Tratto da L’umanità di...

L’umanità di Cristo è la nostra felicità




Innanzitutto grazie per avermi ancora una volta invitato in questa stupenda cattedrale, anche perché questo rinnovato invito mi sembra l’accadere di quella «comunione di spirito», come dice san Paolo, che quando accade gratuitamente «rende piena la gioia». Così Paolo scrivendo ai Filippesi (Fil 2, 1-2). Grazie anche perché quando sono entrato mi ha accolto il parroco di questo duomo, e, dopo la genuflessione davanti al tabernacolo, mi ha condotto così semplicemente nella cripta, per farmi venerare il corpo del martire, san Donnino, su cui è costruita questa cattedrale. Questo fatto così semplice mi ha commosso, perché i tesori di una chiesa sono due. Primo, il tabernacolo dove c’è Gesù: io ricordo ancora la mia povera mamma, quando piccolo bambino mi portava nella chiesa del mio paese, e mi indicava: «Là c’è Gesù»; e: «Manda un bacio a Gesù». Non sapeva la mia povera mamma che mandare un bacio vuol dire adorare. In latino adorare vuol dire baciare1. E questo mandare un bacio a Gesù adesso commuove e conferma la mia fede più che i libri di teologia. Il secondo tesoro che c’è in una chiesa sono i corpi dei martiri. Questo, per uno come me che ha avuto la grazia di nascere e di diventare prete nella diocesi di Milano, di fare il seminario a Venegono, è di una evidenza solare. Il momento più bello dell’episcopato di sant’Ambrogio a Milano è stato quando ha trovato i corpi dei martiri Gervaso e Protaso – e infatti si è fatto seppellire (andate nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano dove il vescovo Ambrogio è seppellito) tra questi due martiri. «Nequimus esse martyres, sed invenimus martyres / Non abbiamo avuto la grazia di essere martiri, ma abbiamo trovato i martiri»2. Era solo per dire grazie per avermi dato questa occasione.

 

 

«L’umanità di Cristo è la nostra felicità»: non è una frase mia. È la frase con cui san Tommaso d’Aquino inizia la parte della Summa theologica in cui parla di Gesù3. Dice proprio così: «Ad hunc finem beatitudinis / Al loro destino di felicità [perché questo, la felicità, è il destino dell’uomo: ad hunc finem beatitudinis] / homines reducuntur per humanitatem Christi / gli uomini sono ricondotti attraverso l’umanità di Cristo». Per aiutare a vivere il santo Natale, a vivere questi giorni, a viverli, come tenterò di suggerire, nella preghiera (perché la parola preghiera indica tutto, indica la posizione dell’uomo nei confronti del Mistero di Dio, del Mistero che, come accennava la frase di Giussani che è stata letta prima, si affaccia in ogni esperienza umana), vorrei partire da una frase di un’omelia del Natale di sant’Antonio da Padova, che è dottore della Chiesa, quindi un santo che la Chiesa riconosce come insegnamento sicuro e che edifica la fede. Antonio, che aveva anche esperienze mistiche del suo rapporto col bambino Gesù, ha iniziato l’omelia dicendo: «Natale: ecco il paradiso». Ecco il paradiso. Quando duemila anni fa a Betlemme Maria l’ha partorito: ecco il paradiso. La felicità non più promessa, non più attesa, non più sperata, non più intravista da lontano. La felicità fatta carne era presente. Era visibile. Quando è uscito dal ventre di Sua madre, visibilmente la felicità, cioè il paradiso, il sommo piacere (come dice Dante: «sì che ’l sommo piacer li si dispieghi»4), il sommo piacere era venuto Lui stesso incontro all’uomo: ecco il paradiso.

 

 

E così questa frase di sant’Antonio (come l’espressione di san Tommaso d’Aquino: «Gli uomini sono ricondotti», ri-condotti) richiama innanzitutto alla creazione di Dio, al fatto che la creazione di Dio è buona. È buona la creazione di Dio, la creazione di Dio è molto buona (cfr. Gen 1, 31). Dio si è stupito della Sua creazione. Dio si è stupito della bellezza della Sua creazione. «Pulchritudo eorum, confessio eorum» dice sant’Agostino: «La bellezza delle stelle è il riconoscimento, la testimonianza del Creatore»5. Dio stesso si è stupito della bellezza della Sua creazione e della bellezza della Sua creatura al vertice della Sua creazione: la bellezza dell’uomo e della donna. E non solo si è stupito di questa bellezza, ma ha rivestito di grazia, cioè di una bellezza ancor più gratuita, questa bellezza. Tanto è vero che, secondo l’immagine poetica della Genesi, ha posto Adamo ed Eva nel paradiso, nel paradiso terrestre, e nel paradiso terrestre il rapporto col Creatore era immediato. Questa immediatezza di rapporto è descritta poeticamente dalla Bibbia come il passeggiare di Dio con Adamo ed Eva (cfr. Gen 3, 8). Dice Péguy: tutto lì era stupore, un clima di stupore, un clima di grazia6. Questo è il paradiso, questo è il destino di felicità.

