stati Uniti nel Regno Unito, Joseph Kennedy. Questo rappresentante di alto profilo sarebbe davvero stato un buon tramite per testare l’opinione pubblica sulla questione delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede27. Subito dopo la coronazione di Pio XII, il vescovo di Boston Spellman fu promosso all’arcidiocesi di New York, una carica di visibilità internazionale e di prestigio. Grazie agli stretti legami di Spellman con Roosevelt e a quelli ancora più stretti con Pio XII, egli sarebbe diventato uno strumento cruciale di comunicazione tra il governo degli Stati Uniti e la Santa Sede. La sua nomina fu indicazione non ambigua della volontà del Vaticano di infittire il dialogo con l’amministrazione Roosevelt.
Nell’estate del 1939 tra alcuni membri dell’establishment politico degli Stati Uniti stava crescendo l’interesse per rinnovate relazioni diplomatiche con la Santa Sede. In luglio il segretario di Stato Cordell Hull ricevette una lettera dal membro del Congresso Emanuel Celler, un rappresentante ebreo della città di New York, che chiedeva la restaurazione dei legami diplomatici con la Santa Sede. Nella sua lettera Celler puntualizzava: «Gli eventi all’estero indicano senza alcuna incertezza la grande scommessa che la religione deve tentare nel preservare la democrazia contro le selvagge e spietate incursioni di fascismo, nazismo e comunismo». In un accorato appello egli insisteva: «Un ristabilimento delle relazioni con la Santa Sede servirebbe, in maniera sensazionale, a ricordare al mondo che l’intolleranza, l’odio religioso e il fanatismo qui non possono attecchire. Ciò accenderebbe nei nostri cuori la compassione per le migliaia di sfortunati che sono stati puniti, torturati e annientati a causa dell’odio insano e della malvagità di un dittatore». La lettera va avanti ad elogiare la Santa Sede per aver sempre riposto «un alto valore nella giustizia e nella carità per quel che riguarda le relazioni tra gli uomini e tra le nazioni». In particolare Celler plaude a Pio XII e ai suoi sforzi di dare conforto all’Europa in guerra, concludendo: «Aiutiamolo nella sua gloriosa missione di pace mandando a lui il nostro delegato»28. Sembra che la lettera suscitò il dibattito all’interno del Dipartimento di Stato, dato che il 1° agosto il sottosegretario di Stato Sumner Welles inviò una missiva al presidente Roosevelt dicendo che lui e il segretario Hull avevano discusso del «vantaggio che poteva trarre questo governo [degli Stati Uniti] se avesse intrattenuto relazioni diplomatiche dirette con il Vaticano». «Io penso» continuava Welles «che sia fuori discussione che il Vaticano abbia molte fonti di informazione che noi non possediamo, in modo particolare per quanto riguarda ciò che accade in Germania, Italia e Spagna»29. Welles andò avanti indicando che il Dipartimento di Stato sarebbe stato lungimirante nel ricercare queste informazioni attraverso i canali diplomatici. Inoltre Welles inviò a Roosevelt una copia della lettera del rappresentante Celler in favore del riallacciamento delle relazioni.
L’idea di inviare un rappresentante presso il Vaticano iniziò a guadagnare terreno, spingendo Roosevelt ad invitare l’arcivescovo Spellman a pranzo alla Casa Bianca il 24 ottobre per discutere delle relazioni con il Vaticano. Tuttavia Roosevelt riconobbe che mandare un ambasciatore presso la Santa Sede era ancora una questione controversa e avrebbe, inevitabilmente, destato opposizione. Egli spiegò a Spellman che una missione presso la Santa Sede avrebbe dovuto assumere un carattere umanitario per evitare le controversie e l’opposizione politica. Roosevelt espresse anche il suo desiderio di inviare non un ambasciatore ma un “rappresentante personale”, eludendo così il problema dell’approvazione del Senato. E poiché un rappresentante speciale non sarebbe stato retribuito, la nomina non sarebbe entrata in conflitto con la legge di bilancio del 1867.
