Rubriche
tratto dal n.02 - 2004


Carte per l’evangelizzazione dell’Africa


Fidel González Fernández, IDaniele Comboni e la rigenerazione dell’Africa. “Piano”, “Postulatum”, “Regole”/I, Urbaniana University Press, Roma  2003, 390 pp., euro 18,00

Fidel González Fernández, IDaniele Comboni e la rigenerazione dell’Africa. “Piano”, “Postulatum”, “Regole”/I, Urbaniana University Press, Roma 2003, 390 pp., euro 18,00

La vita missionaria di Daniele Comboni (1831-1881), primo vescovo effettivo dell’Africa centrale, a favore dei popoli africani coincide con uno dei periodi più controversi dell’Africa moderna. Nel secolo XIX l’intero continente è pervaso da tensioni e contraddizioni di ogni genere: esplorazioni, conflitti fra le potenze per il suo dominio, confronto con il mondo musulmano, tratta degli schiavi, lotte tribali.
In questo scenario si colloca il movimento missionario della Chiesa cattolica di cui Comboni è uno dei padri. Egli propone un piano globale per l’evangelizzazione dell’Africa che vede gli africani quali soggetti attivi. Rifonda quindi la missione con l’appoggio di Pio IX e, contro il parere di molti ambienti ecclesiastici e secolari, promuove un importante movimento missionario fondando diverse opere e istituti.
Il volume introduce a questa esperienza ecclesiale attraverso lo studio e la presentazione di alcuni documenti fondamentali del Comboni inquadrati nel loro contesto storico.
L’ambito cronologico preciso di questi documenti, significativi per l’intera storia missionaria della Chiesa cattolica moderna e chiamati “Carte per l’evangelizzazione dell’Africa”, va dal 1864 al 1871, quando le potenze europee non si erano ancora spartite l’Africa. Esperto in tematiche storiche africane, l’autore del volume, padre Fidel González Fernández, attualmente rettore maggiore del Pontificio Collegio Urbano di Propaganda Fide e docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Università Urbaniana e presso la facoltà di Storia della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana, esamina e ripercorre con tratto analitico tutti e tre i singoli documenti: il Piano per la rigenerazione dell’Africa, scritto dal Comboni nel settembre del 1864, il Postulatum pro Nigris Africae Centralis, presentato dal Comboni ai padri del Concilio Vaticano I nel 1870, e la stesura delle Regole che il missionario, dopo la nascita travagliata dell’istituto da lui fondato, dettò nel 1871. L’autore, evidenziando la portata storica e l’importanza innovativa che rappresentano questi documenti nel contesto della Chiesa dell’epoca, fa emergere al contempo come la vita apostolica di Comboni esprima una profonda passione per Cristo, per la Chiesa, per il Vangelo e per gli africani, trattati allora in maniera scandalosamente discriminatoria. Questi scritti infatti contribuiscono a lumeggiare la particolare fisionomia di questo grande apostolo che lo scorso 5 ottobre è stato canonizzato. «Se c’è una parola che può definire sia il temperamento sia la vita del missionario Daniele Comboni è precisamente la parola “passione”» afferma l’autore nella Prefazione al testo. «Essa ha un valore preciso: esprime da una parte l’intensità della vocazione missionaria africana di Comboni e dall’altra anche i condizionamenti, le passioni umane, lo stile caratteristico di questo missionario, successore degli apostoli, “alla Paolo” e “alla Pietro” come missionario e come vescovo. Ma il suo stesso temperamento è stato definito allo stesso tempo “passionale” e “sanguineo”: tali caratteri si ritrovano nella sua storia personale e nella sua convinta adesione senza misure alla vocazione ricevuta in favore della missione». «Daniele Comboni» conclude pertanto Fidel González Fernández «appare in questo quadro come un vero “gigante” cristiano, un uomo afferrato dalla grazia di Cristo dove egli ha messo totalmente in gioco la sua libertà con piena e consapevole adesione. Tale, ci sembra, sia il cuore della sua santità».
Stefania Falasca