 

 

Ma è intervenuto il peccato, un grave peccato.

Perché è così grande, anche nelle sue conseguenze che paghiamo tutti, il peccato originale? Sant’Agostino dice: perché era così facile non peccare7. Nel paradiso terrestre era così facile non peccare perché la presenza del Mistero era così vicina, era così immediata, perché lo stupore di questa presenza si rinnovava continuamente. Era così facile non peccare. Per questo è stato così grave quel peccato. Era così facile non acconsentire al tentatore. Era così facile accorgersi che la felicità non stava nel diventare Dio (cfr. Gen 3, 5) ma che la felicità stava nell’essere con Dio: era così facile questo! Proprio perché era così facile non peccare, il peccato è stato così grande. Ma è rimasto il cuore. Questo è importante. Anche sant’Agostino, che con così grande forza, seguendo innanzitutto ciò che Ambrogio testimone della Tradizione gli aveva insegnato a Milano8, sottolinea il peccato originale, afferma che l’immagine di Dio, pur ferita, rimane nell’uomo9. Il cuore, pur ferito mortalmente – tanto è vero che si muore –, il cuore, pur ferito mortalmente, rimane attesa di felicità, rimane desiderio di felicità, il cuore rimane capace della felicità. «Capax Dei / capace di felicità»10. E questa bontà della creazione è testimoniata anche in segni così umani. Il sorriso del bimbo che sorride al papà e alla mamma è segno che Dio non ha abbandonato la Sua creazione. Il venire al mondo di un figlio è una cosa bella. La natura umana, pur ferita dal peccato, rimane segno della bellezza e della bontà del Creatore. Attende la felicità. Rimane attesa della felicità.

 

 

E così il Signore è intervenuto, è intervenuto innanzitutto... Com’è bello nella festa dell’Immacolata, leggendo il brano della Bibbia sul peccato originale, sentire la promessa, quella bella promessa: «Io porrò inimicizia», dice il Signore al serpente, al tentatore, al diavolo, «tra te e la donna, tra la tua stirpe», coloro che appartengono a satana, al diavolo, «e la sua stirpe: questa ti schiaccerà il capo» (Gen 3, 15). La stirpe della donna ti schiaccerà il capo. Anche la donna (come indica l’immagine della Madonna Immacolata nella cappella dell’eucaristia in questa cattedrale) ti schiaccerà il capo.

 

 

Il Signore, per sostenere questa promessa, ha dato al Suo popolo la legge. E la legge è per la felicità. Anche questo è bello: tutti i comandamenti di Dio sono per la felicità. «Fa’ questo per essere felice» (cfr. Dt 6, 3. 18. 24). I dieci comandamenti sono per la felicità. La legge indica la strada. E questa è la cosa che l’apostolo Paolo soprattutto nelle sue lettere ai Galati e ai Romani più evidenzia: la legge dà la conoscenza della strada, ma la legge non fa camminare sulla strada. E quindi la felicità rimane lontana. La legge indica dov’è la felicità. La legge e i profeti hanno indicato dov’è la felicità: «Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 72, 28). Così il salmo 72, che è bellissimo. È il salmo che parte dal fatto che i cattivi prosperano, dalla domanda posta dal fatto che chi nega praticamente Dio prospera. E il salmista rimane sconvolto da questa prosperità dei cattivi. E dice: «Io non capivo, davanti a Te ero come una bestia» (Sal 72, 22). Poi uno scopre che «il mio bene è stare vicino a Te» (Sal 72, 28), che stare vicino a Te è la mia felicità. Ma un conto è saperlo e un conto è viverlo. È tutto qui, vedete, in fondo, il mistero dell’uomo e il mistero della risposta cristiana: un conto è sapere dov’è la felicità e un conto è essere felici, un conto è sapere la strada per andare alla felicità e un conto è camminare sulla strada che porta alla felicità. E se l’uomo è ferito mortalmente sul ciglio della strada – come l’immagine della parabola del buon samaritano documenta (cfr. Lc 10, 25-37) – l’uomo da solo non può camminare verso la felicità, anche quando sa che la felicità è il Signore, anche quando sa che la felicità è stare con Dio, anche quando sa. In questo, credo che l’esperienza di sant’Agostino sia paradigma per sempre. Agostino sapeva che la felicità era lo stare con Dio, Agostino sapeva che la felicità era l’unità col Creatore. E dice: «Io ero certo di questo»11. E aggiunge: «Questa verità vinceva, ma i piaceri del mondo avvincevano»12. I piaceri del mondo sono più avvincenti anche di una verità certa. I piaceri del mondo, qualunque tipo di piaceri del mondo. L’uomo segue ciò che gli piace di più13. I piaceri del mondo sono più avvincenti. Ancora nelle Confessioni dice: «Che la felicità vera fosse l’unità con Dio mi era evidente, ma dalle immagini dei piaceri parziali la volontà non si distoglieva»14. L’evidenza della verità non ha la forza di distogliere la volontà dalle immagini – come è realistica questa osservazione! – dei piaceri mondani, dei piaceri parziali, dei piaceri che Agostino riconosceva essere parziali, non veri. Eppure l’evidenza della verità non ha la forza di distogliere la volontà dalle loro immagini. Al massimo, ed è questo il massimo di moralità farisaica, Platone dice che quando parliamo della verità ci dimentichiamo anche delle donne. Al massimo, in quel momento, c’è una dimenticanza. Il cristianesimo non dimentica niente. L’abbraccio della grazia dà la possibilità di voler bene in modo casto, non di dimenticare. Comunque il massimo della moralità platonica è la dimenticanza, in quel momento, di una certa immagine di piacere.

