Rubriche
tratto dal n.09 - 2005


Delenda Dc


Giovanni Di Capua, 
Delenda Dc, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2004, 
263 pp., euro 15,00

Giovanni Di Capua, Delenda Dc, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2004, 263 pp., euro 15,00

Se qualcuno volesse avere cognizione precisa, anche attraverso una fedele cronistoria di quel che è avvenuto in questo Paese negli ultimi quindici anni – vogliamo partire dal 1992, anno dell’inizio ufficiale del declino della politica, oppure anticipiamo al 1987? –, dovrebbe leggere questo bel libro di Giovanni Di Capua, Delenda Dc, edito da Rubbettino.
La Dc deve essere distrutta, bisogna distruggere la Democrazia cristiana. Nel 1992 ancora partito di maggioranza relativa, nel 1993 non c’era più. Chi ne aveva decretata la sparizione? I giudici miliziani, cioè la magistratura militante a sinistra che da tempo propugnava la politicizzazione del diritto e aveva preso a decapitare la classe dirigente di governo? E i democristiani perché si erano lasciati ferire e sacrificare sull’altare giustizialista? E dov’erano finite le capacità mediatorie di una “forza tranquilla”?
Di questi e di altri controversi interrogativi dà conto questo libro, opera di un osservatore interno che, avendo attraversato per la vicenda democristiana l’intero mezzo secolo, dal 1943 al 1993, conosce per così dire vita, morte e miracoli, uomini e problemi di quello che è stato il più grande partito democratico della storia d’Italia. Cioè di una forza politica costruita nell’autonomia, nella laicità e nella tolleranza da Alcide De Gasperi e scioltasi come neve al sole in un’arroventata stagione dominata da un “nuovismo” caratterizzato dal “moralismo”: due ingredienti che, miscelandosi, non hanno mai prodotto alcunché di buono nella storia, non solo italiana.
Ci sono nomi, cognomi; date, dati; fatti incontrovertibili, avvenimenti in questo documentato lavoro di Di Capua che, pur focalizzando l’attenzione sulle sorti della Dc, non rinuncia ad analisi a largo spettro che coinvolgono altri partiti, movimenti, espressioni ideologiche e culturali, laiche e di Chiesa. Concordo con una valutazione dell’autore: più che una balena bianca, enorme e lentissima di riflessi oltre che di movimenti, a fine anni Ottanta la Dc era diventata più che mai un vasto arcipelago di isole, isolette e scogli sui quali si erano insediate le tribù più eterogenee, nelle quali i più intraprendenti si autoproclamavano colonnelli, e nessuno era disposto a cedere i gradi di comando magari al più esperto e si finiva col contare più graduati che militari di truppa. Il XVIII (e ultimo) congresso del febbraio 1989, che elesse segretario nazionale Arnaldo Forlani con l’85% dei consensi, fu anche l’assise che siglò – a mio avviso definitivamente – la frantumazione democristiana, la fine o comunque l’alterazione della politica degli ideali e la consegna della stessa agli interessi economici. Il 1989, e quelli immediatamente successivi, sono anni cruciali che vanno letti bene, e Di Capua lo fa, circostanziando ogni avvenimento. Il “suicidio di massa” (p. 231) si consumerà nel 1993.
Il libro di Di Capua si affianca alle molte analisi e contributi pubblicati in questi ultimi anni a cura di uomini politici, storici, ricercatori, scrittori, politologi e sociologi di ogni risma, di parte e non, ma ha una sua specificità: è scritto con passione e severità, “dal di dentro” del soggetto, la Democrazia cristiana, grande partito che alla fine si è fatto processare sulle piazze. Con severità (basta leggere le considerazioni, vere, su alcuni atteggiamenti del mondo cattolico “esterno” alla Dc: non ci furono per caso degli assalti clericali a un partito democratico accusato di non credere più all’eticità di Stato, un concetto tipico dei regimi assoluti?), ma con la forza di una grande passione non solo verso quello che ha rappresentato la Dc (e qui forse ci sono vene nostalgiche), ma soprattutto verso un brandello di storia definitivamente tramontato in poco tempo.




Ritratto di familia


Carla Fayer, 
La familia romana, 
«L’Erma» di Bretschneider, Roma 2005, 908 pp., s.i.p.

Carla Fayer, La familia romana, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2005, 908 pp., s.i.p.