Spellman, sollecitamente, riferì il discorso di Roosevelt al cardinale segretario di Stato Luigi Maglione. Il delegato apostolico negli Stati Uniti, l’arcivescovo Amleto Cicognani, rispose: «Il Santo Padre è venuto con piacere a conoscenza delle notizie e spera che Vostra Eccellenza come anche io facciamo le opportune aperture al presidente, così che lui possa dar compimento alla sua proposta»30 . Spellman pensò che la lettera di Cicognani fosse di sostegno ma non sufficientemente enfatica. Così egli, con un atto di considerevole audacia, riscrisse la missiva e la consegnò a Roosevelt. La lettera diceva così: «Il Santo Padre ha ricevuto con grande soddisfazione l’informazione che il presidente desidera designare una missione presso la Santa Sede per contribuire alla soluzione del problema dei rifugiati e per trattare altri problemi di reciproco interesse… Il Santo Padre ingiunge a Vostra Eccellenza di comunicare al presidente Roosevelt l’espressione del più profondo apprezzamento da parte sua e di riferire che crede e prega che la ripresa delle relazioni tra gli Stati Uniti e la Santa Sede sarà massimamente propizia, specialmente nel momento attuale, quando entrambe le parti si stanno impegnando in sforzi paralleli per la pace, per alleviare le sofferenze e per altri propositi caritatevoli e umanitari. Vi è inoltre richiesto di far presente al presidente Roosevelt che, secondo il giudizio del Santo Padre, il prossimo adempimento dei suoi benevoli propositi contribuirà in grandissima misura al benessere di un mondo tristemente lacerato da incomprensioni, malvagità e conflitti».


Myron C. Taylor, il rappresentante
personale del presidente
Sentendo che il tempo era maturo, il presidente Roosevelt prontamente si decise a nominare un rappresentante speciale. La vigilia di Natale del 1939 inviò gli auguri alla Santa Sede condividendone le speranze per la pace e annunciando la nomina di Myron C. Taylor come rappresentante personale del presidente presso la Santa Sede. Pio XII ricevette la notizia con piacere. Quella sera il Papa annunciò la nomina al Sacro Collegio dicendo: «Queste notizie non potevano renderci più felici…»31. Myron Taylor fu una scelta logica per quella mansione. La sua fede protestante mitigava ogni conflitto d’interesse religioso. In passato era stato anche un eminente presidente della U. S. Steel Corporation con ampi legami professionali e di famiglia in Italia.
Per ragioni di salute Taylor differì il suo viaggio a Roma fino al febbraio del 1940. Prima che egli partisse ci fu una controversia sull’esatto titolo e il rango che egli avrebbe assunto. Per due volte Taylor contattò il Dipartimento di Stato lamentandosi che la lettera di nomina del presidente non faceva menzione del suo status come “ambasciatore” e che egli «attribuiva considerevole importanza alla suddetta menzione»32. L’incarico fu presto cambiato includendo le parole «con il rango di ambasciatore». Fu così, come rappresentante speciale del presidente degli Stati Uniti presso la Santa Sede con il rango di ambasciatore, che Taylor partì alla volta di Roma nel febbraio del 1940. Ma fu con la cerimonia “piena” riservata agli ambasciatori che Taylor fu ricevuto dal Vaticano.
In una lettera a Roosevelt appena dopo l’arrivo di Taylor, Pio XII scrive: «Noi confessiamo di essere stati favorevolmente colpiti e di avere scorto davanti a noi il vostro rappresentante portare avanti una nobile missione di pace e di salvezza…»33. Taylor si trovò in un ambiente diplomatico pieno di sfide. Prima della sua partenza il presidente gli aveva assegnato un certo numero di compiti. La maggior parte di essi aveva a che fare con i continui sforzi per ristabilire la pace in Europa, altri riguardavano il problema dei rifugiati e la cura dei prigionieri di guerra. Ma Roosevelt aveva anche obiettivi religiosi per la missione. L’ingerenza del presidente negli affari religiosi è una specie di tabù ed è stata attentamente evitata in tutte le relazioni intrattenute con la Santa Sede, passate e presenti. Nondimeno, Roosevelt aveva richiesto a Taylor di cercare il sostegno del Vaticano per la censura di padre Coughlin. Inoltre Roosevelt si spinse così lontano da chiedere a Taylor di comunicare il proprio appoggio affinché il vescovo ausiliare Bernard Sheil di Chicago occupasse la sede vacante di Washington D.C. Il Vaticano apparentemente si mostrò d’accordo nell’interessarsi alla faccenda di Coughlin, ma respinse sommariamente l’idea di Roosevelt che il presidente degli Stati Uniti dovesse dare un qualsivoglia input alla promozione dei vescovi.