La legge è buona, indica la strada. Ma c’è un mare, dice ancora Agostino con un’immagine facile da cogliere, c’è un mare infinito tra la legge che indica la felicità e la felicità. L’uomo non è capace di attraversare questo mare15.


 

Duemila anni fa, allora, la felicità è venuta: ecco il paradiso. La felicità è venuta: non più promessa, non più indicata come termine del cammino umano. La felicità è venuta, il paradiso è venuto. È venuto nella carne così che fosse visto, così che fosse toccato, così che fosse abbracciato. Così che Agostino potesse dire: «Io sapevo che la felicità era Dio, ma non godevo di Te [perché non si gode del sapere, si gode quando si è abbracciati], ma non godevo di Te finché umile non abbracciai il mio umile Dio Gesù»16. Questa è l’esperienza della felicità sulla terra: abbracciare umile il mio umile Dio Gesù. Non Dio destino lontano, ma Dio fatto bambino, piccolissimo bambino: così il paradiso, la felicità è venuta incontro, così la felicità si è fatta vicina, così si è fatta a portata di occhi, a portata di cuore, a portata delle mani, delle mani che la possono abbracciare. Il paradiso in terra è Lui: «Fedele è Dio...». Come mi ha colpito prima, recitando i vesperi, questa frase che avevo messo sull’immaginetta della mia ordinazione sacerdotale. Ma le cose si capiscono quando il Signore le fa capire... «Fedele è Dio dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo nostro Signore» (1Cor 1, 9). La comunione è col Figlio suo Gesù Cristo nostro Signore. È la comunione del Figlio suo Gesù Cristo nostro Signore. È Gesù Cristo la felicità dell’uomo. È quell’uomo, nella sua singolarità, direi nella sua individualità17: quell’uomo. La comunione del Figlio suo Gesù Cristo nostro Signore.

 

 

C’è un anticipo di questo paradiso, di questa possibilità di abbraccio, di questa possibilità di familiarità con Gesù Cristo; con il paradiso che ha un nome, un volto, una carne: Gesù Cristo. Questo anticipo è l’Immacolata Concezione. Perché sedici anni prima (avrà avuto quindici anni Maria quando ha concepito Gesù), quando Gioacchino e Anna, in modo naturalissimo – come ciascuno di noi è stato concepito –, hanno concepito questa piccola creatura, questa piccola creatura non è stata segnata dal peccato originale. Da quell’istante, da quel primo istante in cui fu concepita è stata amata. È stata amata. È stata prediletta. È una cosa dell’altro mondo, in questo mondo, che ci sia una creatura che è stata sempre amata. Perché bisogna partire da qui per capire la Madonna: una creatura che è stata sempre amata, che non ha mai avuto la ferita dell’estraneità nei confronti della felicità, che è stata sempre amata dalla felicità che è il Signore, che è stata sempre amata. È stata sempre amata, perché è stata preservata, anche in quel primo istante, dal peccato. Non per lei. Perché anche lei è stata redenta. Maria è redenta come è redento ciascuno di noi dall’unico Redentore. Pio IX quando ha definito il dogma dell’Immacolata Concezione ha riconosciuto due cose: primo, che è redenta, secondo, che è stata redenta in modo unico, in modo più eminente, dice il Concilio ecumenico Vaticano II18, è stata redenta in anticipo, preservata dal peccato originale19. È stata preservata dalla ferita del peccato, cioè è stata sempre amata, per il sangue di suo Figlio, per quel sangue che ha dato lei a suo Figlio. In previsione della morte di suo Figlio, dice il dogma. In previsione di quel sangue versato sulla croce, in previsione di quel sangue che era di suo Figlio e che gli aveva dato lei in quei nove mesi che Lo ha portato nel suo ventre. In previsione di quel sangue che era di Gesù ed era da Maria20. In previsione di quel sangue di Gesù è stata sempre amata, è stata redenta dal primo istante, dal primo istante della sua esistenza preservata dal peccato.

