Rubriche
tratto dal n.06 - 2005


Ceca, ma così lungimirante


La Ceca più di cin­quant’anni fa, nel 1952, nacque come nuovo soggetto finalizzato a regolare il mercato del carbone e dell’acciaio, due fattori strategici della tradizionale politica di potenza europea, grazie all’intuizione di statisti come Schuman, Adenauer e De Gasperi. La vicenda della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (1952-2002) viene raccolta nel volume curato da Ruggero Ranieri e Luciano Tosi, con riguardo soprattutto agli esiti del Trattato in Europa e in Italia. Sul piano storiografico il libro ha il grande merito di fissare passaggi, date, uomini che hanno contribuito a fare la storia dell’Europa anche attraverso un Trattato di cento articoli, con tre Annessi e tre Protocolli, siglato a Parigi il 18 aprile del 1951, entrato in vigore il 25 luglio 1952.
I contributi di studi, offerti in un convegno internazionale del 2002 e di cui costituiscono gli atti, sono coordinati da una efficace introduzione dei curatori del volume che colloca gli interventi della Comunità in un quadro di riferimento soprattutto economico-industriale, con ripercussioni sulla industria siderurgica europea.
La partecipazione dell’Italia alla Ceca viene collocata nel quadro dei nuovi indirizzi di politica estera inaugurati nel Paese nel secondo dopoguerra, che davano largo spazio alla cooperazione. Attraverso la politica di cooperazione europea, Alcide De Gasperi mirò, oltre che a realizzare l’unità federale dell’Europa, a migliorare il ruolo del Paese sul piano internazionale, a rafforzarne la democrazia, a favorirne lo sviluppo perseguendo alcuni tradizionali obiettivi dell’Italia: la liberalizzazione degli scambi commerciali, la ricerca di sbocchi per l’emigrazione e la crescita delle aree depresse. Basta leggere il bel saggio di Daniela Preda, dell’Università di Genova, su “De Gasperi, la Ceca e la scelta europea dell’Italia” per rendersi conto dello sforzo compiuto dallo statista trentino, tra la fine degli anni Quaranta e il lancio del Piano Schuman, per “costruire” una sensibilità europea a livello popolare, nonostante l’ostilità dell’industria privata e di alcuni settori della burocrazia (la Preda è autrice di un volume di ottocento pagine, Alcide De Gasperi federalista europeo, recentemente edito dal Mulino). Accanto a lui, grandi figure come Paolo Emilio Taviani – che guidò la delegazione italiana per il negoziato –, Luigi Einaudi, Ugo La Malfa, Niccolò Carandini, Tommaso Gallarati Scotti. La scelta europea del governo italiano non trascurò comunque gli interessi economici e sociali italiani nella convinzione – rivelatasi positiva – che solo attraverso una politica di cooperazione internazionale si sarebbe favorita la soluzione dei problemi strutturali del Paese. Unione europea e interessi economici italiani coincidevano. Nonostante alcune resistenze e le disaffezioni del mondo politico italiano verso la Ceca, gli effetti positivi dell’azione della Comunità sull’Italia non tardarono a farsi sentire, soprattutto sul piano economico e finanziario e della politica industriale, oltre che sul versante prettamente sociale. Nel tempo, la “scommessa europea” e internazionale di alcuni leader illuminati è risultata vincente; la cessione di parte della propria sovranità in materia economica ha costituito la premessa per la ripresa economica e politica dell’Italia. È, del resto, ancora la scommessa di oggi, la sfida attualmente presente. La scelta coraggiosa, e per alcuni versi rivoluzionaria, di sperimentare, oltre mezzo secolo fa!, un modello di relazioni internazionali ancora per larga parte sconosciuto e fortemente avversato, ha aperto la strada a feconde realizzazioni comunitarie, attraverso la libera adozione di regole e istituzioni comuni. E ha fatto emergere una nuova realtà internazionale, l’Unione europea, che assicura ai popoli del vecchio continente pace, democrazia e benessere.