Nei mesi seguenti Taylor operò in modo decisivo come intermediario tra il presidente e il Papa quando gli Stati Uniti si batterono senza successo per trattenere l’Italia dall’entrare in guerra. Fedele al profilo umanitario che Roosevelt sin dall’inizio aveva imposto alla missione, Taylor lavorò a stretto contatto con il Vaticano per nutrire i rifugiati che si riversavano ai confini dell’Europa, per fornire aiuti materiali alle vittime di guerra dell’Europa orientale e per aiutare i prigionieri di guerra alleati. La missione divenne un punto di smistamento per migliaia di lettere provenienti dalle famiglie americane desiderose di avere notizie che i loro cari fossero sani e salvi. Ma meno di un anno dopo aver assunto l’incarico, la salute di Taylor si deteriorò ed egli fu costretto a ritornare a casa.


Gli Stati Uniti in guerra, la Santa Sede no.
Le bombe su Roma. La liberazione
Mentre Taylor stava rimettendosi in forze in America, il Vaticano stava ancora fronteggiando una crisi politica a causa dell’imminente entrata in guerra dell’Italia. Dall’aprile del 1941 Taylor rimase lontano dal suo incarico per quasi sei mesi. Alcune lettere dicono che anche dagli Stati Uniti egli continuò a tenersi al corrente degli sviluppi all’estero. In aprile l’ambasciatore francese Wladimir Ormeston scrisse a Taylor lamentandosi delle sofferenze sopportate dal popolo francese e chiedendo a Taylor di fare ciò che era in suo potere per incoraggiare Roosevelt ad intervenire in Europa. Egli disse che uno dei più grandi timori della Francia era che «il popolo americano decida di non intervenire nella guerra finché la guerra in realtà non sarà persa». Proseguì dicendo: «Ho difficoltà a capire, devo confessare, perché gli Stati Uniti, che sono intervenuti nella guerra del 1917 per così nobili motivazioni, debbano ancora esitare nel dare il loro massimo impegno in questa guerra… ti garantisco che non è una frase vuota dire che la civiltà è in gioco»34.
Al fine di mantenere regolari contatti diplomatici con il Vaticano durante l’assenza di Taylor, il Dipartimento di Stato designò Harold H. Tittman, un consigliere dell’ambasciata americana di Roma, come assistente del rappresentante personale del presidente degli Stati Uniti presso sua santità il papa. Tittman era già stato de facto l’osservatore del Dipartimento di Stato per gli affari del Vaticano sin dal suo arrivo a Roma come segretario all’ambasciata in Italia, e aveva agito come assistente di Taylor in veste informale sin dalla nomina di Taylor nel 1940. Adesso si trovava a ricoprire un ruolo-guida nell’amministrare i sempre più importanti interessi degli Stati Uniti presso la Santa Sede.
L’11 dicembre 1941 Italia e Germania dichiararono guerra agli Stati Uniti. Durante questo periodo Taylor si era ritemprato ed era pronto a ritornare in Italia, ma a causa della guerra tra America e Italia era quasi impossibile farlo rientrare nel Paese. In una lettera al Dipartimento di Stato il presidente Roosevelt scrisse: «Io sono d’accordo che sarebbe veramente utile per Myron Taylor ritornare in Vaticano per due o tre settimane. Ma come possiamo riuscire a farlo entrare?»35. Tittman, frattanto, si trovava ancora in Italia a tenere il resoconto degli affari vaticani. Lui e la sua famiglia si rifugiarono all’interno dei confini della Città del Vaticano, dove gli altri diplomatici accreditati presso la Santa Sede avevano già trovato riparo. Tittman, tuttavia, non era assegnato alla Santa Sede ma era soltanto l’assistente del rappresentante del presidente. Il Vaticano si preoccupò del fatto che dare asilo a lui, un americano non accreditato, sarebbe stata una provocazione agli occhi del governo di Mussolini, che in qualsiasi momento avrebbe potuto revocare la sovranità accordata alla Santa Sede. Secondo Gerald Fogarty «il 16 dicembre Welles scrisse a Roosevelt rilevando che Hull aveva accolto la proposta che Tittman fosse nominato chargé d’affaires, “poiché è di fondamentale importanza che Tittman rimanga nella Città del Vaticano così da poter continuare suo tramite ad avere contatti con la Santa Sede”»36.