Così sant’Ambrogio descrive, secondo me in un modo mirabile, questa piccola creatura, questa piccola bambina che si chiama Maria. La descrive così: «Virgo erat Maria / Era vergine Maria / corde humilis / ed era umile di cuore / in prece pauperis spem reponens / e poneva tutta la sua speranza nella preghiera del povero, nella domanda del povero»21. Questa creatura, per la sua pienezza di grazia, la pienezza di grazia di cui era stata riempita dal primo istante della sua esistenza, viveva così. Viveva come vergine, cioè come essere sempre amata. La verginità è quella gratuità che l’essere amati dona alla vita. Quella possibilità di gratuità, e quindi di possesso, che l’essere amati in anticipo dona alla vita umana. Viveva come vergine. Dal cuore umile, perché era stata sempre amata. Non si era data lei questo essere sempre amata. Non ci si può dare l’essere amati, si può solo ricevere. Era di cuore umile e poneva così tutta la sua speranza, tutta la speranza della sua vita nella preghiera del povero, nel domandare che questo amore fosse rinnovato in ogni istante, che questa pienezza di grazia fosse rinnovata continuamente. Perché anche in paradiso domanderemo sempre, come l’anno scorso a Colonia in maniera stupenda ha detto il Papa22: anche in paradiso domanderemo sempre. In paradiso domanderemo sempre. Anche nel mistero della Trinità il Figlio riceve sempre tutto l’essere dal Padre e, se così possiamo dire, per sovrabbondanza infinita di dolcezza lo domanda sempre. Tanto è vero che dice: «Il Figlio da sé non può fare niente» (Gv 5, 19. 30). Come mi piace, come mi conforta questa frase di Gesù ripetuta due volte nel Vangelo di Giovanni: «Il Figlio da sé non può fare niente». «Non è possesso geloso» (Fil 2, 6) la sua divinità: è dono perenne la divinità del Figlio di Dio: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre.

 

 

Vorrei adesso accennare a quello che più stupisce dell’accadere del paradiso: «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea chiamata Nazareth a una vergine» (Lc 1, 26-27). A una vergine: quante volte il Vangelo lo ripete! A una vergine: nel cuore e nel corpo; nel corpo perché nel cuore, ma nel corpo! Bisogna accettare la dottrina della fede: che è rimasta sempre vergine nel cuore e nel corpo. Perché è la salvezza della carne questa pienezza di grazia. «A una vergine sposa ad un uomo di nome Giuseppe della casa di Davide. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei le disse: “Gioisci o piena di grazia [“chàire kecharitomène / gioisci o piena di gioia”], il Signore è con te”» (Lc 1, 27-28).

«Virgo Verbum concepit / la Vergine ha concepito il Verbo / Virgo permansit / è rimasta vergine / Virgo genuit Regem omnium regum / la Vergine ha partorito il Re di tutti i re». Questa è l’antifona che da piccolo, quando sono entrato nel seminario di San Pietro martire a Seveso, in quarta ginnasio, alla domenica si cantava ai vesperi nella Basilica dove c’è il coltello con cui questo domenicano è stato ucciso. Il martirio di questo domenicano è stato una cosa sconvolgente per la Chiesa nel Medioevo. In terra cristiana era un fatto straordinario un martirio. Quindi quando Pietro da Verona, venendo da Como a Milano, è stato ucciso nei boschi vicino a Seveso, il suo martirio è stato una cosa sconvolgente per la cristianità di quel tempo23. Dicevo che, entrato in seminario in quarta ginnasio, alla domenica nella Basilica si cantavano i vesperi della Madonna e i vesperi della Madonna nella liturgia ambrosiana terminano con questa piccola antifona: «Virgo Verbum concepit...».

Ha detto fiat, eccomi. «Eccomi, sono la serva del Signore, mi accada secondo la tua parola» (Lc 1, 38). «Eccomi» è una preghiera. «Eccomi, avvenga, accada»: è una preghiera. Perché solo Dio crea, solo il fiat di Dio è creatore. Il fiat di Maria, quel fiat che ha concepito il Figlio unigenito di Dio, quel fiat era una preghiera. Non era eroismo suo, non era capacità sua, era una preghiera: «eccomi, avvenga, accada». «Che accada» è un domandare. E così verginalmente Lo ha concepito, come verginalmente Lo ha partorito. Come è importante la virginitas in partu di Maria. Come è importante accettare la certezza della fede che Lo ha partorito verginalmente. Perché non viene dal travaglio la salvezza! La salvezza viene dalla grazia. La salvezza viene dalla grazia, non viene dal travaglio, la salvezza viene dall’essere amati, non viene dal dolore dell’uomo, la salvezza! Viene dalla felicità di Dio, viene dalla pienezza della felicità di Dio, la salvezza! La salvezza viene dall’essere amati. Che Lo abbia partorito con un parto senza dolore24, che Lo abbia partorito con un parto senza violenza, che Lo abbia partorito verginalmente, cioè nello stupore, è segno che la salvezza viene dall’essere amati. La certezza di fede circa il parto verginale è raccolta da Pio XII nella Mystici Corporis in questa espressione: «Con un parto stupendo». Mentre ciascuno di noi è venuto al mondo in un parto di dolore, quel parto è stato un parto di stupore, senza dolore, senza violenza: perché la salvezza viene dalla grazia. La salvezza non nasce dal peccato, la salvezza non nasce dal deserto: fiorisce nel deserto, fa rifiorire il deserto, ma viene dall’essere amati. L’essere amati nasce dalla felicità di Dio. Si è amati per la sovrabbondanza di felicità che è la Trinità, si è amati per la sovrabbondanza di corrispondenza che è l’eterno Amore del Padre e del Figlio che chiamiamo Spirito Santo. Si è amati per grazia. Il parto di Maria, il parto stupendo di Maria è il segno fisico, è il segno carnale che la salvezza non viene da noi, che la salvezza non viene dal travaglio, che la salvezza non viene dal dolore, che la salvezza non viene dal grido dell’uomo. La salvezza viene per grazia di Dio, felicità infinita, per sovrabbondanza di felicità, per sovrabbondanza di grazia.