Nel nome del padre


Credo di poter dire che da ogni parola di Virgilio Angelo Galli, da ogni riga di “…Qualcosa del padre…” trasudano sentimenti di amore e affetto veri verso don Zeno, lo storico fondatore della città di Nomadelfia. Sono parole di un figlio verso il padre, cariche di riconoscenza, non enfatiche, essenziali perché nascono dal cuore. C’è tutta una straordinaria pagina di storia recente ricostruita attraverso documenti e commoventi ricordi personali; alcune pagine sono intrise di tristezza e rimpianto per un’esperienza costruita in mezzo a mille difficoltà e incomprensioni: il Sant’Uffizio il 5 febbraio del 1952 comanderà a don Zeno di ritirarsi dalla Comunità di Nomadelfia, e lui obbedirà. Ridotto allo stato laicale, verrà riabilitato nelle funzioni sacerdotali nove anni dopo, nella diocesi grossetana. Galli racconta l’umana avventura di questo straordinario prete con una scansione degli avvenimenti, puntuale e scrupolosa, che ci rivelano la grandezza di un uomo; si vedono la ricchezza di scelte controcorrente, lo spazio di autonomia per un vissuto e un’azione “da uomo libero” conquistati anche grazie alla tenacia e al sacrificio di un sacerdote cosiffatto e alla sua fedeltà alla Chiesa di cui costituisce un patrimonio perennemente fruttuoso. Don Zeno fu un vero padre per tanti figli reietti, gli abbandonati da tutti, trasmettitore di speranza nella vita e di amore alla Chiesa. Nonostante tutto, vorrei aggiungere.
Il nucleo della città di Nomadelfia era nato ed era ubicato nell’ex campo di concentramento di Fossoli, in provincia di Modena. «Nomadelfia rappresenta una pagina del santo Vangelo», ebbe a definirla una volta il cardinale Schuster (siamo nel 1949), e credo che questa espressione sia una sorta di filo rosso nel documentatissimo libro di Galli che non vuole tralasciare nulla, seppur nei termini essenziali, anche sul versante degli avvenimenti bellici e della storia sociale e religiosa del momento. Le note a fondo pagina sono ricchissime di particolari, ma vanno lette perché costituiscono a volte un racconto nel racconto.
Credo che la vita dell’Opera dei piccoli apostoli di don Zeno Saltini, all’epoca, non potesse essere diversa da quella narrata da Galli: riserve da parte della gerarchia ecclesiastica, incomprensioni, paure, cattiverie, pericoli politici, non potevano non accompagnare la sua presenza in diverse zone del Paese, nel modenese, nella Bassa emiliana, nella Maremma, ma anche a Roma, al centro e al sud d’Italia. Ogni occasione, compresa la parentesi dell’esperienza amministrativa di vicesindaco a Mirandola, per don Zeno è buona per stare vicino ai poveri, ai più deboli, senza distinzione di appartenenza politica. E la vive fino in fondo, fino al divieto, impartitogli dal vescovo di Carpi, di parlare nelle piazze, nei teatri, di assentire agli inviti che gli provengono dalla parte operaia organizzata in partito o in comitati di fabbrica. Don Zeno, come sempre, obbedisce (dirà che l’obbedienza è un semplicissimo atto di ordinaria amministrazione), senza uscire mai dalla Chiesa. L’autore si sofferma molto, e con fedele dovizia di particolari curiosi, sui risvolti politici dell’attività di don Zeno, accusato di filocomunismo, di opposizione alla Democrazia cristiana, venendo così a dare un documentato contributo alla conoscenza storica di quel periodo. Fino all’atto finale: allontanato da Nomadelfia, può scegliersi un’altra diocesi; la Santa Sede manderà a Nomadelfia i salesiani, e il governo (Scelba ministro dell’Interno) una commissione liquidatrice. A Nomadelfia, allora, erano ospitati e assistiti più di ottocento minorenni (bellissima la lettera che don Zeno manda il 6 febbraio 1952 al suo padre spirituale don Giovanni Calabria, oggi santo (pp. 430 -431).
Questa la storia della città di Nomadelfia e di don Zeno, inquieto sacerdote oggi avviato verso l’onore degli altari; questo è un pezzo di storia della Chiesa, degli umili e dei grandi. Tornano alla mente, insieme a don Zeno, alcune grandi figure di sacerdoti italiani del Novecento, non perché le loro personalità e le loro azioni siano simili, ma perché li accomuna un cristianesimo intrepido, una sorta di carità rivoluzionaria intesa come giustizia totale, le convinzioni personali portate fino al limite della conflittualità con le gerarchie ecclesiastiche, un limite a volte superato con rischio e sacrificio, anche a costo di una contrapposizione intransigente alle autorità, religiose o statali, quando esse volevano che tutto rientrasse nei ranghi disegnati dal potere. Penso a don Primo Mazzolari, a don Milani e, sullo sfondo, allo stesso don Luigi Sturzo, uomini che hanno amato la Chiesa nonostante la fragilità dei suoi uomini.


Español English Français Deutsch Português