Infine, nel settembre del 1942, gli Stati Uniti furono in grado di assicurare a Myron Taylor un passaggio sicuro per tornare in Italia per una breve visita alla Santa Sede. Taylor ribadì l’impegno dell’America per conseguire una completa vittoria sulle forze dell’Asse, obiettivo che non corrispondeva ai ripetuti richiami della Santa Sede per l’immediata cessazione delle ostilità. In una lettera al presidente, Taylor riportò che egli aveva parlato per «convincere assolutamente il Papa e le autorità vaticane che noi proseguiremo la guerra fino a che Hitler e il nazismo saranno distrutti o resi inoffensivi»37.
Il segretario Hull discusse delle sue preoccupazioni per le tendenze conciliatorie del Vaticano in un memorandum a Taylor proprio prima dell’udienza di questi con il Papa. Egli scrisse: «Finché sei a Londra… tu potresti assicurarti di quale è stata la reazione del Foreign office alle recenti voci che il Vaticano sarà usato dall’Asse nel prossimo futuro per sostenere le proposte di pace».
Taylor tornò in America alla fine di settembre quando i problemi diplomatici stavano iniziando ad aumentare per l’imminente bombardamento alleato su Roma. Gran parte del nord dell’Italia aveva già subito pesanti bombardamenti da parte degli Alleati nel tentativo di allontanare i nazisti, e la Santa Sede stava disperatamente tentando di mediare un’esenzione per la Città eterna. Per ovvie ragioni essi erano preoccupati per il benessere e la salvezza del popolo di Roma, per non parlare della salvezza delle chiese romane, di grande valore artistico e spirituale. In una lettera all’arcivescovo Spellman, ma ultimamente diretta al presidente Roosevelt, Enrico Galeazzi, un laico e uomo di fiducia di vecchia data di Pio XII, ammoniva che un bombardamento americano su Roma «avrebbe suscitato una reazione nociva nell’intero mondo cattolico». Egli continuava dicendo: «Senza pregiudicare l’efficace esecuzione dei suoi piani politici e militari, il presidente degli Stati Uniti non dovrebbe trascurare l’opportunità di imporre al comando alleato una più generosa condotta di guerra avendo riguardo del popolo italiano, che ha sempre nutrito cordiali sentimenti di amicizia per il popolo americano, specialmente perché gli attacchi aerei così come sono condotti oggi, sostanzialmente non danno risultati rilevanti e forse servono soltanto a modificare queste attitudini di amicizia e a creare in Italia un eroico clima di resistenza disperata»38. Queste dichiarazioni e inermi minacce non furono ascoltate, le Forze alleate sganciarono le bombe su Roma, causando meno danni di quanto ci si fosse aspettato, liberando infine la città dall’insidiosa stretta dei nazisti.