 

 

E così la verginità di Giuseppe. E così il fatto che Maria sia rimasta sempre vergine si può intuire per esperienza: non avendo l’esperienza del paradiso, del paradiso sulla terra, non si può intuire che la carità, cioè il paradiso presente, è più potente, è più potente, come attrattiva, della pur naturale attrattiva dell’uomo e della donna. Dice san Tommaso d’Aquino che la carità, come attrattiva, per l’uomo pur ferito dal peccato, è più potente, come intensità di attrattiva e di diletto, che qualunque attrattiva naturale25. La carità è imparagonabile, come attrattiva avvincente, rispetto all’attrattiva naturale dell’uomo verso la donna. Non avendo esperienza di questo, forse, hanno dipinto san Giuseppe come una persona anziana, quasi per difendere così la verginità della Madonna. Invece era il paradiso presente, era il di più presente che rendeva verginale, così umano quel rapporto: nessun uomo ha voluto bene alla sua sposa come Giuseppe ha voluto bene a Maria. Perché era un amore che nasceva dalla felicità, non nasceva da una mancanza, come tante volte è il nostro povero affetto. Quando nasce da una mancanza, l’affetto inevitabilmente è segnato da un’ultima violenza. Nasceva da una pienezza di felicità: questo era l’amore di quell’uomo, di quel povero uomo di nome Giuseppe verso la più bella delle creature che era Maria. Sarebbe stato un di meno se non fosse stato verginale il loro rapporto. Sarebbe stato un di meno. Un di meno di piacere. Era umanamente impossibile non gioire in pienezza del paradiso presente. E questo non elimina nulla dell’umanità. I vesperi di Natale della liturgia ambrosiana si concludono con questa antifona: «Ioseph conturbatus est de utero virginis / Giuseppe fu turbato quando si accorse che il ventre di Maria si ingrossava perché era incinta». Una delle cose a livello esegetico che ha confortato la fede mi è stata suggerita dal povero don Saldarini quando spiegava, in prima teologia, il Vangelo di Matteo che dice che «Giuseppe essendo giusto voleva rimandare Maria in segreto» (Mt 1, 19). Voleva rimandarla non perché dubitasse di Maria, ma perché si era accorto che era presente e agiva il Mistero. La giustizia per gli ebrei, di fronte al Mistero che agisce, consiste nello stare a distanza (cfr. Es 3, 5). Giuseppe non ha dubitato mai di Maria, non ha dubitato quando si è accorto che il ventre di Maria si ingrossava perché era incinta, non ha mai dubitato. Soltanto che, essendo giusto, non voleva interferire col Mistero presente, col Mistero del Dio infinito che si faceva visibile, tangibile nella sua sposa. Allora pensò di licenziarla in segreto. E l’angelo appare a Giuseppe e gli dice: «Non temere, Giuseppe, di prendere con te Maria tua sposa perché quello che è nato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1, 20). Uno dei versetti più belli dell’Inno di Natale di sant’Ambrogio dice: «Non ex virili semine / Non da seme di uomo / sed mystico spiramine / ma per soffio di grazia / Verbum Dei factum est caro / il Verbo di Dio si fece carne / fructusque ventris floruit / e il frutto del ventre di Maria fiorì»26. «Fiorì», come ha detto Giussani il 24 dicembre 2004, due mesi prima di morire: «In quel luogo [Betlemme] fiorì»27. Il ventre di Maria fiorì, il frutto del ventre fiorì.

 

 