Un monumentale lavoro quello di Carla Fayer su La familia romana. Aspetti giuridici e antiquari. Quella che qui segnaliamo è la seconda parte di un interessante studio sulla familia romana, che prende in considerazione gli istituti degli sponsalia (oggi diremmo fidanzamento), del matrimonio, della dote; il concubinato, il divorzio, l’adulterio saranno gli argomenti di una terza parte, di un terzo volume, in uscita quest’anno. Sonopoderosi volumi che offrono, anche ai non specialisti della cultura giuridica, i risultati di ricerche specifiche degli studiosi del diritto romano offrendo un quadro delle istituzioni il più completo possibile e una
informazione esauriente a chi è maggiormente interessato agli aspetti della vita quotidiana. Sono molte le pubblicazioni su Roma, sulla sua storia, sugli aspetti della vita quotidiana degli antichi romani. Quest’opera im­men­sa di Carla Fayer (solo questo secondo volume supera le 900 pagine!) credo che costituisca un contributo scientifico insostituibile per chiunque voglia interessarsi di storia romana. Molte le curiosità: i due tipi di matrimonio romano, ad esempio, cum manu e sine manu (p. 185), la “difficile” scelta del dies nuptialis (p. 467), i divieti matrimoniali (p. 598), e altre che invitano alla lettura del volume e ne rendono piacevole la consultazione.




Il cristianesimo e l’arte


Franco Carlo Ricci (a cura di),
Il cristianesimo fonte perenne di ispirazione per le arti,
ESI, Napoli 2004, 396 pp., euro 29,00

Franco Carlo Ricci (a cura di), Il cristianesimo fonte perenne di ispirazione per le arti, ESI, Napoli 2004, 396 pp., euro 29,00

Il 2000, anno dell’ultimo Giubileo, è stato un anno fecondo di eventi e iniziative culturali. Tra le tante, la Chiesa si è fatta promotrice di un convegno, dedicato esclusivamente alle discipline artistiche, che ha radunato a Roma i docenti universitari di tutte le discipline di ricerca ed elaborazione culturale (arti figurative, cinema, letteratura, musica e teatro), insigni studiosi e artisti, credenti e non, a livello internazionale. A distanza di quattro anni, vedono la luce gli atti dell’evento, pubblicati dalle Edizioni Scientifiche Italiane col titolo Il cristianesimo fonte perenne di ispirazione per le arti (affermazione eloquente – si badi bene –, definizione oggettiva, senza punto di domanda).
Bene ha fatto Franco Carlo Ricci a raccogliere in un volume gli atti del convegno, anche se non tutti i contributi sono compresi (per colpa dei ritardi dei relatori). Due i piani complementari della pubblicazione: quello dedicato al profilo storico-critico-estetico delle opere e degli autori presi in considerazione; e quello della diretta testimonianza offerta dall’esperienza creativa di alcuni artisti.
Si sa, questi sono libri da tenere nello scaffale per consultazione e aiuto quando serve approfondire alcuni temi; la lettura non è agevole, ma alcuni scritti sono indubbiamente invitanti: di Ricci è un interessante saggio sulla religiosità di Stravinskij (p. 329); il contributo del compositore Luca Lombardi, “Il sentimento religioso di un non credente” (p. 73), è quasi una pubblica confessione autobiografica; interessante la genesi della composizione musicaleVanitas
, unita alla “testimonianza” di un altro compositore di oggi, Alberico Vitalizi (p. 221), o il saggio di Marko Ivan Rupnik, “Il simbolo: la proposta dei cristiani per l’arte” (p. 153) o, ancora, il contributo su “La musica sacra di Gabriel Fauré nel panorama musicale dell’ultimo Ottocento”, di Raoul Meloncelli (p. 183). Il saggio di Massimo Riposati “Gli occhi della luce: arte copta nella pittura tradizionale etiopica” (p. 245) riserva delle sorprese: dopo la lettura, sono certo che le rappresentazioni pittoriche a soggetto religioso dei Paesi islamici o copti, verranno viste con occhi diversi. Ancora, “La figura di Cristo nella musica francese (XIX-XX sec.)”, di Danièle Pistone (p. 265). Un romano non può farsi sfuggire il saggio di Anne Reynolds su “Il cardinale Oliviero Carafa e l’Umanesimo a Roma” (p. 309) con la storia della statua – una statua con diritto di parola – di Ercole-Pasquino, ancora oggi meta di tanta gente, la quale nell’omonima piazza a fianco di piazza Navona riceve messaggi di ogni genere.