Il 4 giugno del 1944 le Forze alleate entrarono a Roma. Mentre gli americani stavano prendendo d’assalto le coste della Normandia, Harold Tittman e i suoi colleghi diplomatici furono finalmente in grado di uscire dal Vaticano dopo mesi di asilo. Ma i problemi non erano finiti per la Chiesa, o per gli Stati Uniti. Con la caduta del nazismo, un’altra forza egualmente minacciosa stava assumendo il dominio nell’Est. Il comunismo aveva costituito una minaccia alla Santa Sede anche prima dell’ascesa di Hitler. Secondo una nota scritta nel 1941 da Myron Taylor circa una conversazione che egli aveva avuto con l’arcivescovo Tardini, allora segretario della Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari, Tardini affermò: «Al momento l’Europa si trova di fronte a due grandi pericoli: il nazismo e il comunismo. Entrambi si oppongono alla religione, alla civiltà cristiana, alla libertà personale, alla pace». Tardini disse a Taylor: «Se la guerra ora in atto significasse la fine di entrambi i pericoli, un periodo di tranquillità sarebbe possibile per l’Europa. Se anche uno di questi mali, il comunismo ad esempio, rimanesse una forza attiva, l’Europa, in pochi anni, si troverebbe in una situazione identica a quella in cui si trova oggi. Infatti, il comunisüo, una volta vittorioso, non troverebbe nessuna ulteriore resistenza nell’Europa continentale… Conseguentemente, nello spazio di pochi anni si avrebbe un enorme blocco comunista, il cui inevitabile destino sarebbe di provocare una guerra con l’Inghilterra e l’America». Tardini proseguiva: «È bene tenere a mente… che il comunismo non può rinunciare alla sua lotta contro la religione e la civiltà cristiane poiché ritiene come suo principio fondamentale che il capitalismo deve essere distrutto e che la religione non è che l’oppio con il quale il capitalismo ha drogato il proletariato»39.
Tardini non sapeva quanto previdenti fossero le sue parole. Sarebbero passati molti anni prima che gli Stati Uniti, di comune accordo, con rinnovati e consolidati legami diplomatici con la Santa Sede, liberassero finalmente il mondo e la Chiesa dal giogo dell’oppressione comunista. Ma l’intesa tra il presidente Reagan e il papa Giovanni Paolo II era ancora di là da venire. Nell’aprile del 1945 il presidente Franklin Roosevelt morì. Per pochi anni ancora Myron Taylor portò avanti la sua missione, facendo occasionali visite alla Santa Sede per discutere argomenti di rilevanza politica e umanitaria.
In America, frattanto, i sentimenti anticattolici si erano riaffacciati, e il Vaticano era sempre più infastidito dal fatto che Taylor non fosse ancora un diplomatico pienamente accreditato presso la Santa Sede. Nonostante il ruolo importante giocato da Taylor nella diplomazia della Seconda guerra mondiale, la volubile opinione pubblica presto montò contro la sua missione. Dopo molti anni di distinto servizio, Myron Taylor era invecchiato e si meritava il riposo della pensione, che avrebbe dovuto concedersi molti anni prima. Quindi egli rassegnò le dimissioni come rappresentante personale del presidente degli Stati Uniti d’America presso sua santità il papa, il 18 gennaio del 1950.
Myron Taylor lasciò un segno indelebile nella storia delle nostre relazioni con la Santa Sede, guidando la diplomazia della nostra nazione attraverso gli anni turbolenti della Seconda guerra mondiale. Insieme agli inestimabili contributi quotidiani di Harold Tittman al lavoro della missione, non sarebbe esagerato dire che l’amicizia di Taylor ed i suoi legami diplomatici si estendevano al di là dei confini e oltre il regno politico della Santa Sede, facendo di lui sotto diversi profili un ambasciatore dell’America a tutto campo per la causa della pace in Europa.
Anche Taylor ebbe consapevolezza del suo storico compito, consapevolezza che è evidente nella cura che mise nel conservare immacolati i documenti che sono la nostra più grande fonte di informazione sulla missione degli Stati Uniti presso il papa negli anni della guerra. Taylor tenne tutte le sue carte, le lettere e i documenti importanti rilegati in volumi, e li inviò alle biblioteche e agli archivi di tutti gli Stati Uniti. Nei volumi ci sono lettere che quasi impudentemente riguardano la produzione di tali documenti storici. Al tempo in cui l’America era impegnata in duri combattimenti nel Pacifico ed in cui le truppe della Germania stavano attraversando il Nord Africa, Myron Taylor inviò la seguente lettera a Grace Tully, la segretaria del presidente: «Tra i vari scritti che ho consegnato al presidente c’era una lettera personale a lui che egli stesso mi disse m’avrebbe rimandato in copia per i miei documenti riservati. Mi rendo conto che la pressione degli eventi possa aver fatto sì che, contrariamente alla consuetudine, ciò gli sia sfuggito, ma io ti chiedo, senza farlo diventare un problema, di spedirmi copia di quella lettera»40. Non c’è bisogno di dire che in quel periodo tenere aggiornata la corrispondenza di Myron Taylor non era propriamente una priorità per il presidente. Ma in fin dei conti noi siamo in debito con Taylor, non solo per il suo lavoro diplomatico svolto in quegli anni difficili, ma proprio perché grazie alla sua meticolosità egli ci ha fornito un incomparabile colpo d’occhio su questa importante epoca del nostro passato.