Pio XII e la neutralità della Chiesa


Philippe Chenaux, IPie XII. Diplomate et pasteur/I, Les Éditions du Cerf, Paris 2003, 462 pp., euro 28,00

Philippe Chenaux, IPie XII. Diplomate et pasteur/I, Les Éditions du Cerf, Paris 2003, 462 pp., euro 28,00

Perché ancora un libro su Pio XII? Perché aggiungere un altro titolo alla bibliografia già sterminata che lo riguarda? Philippe Chenaux, professore di Storia della Chiesa moderna e contemporanea all’Università Lateranense, lo spiega subito, con chiarezza: per la grandissima parte gli scritti precedenti, oltre a macchiarsi di parzialità, denigratoria da una parte, agiografica dall’altra, prendono in considerazione della vita del Papa solo gli anni della Seconda guerra mondiale, incentrandosi sulla questione ebraica, decontestualizzata rispetto sia alla sua intera vicenda di vita e di pensiero sia all’insieme dei problemi con cui la politica della Chiesa si confrontò durante il suo papato. Occorreva dunque una biografia, minuziosamente basata sui documenti, che ripercorresse tutte le tappe della vita di Pio XII: la formazione, l’attività diplomatica svolta sotto Leone XIII, Pio X, Benedetto XV e Pio XI, e infine il pontificato, durante e dopo il conflitto. Ed è questa ricostruzione globale che l’autore si è proposto, avvalendosi anche della possibilità di disporre dei documenti degli Archivi vaticani relativi ai rapporti con la Germania sotto Pio XI, desecretati all’inizio del 2003 in anticipo rispetto ai tempi canonici. Una biografia "politica", comunque, perché appare impossibile penetrare il "privato" di un Papa che, a differenza dei suoi successori, non ha lasciato nessun documento personale — lettere, diari, appunti — che consenta di rintracciarne i sentimenti e le emozioni, di disvelare una riservatezza divenuta quasi leggendaria.
La ricostruzione di Chenaux parte ancora prima della nascita di Eugenio Pacelli, dalla storia della sua famiglia, esponente dell’aristocrazia "nera" nella Roma del dopo 1870, e segue poi tutto il percorso dell’educazione e della formazione spirituale del futuro Papa, prima liceale al laicissimo Visconti e poi seminarista al Capranica e all’Apollinare. Lungo questo iter si delinea un tratto che rimarrà costante in Pio XII: la sua "romanità", intesa come quel misto di apertura all’universale, bonarietà, pragmatismo e mentalità giuridica che appariva caratteristica saliente del clero romano dei suoi tempi.
Un altro concetto fondamentale, a cui si informerà l’operato di Pio XII, si radica invece negli anni in cui Pacelli, ordinato sacerdote nel 1899, diede inizio alla sua carriera di diplomatico nella Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari, inizialmente sotto la guida di Pietro Gasparri, futuro segretario di Stato. Si tratta dell’affermazione della sovranità internazionale della Chiesa, della sua indipendenza, in sostanza della sua libertà, in un quadro reso incerto dalla perdita di ogni riferimento territoriale. Una Chiesa al di sopra di tutti gli Stati, non straniera per nessuno dei popoli, ma al contempo estranea agli interessi particolari di ciascuno di essi. Era questa la linea su cui si muoveva la diplomazia vaticana di quel periodo e il giovane diplomatico svolse un ruolo determinante in questo ambito, con i suoi interventi a proposito dell’abolizione del diritto di veto nel conclave, della legge di separazione fra Chiesa e Stato in Francia, dell’elaborazione del Codice di diritto canonico, del negoziato per il Concordato con la Serbia.