Una settimana fa ho suggerito a un giornalista di 30Giorni di telefonare a Gerusalemme al cardinale Martini per chiedere se poteva inviarci una meditazione sul Natale. Subito, dopo ventiquattro ore, il giorno dopo, il cardinale Martini ha mandato da Gerusalemme una meditazione bellissima. Così bella che anche La Stampa di Torino ieri l’ha pubblicata integralmente con richiamo in prima pagina28. È tutta bella questa meditazione del cardinale Martini. C’è una frase che tutto riassume. Se il Natale è così semplice, se è la semplicità di un bambino che nasce, che nasce in modo stupendo, ma che nasce da donna come ciascuno di noi (cfr. Gal 4, 4), se il Mistero è così umano, deve essere umano, deve essere semplice anche il riconoscerlo. La fede non può che essere semplice. Se è venuto in modo così semplice, non può essere venuto per complicarci la vita. Se la felicità è venuta, non può che essere semplice abbracciare la felicità, non può che essere semplice essere contenti abbracciando la felicità. Altrimenti sarebbe bastata la legge per indicare come raggiungere la felicità, come andare in paradiso (cfr. Mt 19, 17). Per questo bastava Mosè (cfr. Gv 1, 17). Sarebbe stato inutile che la felicità stessa venisse, se poi non la si può facilmente, semplicemente abbracciare, se poi non si può facilmente, semplicemente riconoscere. «Mestier non era» direbbe Dante «parturir Maria»29. E infatti per i pastori è stato semplice riconoscerLo. È stato semplice, udito l’annuncio degli angeli, riconoscere quel bambino. Non hanno riconosciuto che era la Seconda Persona della Santissima Trinità fatta uomo. No. Hanno soltanto scoperto che una cosa così bella e una felicità così umana non l’avevano mai provata nella vita. Hanno riconosciuto questo. Di fronte a quel bambino, di fronte a Giuseppe e a Sua madre Maria hanno riconosciuto che un’esperienza così non era mai capitata loro. Hanno riconosciuto che una corrispondenza così al loro cuore non era mai accaduta.

Così voglio leggere un brano, che, secondo me, è uno dei più belli e più riassuntivi di Giussani, in cui dice che cosa è questo rapporto umile con l’umile Gesù, questo abbraccio umile con l’umile Gesù, questo abbraccio umile con la felicità qui sulla terra, questa comunione del Figlio suo Gesù Cristo, questa possibilità di familiarità col Figlio suo Gesù Cristo. Dice Giussani: «Il tuo rapporto con Cristo non deve essere evoluto, scaltro, maturo, perché la tua personalità ne nasca e la tua personalità da esso sappia creare compagnia [sappia volere bene. Quando si è amati gratuitamente si può liberamente cioè gratuitamente volere bene]. Basta la sorpresa che ebbero Giovanni e Andrea [che sono stati i primi due che, all’inizio della Sua vita pubblica, Lo hanno incontrato], che non capivano niente [che non capivano niente eppure avevano capito tutto, tanto è vero che Andrea incontra il fratello Pietro e gli dice: «Abbiamo trovato il Messia» (Gv 1, 41). Ciò che attendevano, l’avevano trovato, e quindi tutto, perché ciò che attende il cuore è tutto, e quindi avevano capito tutto. Basta la sorpresa che ebbero Giovanni e Andrea, che non capivano niente]; basta la sorpresa, basta l’accenno di devozione, basta lo stupore. Più precisamente: basta il chiederlo...»30. È stato così anche per i Magi. Com’è bello il fatto dei Magi che partono non per un annuncio. I pastori corrono a Betlemme perché gli angeli annunciano, quindi vanno per una parola ascoltata. Invece i Magi vanno per un indizio intravisto. «Sic Magi ab ortu solis / per sideris indicium»: così l’inno Mysterium Ecclesiae dei vesperi della Madonna che, bambino, cantavo alla domenica nel seminario di San Pietro martire. Per un indizio, per l’indizio di una stella. Come dice il cardinale Martini nell’articolo di 30Giorni che vi invito a leggere. Bastano piccoli indizi per credere, tanto è vero che Giovanni quando corre al sepolcro la mattina di Pasqua crede vedendo soltanto la sindone ripiegata in un modo tale che faceva intravedere che il Signore era risorto: è stato questo piccolo indizio. I Magi partono per un piccolo indizio, una stella, e continuano il viaggio seguendo questa stella. Ma a un certo punto la stella non la vedono più. Ed è bellissimo che, non vedendola più, domandano. Quando non si vede più la stella, non si può fare altro che domandare. Non possiamo possedere noi la grazia, non la possiamo possedere. Non è una scienza che si possiede. Quando non si vede più la grazia che precede si può solo domandare. Hanno domandato, hanno domandato persino a Erode, hanno solo domandato. Si segue la grazia, e quando la stella della grazia non è evidente si può solo domandare. E poi – «videntes stellam Magi gavisi sunt gaudio magno valde»31 (cfr. Mt 2, 10) – quando l’hanno rivista, come nuovo inizio, quando l’hanno rivista (le parole della liturgia non sanno come esprimere questa gioia di un nuovo inizio, perché è ancora più bella questa gioia, «gavisi sunt gaudio magno valde») hanno gioito di una gioia, di una gioia più grande ancora, di una gioia più bella ancora. Continua Giussani: «Più precisamente: basta il chiederlo [perché lo stupore lo fa chiedere], basta quell’embrionale percezione di quel che Lui è che te lo fa chiedere, per cui lo chiedi»32. Per iniziare l’esperienza della felicità sulla terra, per abbracciare la felicità sulla terra, per abbracciare, umile, l’umile mio Gesù, basta quell’embrionale percezione per cui Lo chiedi, quell’embrionale stupore, quell’embrionale dolcezza per cui Lo domandi. Basta questo per iniziare sulla terra ad abbracciare la felicità.