Tra resistenza e antifascismo


Antonio Parisella, 
Cultura cattolica e Resistenza nell’Italia repubblicana, 
editrice Ave, Roma 2005,
204 pp., euro 13,00

Antonio Parisella, Cultura cattolica e Resistenza nell’Italia repubblicana, editrice Ave, Roma 2005, 204 pp., euro 13,00

Antonio Parisella è professore di Storia contemporanea all’Università di Parma, di Storia sociale urbana alla Lumsa di Roma e presidente del Museo storico della Liberazione di via Tasso a Roma. Proprio per questa funzione, ed essendo nato il 25 aprile del 1945, Parisella ha sempre dedicato particolare attenzione, nei suoi molteplici studi storici, al tema resistenziale. Nel 1997, per Gangemi, infatti, aveva curato il libro Sopravvivere liberi. Riflessioni sulla storia della Resistenza a cinquant’anni dalla liberazione. Il suo nuovo volume, Cultura cattolica e Resistenza nell’Italia repubblicana, edito da Ave, è un approfondito studio su un aspetto particolare della tematica resistenziale, asessant’anni dal suo anniversario. Nella premessa, Parisella sottolinea la differenza tra Resistenza e antifascismo, per concentrare l’attenzione sul complesso di eventi e di processi attraverso i quali, negli anni della guerra, si avvia e si realizza la transizione dell’Italia dall’occupazione straniera all’indipendenza nazionale, dalla dittatura alla democrazia, dalla monarchia alla Repubblica. Quindi si volge ad analizzare la storia degli sviluppi di quella cultura cattolica che si andava formando in quel drammatico periodo di passaggio. Fino agli anni Sessanta la centralità di due personalità forti come quelle di Pio XII e di Alcide De Gasperi ha finito per consolidare un’immagine di uniformità, dalla quale tendono a scomparire le differenze. Nel rapporto tra Resistenza e cultura cattolica non si dovrebbero, quindi, trascurare i discorsi pontifici pubblicati nei giornali per ragazzi, l’editoria accademica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, le pubblicazioni per i contadini della Coldiretti, quelle per gli operai delle Acli e della Cisl, gli interventi di vescovi e prelati sulle riviste di carattere divulgativo e di carattere popolare, da
Civiltà Cattolica a Famiglia Cristiana, i discorsi dei leader politici nei settimanali diocesani e nella stampa del clero, la letteratura dei resistenti cattolici e quella dei clericofascisti. Vi è poi la cultura delle istituzioni. In questo caso si tratta di una cultura di Stato, oltre che di una cultura di Chiesa. Infine, vi è la cultura di partito, quella della Democrazia cristiana, dei suoi leader, dei suoi rappresentanti. Negli anni del centrismo, finita l’unità nazionale, da parte di De Gasperi vi era una duplice lettura della Resistenza, che, da un lato, non ignorava il dato storico unitario del movimento di liberazione, mentre dall’altro tendeva a recuperarne come espressione caratterizzante e vincente quella moderata e nazionale, della quale le forze che sostenevano i governi centristi, e quindi la Dc in primo luogo, si conside ravano eredi e interpreti. Negli anni Sessanta, in prossimità dei governi di centrosinistra, si affermava una tendenza alla costruzione di una cultura pubblica, ufficiale e nazionale della Resistenza, che aveva come promotori sia le associazioni partigiane e antifasciste, sia gli enti locali, con ricorrenze e celebrazioni di eventi rilevanti come inaugurazioni di monumenti o musei, dedicazioni di scuole, vie o piazze, gemellaggi fra città. Lo stesso legame tra Resistenza e Repubblica avrebbe finito per essere interpretato in direzione unitaria e definita, nel senso che la raggiunta ricomposizione dell’arco costituzionale avrebbe dovuto essere considerata di per sé una conquista capace di garantire la democrazia in via definitiva. Nella fase della contestazione e dei movimenti studenteschi vi è una assoluta mancanza di riferimenti specifici alla Resistenza da parte dei movimenti cristiani, nei quali la critica ecclesiale a base evangelica si fondeva con la critica politica di sinistra fino all’acquisizione di coordinate culturali esplicitamente marxiste. La Conferenza episcopale italiana, nel testo del messaggio del suo Consiglio permanente – del quale era segretario monsignor Enrico Bartoletti, che aveva svolto un certo ruolo nella Resistenza fiorentina – in occasione del trentennale della Liberazione, ricordava il grande anelito di giustizia e di pace che si accompagnò a vicende che, per quanto drammatiche, avevano dato inizio a un periodo nuovo della storia d’Italia. Gli anni Ottanta videro, come si sa, un importante cambiamento politico, e anche in campo cattolico si assistette a un diverso approccio nei riguardi della Resistenza e, più in generale, dell’antifascismo. Nell’indice analitico di una rivista prestigiosa come La Civiltà Cattolica scompaiono, ad esempio, le voci “antifascismo”, “fascismo” e “Resistenza”. Parisella ritiene però che al giudizio storico sul nazismo, sullo scatenamento della Seconda guerra mondiale e sul carattere assunto dallo scontro, Giovanni Paolo II abbia indubbiamente impresso un segno ben più deciso e forte dei suoi predecessori. Per la sua stessa origine polacca, infatti, e per la sua diretta esperienza personale, non gli era possibile mantenersi a livelli generici o moralistici e ricercare equilibri diplomatici. Nel suo giudizio storico sul nazismo e sulla lotta internazionale al nazismo sembra, infatti, doversi ricercare il fondamento storico della difesa della vita e dei diritti umani di cui sente sé e la Chiesa della fine del XX secolo come protagonisti di primo piano. E tale giudizio, fin dagli inizi del suo pontificato, contenuto in gesti e iniziative (ad esempio la canonizzazione di padre Massimiliano Kolbe o il viaggio ad Auschwitz), oltre che in discorsi e messaggi, è che il nuovo ordine europeo del nazismo aveva rappresentato una minaccia gravissima per il Vecchio continente, i suoi popoli, le sue culture tradizionali (cristiana-spiritualista e laico-razionalista), la sua civiltà.