Sulla stessa direttrice si pone la posizione di assoluta imparzialità assunta dalla Santa Sede nei confronti dei belligeranti allo scoppio della Prima guerra mondiale: un’imparzialità che non significava naturalmente indifferenza e che al contrario si accompagnava all’espletamento di ogni sforzo per promuovere il ristabilimento della pace. L’attività in tal senso di Pacelli, nominato nel 1914 segretario della Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari, fu intensa. A questa impostazione di imparzialità e mediazione, sulla base dell’affermazione di un’autorità morale superiore, Pio XII si mantenne fedele nel conflitto mondiale successivo, pur avendo potuto sperimentare in prima persona la delusione dei fallimentari tentativi di pace operati da Benedetto XV, culminati con l’inascoltata nota ai capi di Stato dell’agosto 1917.
Terminata la guerra, Pacelli fu nunzio apostolico presso il Reich, impegnato in ambito diplomatico nella stesura del Concordato prima con la Baviera, poi con la Prussia. Nel 1919 nel corso dei moti spartachisti, che tentarono di instaurare in Germania un regime di tipo sovietico, la nunziatura venne presa d’assalto e Pacelli stesso minacciato con le armi: un episodio, secondo Chenaux, che seppure da non sopravvalutare può aver contribuito a rendergli in qualche modo più concreta e tangibile la minaccia comunista. Negli anni seguenti, della questione sovietica Pacelli ebbe a occuparsi intensamente in occasione dei colloqui che avrebbero dovuto preparare un accordo fra Chiesa e Cremlino, inizialmente sollecitato dalle autorità sovietiche e poi abbandonato quando l’Urss ottenne un più vasto riconoscimento internazionale. L’opinione finale che Pacelli trasse da questa serie di contatti fu che il governo di Mosca non avesse altro obiettivo che distruggere ogni credo religioso "in quel Paese oppresso e infelice". Se l’anticomunismo di Pacelli andava assumendo radici sempre più profonde, altrettanto negativi furono da subito, già ai giorni del tentativo di colpo di Stato del 1923 a Monaco, i suoi giudizi sul nazionalismo di Hitler, definito "forse l’eresia più pericolosa della nostra epoca".
Furono i regimi totalitari e la loro crescente potenza la tragica realtà con cui Pacelli dovette misurarsi negli anni in cui fu segretario di Stato di Pio XI. A fronte del pericolo bolscevico, la linea inizialmente seguita nei confronti della Germania di Hitler fu quella della concertazione, cercando di estendere alla situazione tedesca il modello stilato in Italia dai Patti lateranensi. Si giunse così rapidamente, nello stesso 1933, al Concordato con il Reich, ma la speranza di disporre, attraverso questo trattato, di una base giuridica per arginare le sopraffazioni naziste si dimostrò subito illusoria. Eppure la condanna esplicita dei principi ideologici del nazionalsocialismo tardò ad arrivare, non perché non ne fossero chiari i fondamenti neopagani ma perché il segretario di Stato non voleva che tale condanna potesse essere confusa con una presa di posizione politica, nociva all’indipendenza della Chiesa. Anche dopo la pubblicazione dell’enciclica Mit brennender Sorge contro il nazismo, seguita pochi giorni dopo dalla ivini Redemptoris contro il comunismo, Pacelli non volle escludere l’opportunità di servirsi della Germania hitleriana contro la minaccia comunista, che le violenze anticattoliche perpetrate nella Guerra di Spagna rendevano ancora più incombente, e continuò a tentare la via della distensione. L’unica peraltro che gli sembrava possibile per salvaguardare i cattolici tedeschi.