La meteora Mark W. Clark

Il presidente Truman desiderava continuare le relazioni amichevoli con il Papa e nell’ottobre del 1951 nominò il generale Mark W. Clark a rappresentare gli Stati Uniti presso la Santa Sede. Egli volle che il generale Clark agisse non solamente come suo speciale rappresentante presso la Santa Sede, ma come un ambasciatore straordinario e plenipotenziario. Truman capì che intrattenere relazioni diplomatiche con il Vaticano «avrebbe contribuito al coordinamento degli sforzi per combattere la minaccia comunista»41. Entro un giorno dall’annuncio presidenziale lettere e telegrammi si riversarono alla Casa Bianca. Il presidente stesso, in una lettera ad un sostenitore episcopaliano, scrisse: «Non c’e dubbio che la questione è controversa»42.Truman fu sostenuto da molti, uno dei quali fu il reverendo Robert Kevin, un professore di seminario, che scrisse: «Caro presidente: sebbene io sia protestante e lo sia davvero… mi congratulo con lei per la nomina del generale Mark W. Clark come ambasciatore presso lo Stato del Vaticano»43.
Lo storico Arthur Schlesinger Jr. scrisse in The Atlantic Monthly del 1952: «Il chiasso attorno alla nomina continua ad apparire un caso esemplare di molto rumore per nulla». E continuava: «Il Vaticano è costantemente impegnato nel prendere decisioni politiche. Queste decisioni influenzano una grande massa di persone. Un elementare buon senso ci obbliga a fare ciò che possiamo per essere sicuri che queste decisioni sostengano piuttosto che ostacolino la nostra politica estera»44. Earl Godwin, speaker della National Broadcast Company e amico di Truman, espresse al meglio i sentimenti dei sostenitori del presidente quando scrisse al suo segretario dicendo: «Ho appoggiato la posizione del presidente in questa vicenda dell’ambasciatore al Vaticano sebbene io sia un protestante e un massone… Comunque, io penso potrebbe esser cosa saggia, per alcuni di noi che condividiamo il punto di vista del presidente, essere informati su qualcuna delle ragioni in favore di questa ambasciata. Tutte le informazioni che ho sono di senso contrario»45.
In effetti, la maggior parte della posta ricevuta esprimeva critiche acerbe e indignazione per la nomina, o, come Truman affermò, le lettere contenevano «più calore che luce»46. Le missive, specialmente quelle della comunità battista americana, descrivevano la nomina come «una minaccia alla nostra libertà» e come «dirompente per la nostra vita nazionale». Un ministro adirato recriminò che la nomina di Clark avrebbe condotto «a una possibile divisione del Paese». Nel complesso, le lettere di protesta furono eccessivamente drammatiche e apocalittiche. La povertà di contenuto degli argomenti riposava sulla credenza che nominare un ambasciatore presso la Santa Sede costituisse una violazione del primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Lo slogan usato dagli oppositori alla nomina era “separazione tra Stato e Chiesa”.
Ciò che molti oppositori non seppero riconoscere fu, prima di tutto, che la Costituzione non reclama la incondizionata non interazione tra lo Stato e le organizzazioni religiose. Invece, la Costituzione decreta che «il Congresso non emanerà alcuna legge relativa alla istituzionalizzazione di una religione». Un ambasciatore presso la Santa Sede non istituisce certo la fede cattolica come religione di Stato. In secondo luogo, il Vaticano non è semplicemente un ente religioso, come i critici osservarono, ma anche uno Stato sovrano sottoposto a leggi internazionali, in grado di inviare e di ricevere ambasciatori e di stipulare trattati.