Antonio Termenini




Michelangelo, artista di strada


Francesco Andreani, 
Michelangelo e l’arte 
della città. Storia della Via Nova Capitolina, 
Gangemi Editore, 
Roma 2005, 94 pp., s.i.p.

Francesco Andreani, Michelangelo e l’arte della città. Storia della Via Nova Capitolina, Gangemi Editore, Roma 2005, 94 pp., s.i.p.

«D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda»: così Italo Calvino in un passaggio delle Città invisibili. Quando una città suscita non una, ma mille domande, e spesso di risposte ne fornisce molte di più, si può stare certi di trovarsi nel cuore di Roma, nelle sue armonie e irregolarità, larghezze e angustie, che costringono a percorsi sbilenchi e pomposi in vicoli discinti e viali da trionfo. Ma tutte le risposte che Roma generosamente elargisce sono custoditein una parola semplice che, come Roma, genera vertigine: bellezza. Da qui, dalla bellezza, è partito Francesco Andreani in questo suo lavoro in cui racconta, come esplicitato nel titolo, la storia di una strada, la Via Nova Capitolina, attuale via d’Aracoeli: «La bellezza della città» spiega Andreani, architetto e docente a contratto di Progettazione architettonica e urbana al Politecnico di Bari, «è il tema della ricerca che ho condotto in questi anni, con la convinzione che la città di Roma, per motivi particolari, offre sempre a chi la interroga abbondanza di significato, di caratteri, di ragioni, di protagonisti». La storia di questa strada, che unisce il Campidoglio a piazza del Gesù, è quella di un’avventura che coinvolge, nella seconda metà del Cinquecento, santi, papi, cardinali, maestri di strada, architetti e artisti.
Protagonisti come Michelangelo, Giacomo Della Porta, Ignazio di Loyola, Pio IV e Sisto V, si trovano implicati in un intreccio di rapporti, non sempre idilliaci, che l’autore – alla cui prosa leesigenze del linguaggio scientifico non precludono fluidità – fa emergere attraverso lo studio di documenti e la descrizione dei luoghi che si vanno costituendo sotto gli occhi del lettore. Il quale scoprirà come anche alcuni particolari prospettici che appaiono inconsueti, quasi l’esito di una ricchezza di intuizioni apparentemente sbrigliate o addirittura bizzarre, hanno invece una precisa ragion d’essere. Frutto della straordinaria storia di questa città, la cui bellezza, inesauribile sorgente di stupore, è sempre la più esauriente risposta alle domande che essa stessa genera.