Eletto papa nel 1939, quando già lo spettro della guerra gravava sull’Europa, Pio XII ebbe come prima preoccupazione quella di cercare, riprendendo la linea che era stata di Benedetto XV, di salvare la pace. I metodi furono analoghi: ribadire l’assoluta imparzialità della Chiesa, adoperarsi nell’opera di mediazione. Da ciò nacquero la proposta di colloqui a cinque nella primavera del 1939 e negli anni seguenti le pressioni per convincere l’Italia a non entrare in guerra o l’Inghilterra a trattare una pace separata dopo l’occupazione della Francia. Derivarono da questa impostazione anche le mancate condanne dell’invasione dell’Albania, della Polonia e poi del resto d’Europa: quei "silenzi" che già a quel tempo suscitarono riserve e critiche e sui quali poi si sono puntati con tanta veemenza gli strali dei detrattori di Pio XII. Chenaux insiste a lungo sul fatto che alla base di quello che oggi appare come un eccesso di prudenza non vi fossero la presunta germanofilia di Pacelli e neanche il suo timore del comunismo, bensì la ferma convinzione che l’autorità della Chiesa non le consentisse di parteggiare per nessuno dei contendenti e che comunque non dovesse essere messa a repentaglio la salvezza dei cattolici dell’una o dell’altra nazione.
Naturalmente il più discusso di questi silenzi è quello sulla Shoah. Più volte, e in particolare nel discorso di Natale del 1942, il Papa parlò delle "centinaia di migliaia di persone che senza colpa alcuna e talvolta solo a causa della loro nazionalità o della loro razza sono stati votati alla morte o allo sterminio progressivo", ma non giunse mai all’aperta deprecazione della persecuzione contro gli ebrei perpetrata da Hitler. Non fu questione di antisemitismo, ché nulla nelle azioni e nelle parole di Pio XII può giustificare una tale accusa, al di là di una certa diffidente riserva che era comune a tutta la Chiesa preconciliare, né tantomeno di filonazismo, ché il giudizio negativo sulla criminalità dei dirigenti nazisti era assoluto. Si trattava invece della volontà di evitare "mali ancora più grandi", pregiudicandosi altresì la possibilità di agire in concreto in aiuto dei perseguitati. Aiuto in cui la Chiesa, per espressa volontà del Papa, si prodigò.
La guerra finì e la Chiesa di Pio XII imboccò con decisione la strada del sostegno alla ricostruzione dei regimi democratici, visti come gli unici garanti dei valori umani fondamentali di dignità, libertà, uguaglianza. Ecco dunque l’appoggio ai partiti democratici d’ispirazione cristiana, la Dc in Italia, l’Mrp in Francia, la Cdu-Csu in Germania, sui quali doveva confluire l’adesione unitaria dei cattolici, per erigere, nel clima crescente di guerra fredda, un baluardo efficace contro l’avanzata delle sinistre. Sulla stessa linea l’auspicio che questi partiti si collegassero fra loro, a costituire un’"Internazionale" cattolica. Una politica che portava anche alla ribalta la questione dell’apostolato dei laici e della possibilità che esso potesse assumere un grado di marcata autonomia rispetto alle strutture ecclesiastiche.
Un ultimo aspetto, che Chenaux mette in risalto dell’attività politica di Pio XII, è il suo impegno a favore di un’Europa unita, "edificata non sulla soddisfazione di necessità economiche, ma sulla percezione di valori spirituali comuni", un’Europa capace di superare rivalità secolari per farsi garanzia di pace, di libertà, di sicurezza. Un messaggio che a distanza di cinquant’anni appare quanto mai attuale.