 

 

E così finisco suggerendo una cosa che è l’ultima cosa che il Signore mi ha dato di intuire come passo di un cammino che Lui dona. Perché Lui dona le cose a suo tempo, a suo tempo! Non si può anticipare nulla, si può solo ringraziare delle cose che accadono. E le cose che accadono, mentre accadono, rendono evidente quel filo d’oro che è la predilezione del Signore. Predilezione che comincia dal venire al mondo, e da quel venire alla vita di grazia che è il battesimo, per cui diventa bellissimo anche il venire al mondo. La gratitudine verso il padre e la madre che ti hanno messo al mondo, che mi hanno messo al mondo, è imparagonabilmente resa più semplice, più cara, più vicina quando mi accorgo che è attraverso loro che sono stato portato al fonte battesimale. E dopo il battesimo, come mi ha raccontato una volta la mia povera mamma – anzi, l’ha raccontato alle mie sorelle che poi me l’hanno raccontato –, dopo il battesimo mi ha portato all’altare della Madonna per offrirmi alla Madonna. È imparagonabile l’affetto che uno ha verso sua madre che gli ha dato la vita, conoscendo questo gesto così cristiano e così umano di offrire il primo figlio che aveva alla Madonna.

Voglio dire che quando la vita si riconduce a preghiera e quindi si riconduce al fatto che «di me ha cura il Signore» (Sal 39, 18) – perché la preghiera, quell’abbraccio che si rinnova umile all’umile Gesù, dona alla vita questa serena sicurezza del bambino che «di me ha cura il Signore» – e quando questo «di me ha cura il Signore» abbraccia veramente la nostra povera persona, allora uno inizia a scoprire che il Signore ha cura di tutti. E allora la misericordia verso tutti diventa come l’ultima grazia, come l’ultimo cammino di grazia che il Signore dona. Perché tante volte ho ripetuto con gratitudine fino alla commozione delle lacrime che «di me ha cura il Signore». Ma può essere come quando si è bambini, non bambini piccoli piccoli, ma bambini di cinque, sei, sette anni, che si gioca e si vuole vincere (e questo è proprio dell’uomo, è desiderio naturale dell’uomo il vincere, e questo desiderio naturale sarà perfetto in paradiso. «Infelici quelli che» dice sant’Agostino «preferiscono la lotta continua alla vittoria, mentre si può lottare solo per vincere»33). Quando si è bambini di quattro, cinque, sei anni si vuole vincere, ma si vuole anche che gli altri perdano, si vuole anche che gli altri siano sconfitti. Invece quando si è piccoli piccoli, quando si è piccoli piccoli si vuole solo vincere. Quando piccoli piccoli ci si addormenta in braccio al papà e alla mamma non si può avere neppure il problema che gli altri perdano, che gli altri siano sconfitti. E questo è l’inizio di quel «siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6, 36) «che fa sorgere il sole sui giusti e gli ingiusti» (Mt 5, 45) e dona la vita, e nella sua misericordia, magari nell’istante ultimo, la vita eterna anche alle persone più cattive. «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro». E questo nasce dal fatto di essere così amati, nasce dal fatto che «di me ha cura il Signore». Se ha veramente cura dell’anima e del corpo – perché ha cura di tutto il Signore, «di me ha cura il Signore» –, allora come è bello che abbia cura di tutti! Come è bello, come dice Manzoni ne La Pentecoste, come è bello che «sia divina ai vinti mercede il Vincitor», che non ci sia nessuno sconfitto in modo cattivo, ma che tutti siano vinti da questo essere così amati, vinti da questa felicità alla portata di occhi, alla portata di cuore, alla portata di abbraccio. Che «sia divina ai vinti mercede il Vincitor», ai vinti sia divino premio il Vincitore, la felicità stessa, il Vincitore, Colui che solo vince, che solo ha vinto perché solo avvince, avvince il cuore come sommo piacere, Colui che solo avvince in pienezza di corrispondenza il cuore e in paradiso lo avvince per sempre.

 

 

