Tratto da ne scelse dodici

San Bartolomeo




SAN BARTOLOMEO
Sono davvero scarse le notizie sull’apostolo Bartolomeo. Il suo nome, che è un evidente patronimico (in aramaico Bar-Talmai significa “figlio di Talmai”), è presente nei Vangeli sinottici e negli Atti degli Apostoli, mentre nel Vangelo di Giovanni appare Natanaele di Cana in Galilea; sono, secondo un’interpretazione condivisa, due nomi della stessa persona, il nome proprio e il patronimico. Poco si sa della sua vita; Eusebio di Cesarea, riferendo delle attività di apostolato all’epoca dell’imperatore Commodo (180-192), cita tra gli evangelizzatori dell’Oriente il filosofo Panteno, e dice: «Anche Panteno fu uno di loro, e si dice che andò tra gli indiani, dove trovò, come narra la tradizione, presso alcuni del luogo che avevano imparato a conoscere Cristo, che il Vangelo secondo Matteo aveva preceduto la sua venuta: tra loro, infatti, aveva predicato Bartolomeo, uno degli apostoli, che aveva lasciato agli indiani l’opera di Matteo nella scrittura degli ebrei, ed essa si era conservata fino all’epoca in questione» (Storia ecclesiastica, V, 10, 3). Dunque Bartolomeo avrebbe predicato in India, ma gli autori antichi sono incerti se intendere i luoghi della predicazione di Bartolomeo come l’India più occidentale, oppure l’Etiopia o anche l’Arabia Felice. La tradizione più ricorrente lo fa martire, dopo un viaggio missionario in Licaonia, Mesopotamia e Partia, in Armenia, ad Albanopoli. Sulla modalità del martirio non c’è uniformità nelle notizie, tutte comunque risalenti ad autori tardi o medievali; così la Chiesa d’Oriente accetta la pena della crocifissione, mentre in Occidente si seguono due diverse tradizioni: quella della decapitazione (ad esempio nel Martirologio di Rabano Mauro), e quella dello scuoiamento, sostenuta da Isidoro di Siviglia e da Beda, che alla fine prevarrà sull’altra nel tardo Medioevo e si affermerà nell’iconografia. Secondo fonti orientali (Teodoro Lettore) le reliquie di Bartolomeo sarebbero state traslate a opera dell’imperatore bizantino Anastasio I, nel 507, a Darae in Mesopotamia o forse ad Anastasiopoli in Frigia; ma si ha notizia di una precedente traslazione a Maipherqat (Martyropolis, nella provincia di Mesopotamia, attuale Tikrit in Iraq) nel 410, a opera del vescovo Maruthas. Fonti occidentali (Vittore di Capua) le dicono in Frigia nel 546, poi se ne perdono le tracce, finché nel 580 compaiono in Occidente, nell’isola di Lipari. La notizia della traslazione è riportata da Gregorio di Tours (538-594), descritta con tratti miracolosi (la cassa di piombo con il corpo di Bartolomeo, gettata in mare dai pagani dalla costa d’Asia, cioè l’attuale costa turca sull’Egeo, avrebbe galleggiato fino a Lipari) che tuttavia potrebbero non inficiarne la sostanziale validità; mentre appare sicuramente leggendaria la tradizione locale isolana, che collocherebbe la traslazione al 13 febbraio 264. Dopo le incursioni arabe che nell’838 devastarono l’isola e profanarono le reliquie, il principe longobardo Sicardo le raccolse e le trasferì a Benevento, in una cappella della chiesa cattedrale; e anche in questo caso il racconto evidenzia tratti miracolosi.
Nel 999 (anche se comunemente si continua a indicare la data del 983) le reliquie furono traslate a Roma per ordine di Ottone III, che le depose nella chiesa di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, da lui edificata originariamente in memoria dell’amico san Adalberto, vescovo di Praga e martire nel 997. La città di Benevento ha però continuato a sostenere, e ancora sostiene, di possedere le reliquie dell’apostolo (o almeno parte di esse): a Ottone III, infatti, sarebbe stato consegnato un altro corpo, quello di san Paolino da Nola, come afferma la Cronaca di Leone Marsicano (scritta attorno al 1098-1101, cioè cento anni dopo il fatto), sull’obiettività della quale però vi sono dubbi. Dal XII secolo, comunque, si afferma la tradizione romana. Gli scavi archeologici che nel 2006 a Roma hanno portato alla luce, al di sotto dell’attuale chiesa, strutture dell’originario edificio ottoniano, hanno anche evidenziato la presenza, sotto la zona dell’altare, di una profonda e larga cavità rettangolare delimitata da pareti in laterizi, sicuramente un reliquiario. Quando papa Pasquale II, nel 1113, compì cospicui lavori di restauro nella basilica, testimoniati da un’epigrafe coeva tuttora leggibile sull’architrave del portale, le reliquie dovettero certamente essere spostate dalla loro prima collocazione. Al 1156 ci è nota la prima ricognizione delle reliquie, mentre una loro ulteriore risistemazione avvenne poco più tardi, al tempo di Alessandro III (1159-1181); forse già da allora esse si trovavano nella vasca di porfido rosso che tuttora le contiene (si nomina nelle fonti una “concha porfiretica”). Tra il 1557 e il 1560 le reliquie furono trasferite a San Pietro, a causa dei danni subiti dalla chiesa dopo una disastrosa inondazione del Tevere. Un’altra ricognizione fu compiuta nel 1574, e ne abbiamo la descrizione. Si ha infine notizia di un ulteriore temporaneo spostamento delle reliquie a Santa Maria in Trastevere dal 20 luglio 1798 al 24 agosto 1800, per preservarle dalle manomissioni delle truppe di occupazione francesi. Molta devozione per le reliquie di Bartolomeo ebbero Pio IX, che nel 1852 restaurò la zona absidale e sostituì l’altare centrale sotto al quale tuttora è la vasca di porfido con le reliquie, e più recentemente Giovanni XXIII.
Sebbene la ricerca storica sia generalmente orientata a riconoscere l’avvenuta traslazione a opera di Ottone III, reliquie di Bartolomeo continuano a venerarsi allo stesso tempo anche a Benevento, da dove, secondo la tradizione locale, non si sarebbero mai mosse. Le si indicano in un’urna di porfido sotto l’altare maggiore della rinnovata Basilica di San Bartolomeo, dove furono traslate solennemente da una precedente vicina sistemazione l’8 maggio 1729 da papa Benedetto XIII (Vincenzo Maria Orsini), che da arcivescovo di Benevento nel 1698 ne aveva compiuto la ricognizione canonica. Una nuova ricognizione è stata compiuta recentemente, il 27 marzo 2001, su disposizione dell’arcivescovo di Benevento monsignor Serafino Sprovieri: si è constatato che l’urna di porfido contiene numerosi piccoli frammenti ossei di uno scheletro divisi in ampolle, nelle quali furono sistemati a seguito della precedente ricognizione della fine del Seicento.


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