Serena Ravaglioli




La Madonna nella fede degli indios


Marcelo Enrique Méndez,
IMaria nella prima evangelizzazione. Tucumán e Río de la Plata (Latino - America 
1520-1620)/I, Edizioni Porziuncola, Assisi 2001, 190 pp.,  euro 9,00

Marcelo Enrique Méndez, IMaria nella prima evangelizzazione. Tucumán e Río de la Plata (Latino - America 1520-1620)/I, Edizioni Porziuncola, Assisi 2001, 190 pp., euro 9,00

«Nessuno ignora che la devozione del popolo argentino a colei che è la Madre di Dio e Madre degli uomini, sia stata intensa fin dai primi giorni della evangelizzazione, però crediamo che furono pochi, forse pochissimi, quelli che sapevano tutti i fatti concreti che dettero fondamento a quella realtà». La documentazione e la presentazione di tali fatti, per la prima volta raccolti e pubblicati, è lo scopo di questo singolare testo che intende mostrare come le testimonianze mariane, dal primo secolo di evangelizzazione a oggi, parlano dell’amore e della devozione a Maria di un popolo, quello dell’antico Tucumán e del Río de la Plata, che più avanti sarà chiamato argentino. Lo studio, rigoroso e ben articolato, condotto dal francescano padre Marcelo Enrique Méndez, specializzato in Teologia dogmatica e attualmente officiale e segretario-docente dello “Studium” della Congregazione delle cause dei santi, prende avvio dal primo periodo della presenza missionaria in questi luoghi, muovendosi all’interno di due date orientative: dal 1520, anno in cui si documenta la prima celebrazione eucaristica nelle terre del Río de la Plata, al 1620, anno della creazione della diocesi di Buenos Aires. L’autore ci fa addentrare nel lavoro di quei primi missionari, evidenziando le vie dell’annuncio del Vangelo e facendo emergere come i diversi ordini religiosi si adoperarono per presentare un Dio diverso da quello che gli indios adoravano e per descrivere le realtà vitali del cristianesimo e i contenuti teologici con ogni possibile attrattiva. In questa prospettiva egli mette in luce il culto e la devozione a Maria, che per la sua partecipazione alla storia della salvezza raduna e riflette in sé i dati della fede, e lascia scoprire come la venerazione alla Madre di Dio trasmessa dai missionari venne facilmente accolta dagli indios, tanto da affermare che la devozione radicata con più forza nell’animo del popolo fu proprio a Lei, poiché in Lei questo popolo seppe scoprire la filiazione divina.
La retta dottrina nella diffusione della fede per mezzo di Maria si evince soprattutto dalla disamina dei catechismi promulgati e diffusi dai vari sinodi sudamericani dal XVI al principio del XVII secolo. La rassegna dei testi di dottrina, che costituisce il corpo centrale del volume, è in questo senso particolarmente interessante. Questi catechismi, inclusi i manuali di pietà, con il culto e le invocazioni alla Vergine, riflettono il modo di pregare insegnato tanto agli adulti quanto ai piccoli. I primi frati insegnarono il canto e inculcarono la devozione, mettendo «in canto piano e grazioso» il segno della croce, il Padre nostro, il Credo, l’Ave Maria, la Salve Regina. Il primo lavoro dottrinale che porta il nome del Tucumán, promulgato, sulla base di quello di san Pio V, da un vescovo francescano, risale al 1598. Ai francescani, che arrivarono per la prima volta al Río de la Plata nel 1538, si devono le traduzioni di queste doctrinas in lingua quechua e aimara. Méndez sottolinea come le doctrinas cristianas del Sud America rivelano la forza dell’impulso dato dalla Chiesa alla dottrina e alla devozione mariana, più di quelle elaborate nella Spagna, e riferisce come la proclamazione insistente della maternità, della verginità e della purezza di Maria sia entrata a far parte dell’intima identità di questo popolo. Ai francescani, e ai gesuiti poi, si deve la diffusione della devozione teologica all’Immacolata Concezione di Maria. E non sono pochi i santuari ad essa dedicati. Come quello nella città di Salta, nell’estremo nord dell’antica diocesi del Tucumán, dove si venera un’immagine dell’Immacolata Concezione, conosciuta come la Virgen del Milagro. «Questo privilegio era conosciuto e amato molti secoli prima della sua definizione dogmatica» afferma l’autore; «ciò significa, così come pure dimostrano i tanti santuari mariani, le innumerevoli immagini e le molte festività della Madonna, che questo popolo è stato forse il più favorito dallo spirito evangelizzatore della Vergine Maria e bisogna sottolineare che, seppur l’insegnamento della dottrina sia stato fin dall’inizio nelle mani degli europei, i titoli mariani, da cui prenderanno nome i santuari non derivano dalla Spagna, sono autoctoni e propriamente originali».
La rassegna dei titoli e dell’iconografia mariana in queste terre completa il volume, dimostrando come il culto e la pietà devota verso Maria sia diventata parte integrante della vita di un popolo che manifestava spontaneamente, senza suggerimenti o imposizioni dall’esterno, un affetto e una fede semplice ma profonda. La diffusione del Vangelo è avvenuta all’insegna della devozione mariana, e proprio la mediazione della Vergine Maria ha permesso a quelle popolazioni di accogliere la fede cristiana. «Si tratta dunque» conclude Méndez «di una evangelizzazione in chiave mariana e di una mediazione salvifica che porta i tratti dolcissimi della materna mediazione della Vergine Immacolata». Un aspetto che merita di essere considerato nell’anno in cui si celebrano i centocinquanta anni dalla proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione.
Stefania Falasca



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