Alla fine, comunque, Truman non poté ignorare le proteste dell’opposizione. La reazione critica fu schiacciante. La Casa Bianca ricevette 1.069 lettere contro la nomina di Clark e solo 186 a favore47. Nel gennaio del 1952 Clark ritirò la sua candidatura e Truman decise di non tentare un’altra nomina. Schlesinger, che più tardi sarebbe divenuto assistente speciale del presidente John Kennedy, scrisse sarcasticamente della decisione di Truman: «Quando un presidente inizia a sottrarsi dal prendere sagge decisioni perché queste irriteranno una parte della popolazione, potrebbe ben dimettersi»48.
Alcuni congetturarono che Truman avesse intenzione di far fallire la nomina, e che fu semplicemente per tener fede a una promessa personale a Pio XII che alla fine della guerra volesse nominare un ambasciatore presso la Santa Sede. Sapendo che il costituirsi delle relazioni con il Vaticano sarebbe stato un disastro politico, è possibile che Truman scelse Mark Clark, un uomo inviso alla Commissione affari esteri del Senato e che si diceva non volesse neanche l’incarico, per far fallire la candidatura. In questo modo le controversie politiche di lungo termine sarebbero state minime, contemporaneamente mantenendo la promessa a Pio XII. A prescindere dalle intenzioni di Truman, la candidatura fallì. Essa naufragò con così tanto clamore che il presidente Dwight Eisenhower non tentò neanche di toccare la questione delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede, anche quando gli Stati Uniti entrarono nei giorni più rigidi della Guerra fredda, momento in cui la Santa Sede avrebbe potuto essere un alleato prezioso e leale.
Nonostante il non coinvolgimento con la Santa Sede sembrasse essere la politica del governo degli Stati Uniti, sarebbe fuorviante dire che la collaborazione tra il Vaticano, la gerarchia cattolica americana e l’establishment della politica estera americana fosse giunta alla fine. Infatti, nel corso degli anni seguenti, Spellman, che nel 1946 fu nominato cardinale, lavorò a stretto contatto con il Vaticano e i funzionari del Dipartimento di Stato per contrastare il comunismo in America e in Europa. Ad esempio, la gerarchia americana e il Vaticano collaborarono con il Dipartimento di Stato per evitare la vittoria dei comunisti alle elezioni italiane del 1948, 1953 e 195849.
John Kennedy fu attento a non creare
una “questione cattolica”
Con la candidatura a presidente del senatore John F. Kennedy la questione dei rapporti tra Stati Uniti e Vaticano tornò ancora ad essere in primo piano nel dibattito pubblico. Kennedy proveniva da un’eminente famiglia cattolica e suo padre, Joseph Kennedy, fu un amico di Spellman e il primo agente diplomatico del presidente Roosevelt presso la Santa Sede. Egli fu scelto per rappresentare gli Stati Uniti all’investitura di papa Pio XII nel 1939. Negli anni successivi, il politicamente potente Joseph Kennedy insieme ad un esplicito cardinale Spellman furono i due più inflessibili campioni della spinta americana a stabilire relazioni più forti con la Santa Sede. Per ragioni politiche, tuttavia, il figlio John Kennedy si oppose al riconoscimento della Santa Sede da parte degli Stati Uniti.
In veste di primo presidente cattolico degli Stati Uniti, Kennedy dovette procedere con cautela. Al tempo della sua candidatura molti americani temevano che, nel caso in cui fosse stato eletto, avrebbe preso ordini dal Papa. Kennedy attenuò questi timori nel 1960 quando parlò alla Greater Houston Ministerial Association. Nel suo discorso egli disse: «Io credo in un’America dove la separazione tra Stato e Chiesa è assoluta, dove nessun prelato cattolico potrebbe dire al presidente (anche nel caso in cui fosse cattolico) come agire… dove a nessuna Chiesa o scuola religiosa è concesso alcun finanziamento pubblico o preferenza politica… dove nessun pubblico ufficiale chiede o accetta indicazioni dal papa sulla politica pubblica… dove nessun ente religioso cerca di imporre direttamente o indirettamente la sua volontà sul popolo in generale o sugli atti pubblici dei suoi funzionari». Egli andò avanti chiedendo di essere giudicato non sulla base della propaganda ma per la s


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