Finisco leggendo un brano di Agostino sulla bellezza di Gesù: «Per noi dunque che Lo riconosciamo, il Verbo di Dio ci venga incontro in ogni occasione bello / pulcher Deus, Verbum apud Deum, / bello quale Dio, Verbo presso Dio, / pulcher in utero virginis, / bello nel ventre della Vergine, dove non abbandonò la divinità e assunse l’umanità, bello bambino appena nato; perché, anche mentre era bambino che succhiava il latte e mentre veniva portato in braccio, di Lui i cieli hanno parlato, Lui piccolo bambino gli angeli hanno lodato, a Lui una stella ha condotto i magi, Lui è stato adorato nella mangiatoia, cibo dei miti. Bello dunque in cielo, bello in terra; bello nel ventre di Maria, bello preso in braccio dai genitori [da Maria e Giuseppe], bello nei miracoli, bello anche nella flagellazione. [Sì, anche nella flagellazione perché – dice Agostino – nella flagellazione, quando era tutto sfigurato, se consideri perché era diventato così, perché si era lasciato battere dai flagelli così, se consideri la misericordia per cui per te, per tuo amore si era fatto ridurre così, è bello anche nei flagelli. Quando Maria Lo ha preso in braccio sotto la croce morto («vidit suum dulcem Natum morientem desolatum / ha visto il suo dolce nato, dolce figlio, morire solo, solo sulla croce»34), quando Lo ha preso in braccio, non c’era cosa più bella di quel suo figlio, di quel suo figlio sfigurato. Così quando il buon ladrone gli ha detto: «Gesù, ricordati di me quando sarai in paradiso» (Lc 23, 42), non aveva mai in tutta la vita incontrato una cosa così bella come in quel momento, nel momento della morte, quando si è sentito dire: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23, 43)]. Bello nei miracoli, bello nella flagellazione, bello quando invitava a seguirlo, bello quando non ha di­sdegnato la morte, bello quando è spirato, bello quando è risorto / pulcher in ligno, pulcher in sepulcro, pulcher in coelo / bello sulla croce, bello anche nel sepolcro, bello nel cielo»35.

Grazie.

 

 

Note

1 Cfr. Benedetto XVI, omelia nella santa messa a Colonia il 21 agosto 2005, in Tutti i discorsi di Benedetto XVI a Colonia, supplemento a 30Giorni, n. 9, settembre 2005, pp. 31-35.

2 Ambrogio, inno Grates tibi, Iesu, novas; cfr. Antico Breviario Ambrosiano, in festo sanctorum Gervasii et Protasii martyrum (19 giugno).

3 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III q. 9 a. 2.

4 Dante, Paradiso XXXIII, 33.

5 Agostino, Sermones 241, 2.

6 Cfr. Ch. Péguy, Eva, Città Armoniosa, Reggio Emilia 1991, p. 13.

7 Cfr. Agostino, De civitate Dei XIV, 15, 1.

8 Cfr. Agostino, Contra Iulianum opus imperfectum VI, 21.

9 Cfr. Agostino, De Trinitate XIV, 8, 11.

10 Ibid.

11 Agostino, Confessiones VIII, 5, 12.

12 Ibid.

13 Cfr. Agostino, In Evangelium Ioannis XXVI, 4.

14 Agostino, Confessiones X, 22, 32.

15 Cfr. Agostino, In Evangelium Ioannis II, 4.

16 Agostino, Confessiones VII, 18, 24.

17 Cfr. L. Giussani, «“A me pare che non cerchino Cristo”», in L’attrattiva Gesù, Bur, Milano 1999, p. 148.

18 Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 53; Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 30 giugno 1968.

19 Pio IX, bolla Ineffabilis Deus (Denzinger 2803).

20 Cfr. Liturgia delle ore, solennità di Maria Santissima Madre di Dio, Ufficio delle letture, seconda lettura: dalle Lettere di sant’Atanasio vescovo.

21 Ambrogio, De virginibus II, 2; cfr. Antico Breviario Ambrosiano, in festo Praesentationis Beatae Virginis Mariae (21 novembre), ad Matutinum, lectio III.

22 Cfr. Benedetto XVI, incontro con i vescovi della Germania a Colonia il 21 agosto 2005, in Tutti i discorsi di Benedetto XVI a Colonia, op. cit., pp. 39-45.

23 Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera al cardinale arcivescovo Carlo Maria Martini nel 750° anniversario del martirio di san Pietro da Verona, 25 marzo 2002.

24 Cfr. Antico Breviario Ambrosiano, in festo Septem Dolorum Beatae Mariae Virginis (15 settembre), antiphona ad Laudes: «Maria virgo quos in partu dolores effugerat...»; innoDum vitam in ara Golgothae: «Mater doloris nescia / Gavisa partum viderat».

25 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II-II q. 23 a. 2.

26 Ambrogio, inno Veni Redemptor gentium; cfr. Antico Breviario Ambrosiano, in Nativitate Domini.

27 L. Giussani, Un Essere nuovo in quel luogo fiorì, in G. Tantardini, Memoria di incontri, in 30Giorni, n. 3, marzo 2005, p. 42.

28 C. M. Martini, Presepio, un piccolo segno che ci invita a credere, in La Stampa, 19 dicembre 2006, p. 47; Id., Semplicità del Natale, in 30Giorni, n. 11, novembre 2006, pp. 47-54.

29 Dante, Purgatorio III, 39.

30 L. Giussani, «Riandare al primo incontro», in L’attrattiva Gesù, op. cit., p. 23.

31 Antico Breviario Ambrosiano, in Epiphania Domini, ad Vesperas, psallenda II.

32 L. Giussani, «Riandare al primo incontro», in L’attrattiva Gesù, op. cit., p. 23.

33 Agostino, De vera religione 53, 102.

34 Iacopone da Todi, Stabat Mater; cfr. Chi prega si salva, 30Giorni, Roma 2001, p. 60.

35 Agostino, Enarrationes in psalmos 44, 3.



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