Paolo Mattei




La sarta che “ricuciva” gli strappi con il Signore


Domenico Agasso, 
Maria Dolores. 
Il fascino dell’inattuale, 
Lev, Città del Vaticano 2004, 
167 pp., euro 12,00

Domenico Agasso, Maria Dolores. Il fascino dell’inattuale, Lev, Città del Vaticano 2004, 167 pp., euro 12,00

La storia di una “maestra di taglio” che diventa santa tra le Serve di Maria Riparatrici. Siamo nel Veneto, a Rovigo, tra l’Adige e il Po, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento (1866-1928). È una storia molto semplice, quella di suor Maria Dolores, al secolo Maria Inglese; una vita normale e quindi, direi, una santa nella normalità, in vita e in morte, che alla fine si concentra sulla riparazione mariana. Sullo sfondo alcuni personaggi storici che hanno attraversato lavita della Chiesa con un talvolta difficile rapporto con le autorità ecclesiastiche; la descrizione degli atteggiamenti di sacerdoti, vescovi e papi nei confronti del nuovo Ordine monastico di suore dedite alla riparazione continua: «… Oggi tante persone offendono Gesù e anche sua Madre con le azioni e le parole; perciò noi vogliamo controbilanciare e cancellare quegli oltraggi con la nostra fede espressa in pensieri e in opere. Per ogni offesa, una lode, una preghiera». Ancora, l’intreccio di
diverse realtà ecclesiali e di altre opere di riparazione mariana, gli eventi della Prima guerra mondiale… Domenico Agasso pubblica per la Libreria Editrice Vaticana questo libro, di agile e svelta lettura, Maria Dolores. Il fascino dell’inattuale trasferendovi notizie attinte da precedenti pubblicazioni. Colpisce la semplicità della storia di Maria Dolores, insieme alla pacatezza del narrare, che ha il merito di far risaltare la grandezza di questa originale figura di donnache ha promosso, agli inizi del secolo scorso, mille iniziative, ha scritto libri, pubblicato e diffuso opuscoli e foglietti, quasi staccata dal suo tempo: l’opuscoloQuanto è buona Maria!
è il primo pubblicato dalle Serve di Maria Riparatrici, assieme al bollettino La Paginetta della Riparazione (1916), oggi Riparazione Mariana. Le vicende del tempo non rientrano nelle sue prospettive. Essa punta all’essenziale: sta qui il fascino dell’inattuale.




Lettere che raccontano la storia


Santa Maria De Mattias, Lettere, 5 volumi, Adoratrici 
del Sangue di Cristo, 
Roma 2005

Santa Maria De Mattias, Lettere, 5 volumi, Adoratrici del Sangue di Cristo, Roma 2005

Di storia infatti si tratta: storia di vita e di vissuto che insieme fanno la storia. Storia narrata senza averne l’intenzione da una donna che ha imparato a scrivere da sola, e che ha scritto per sola necessità, nello sviluppo quotidiano della vicenda sua e della Opera da lei fondata.
Sono le Lettere, di recente pubblicazione, scritte da santa Maria De Mattias: ciociara, autodidatta, vissuta nella prima metà del tormentato Ottocento italiano, maestra e formatrice di maestre, santa e pioniera di una lunga schiera di seguaci che, dietro di lei, hanno trovato le indicazioni giuste per seguire Gesù Cristo, e per offrire un servizio coraggioso e profetico alla società del loro tempo.
Originaria di Vallecorsa (5 aprile 1805), Maria De Mattias ha saputo leggere, attraverso le tumultuose vicende della sua epoca, il filo conduttore della storia: la salvezza operata da Cristo Gesù con lo spargimento di tutto il suo Sangue.
Questa spiritualità, suscitata in lei da san Gaspare del Bufalo (Roma 1786-1837) e mediata dal venerabile Giovanni Merlini (Spoleto 1795 – Roma 1874), ha orientato la sua esistenza verso la contemplazione del Mistero redentivo e l’annuncio di esso a tutto il popolo, mediante la catechesi, la predicazione, l’insegnamento.
A questo scopo ha fondato, nel 1834, la Congregazione delle Adoratrici del Sangue di Cristo, in Acuto, provincia di Frosinone, diocesi di Anagni. Ha iniziato la sua Opera attraverso la scuola, istituzione nascente all’epoca nello Stato Pontificio, e ha usato questo ministero come mezzo per formare e catechizzare, essendo essa ispirata alla esigenza di «salvare le anime che costano a Gesù Cristo tutto il suo sangue».
Beatificata nel 1950, a poco meno di un secolo dopo la morte (Roma 20 agosto 1866), è stata dichiarata santa il 18 maggio del 2003.
La pubblicazione propone, trascritto dagli originali, tutto il carteggio recuperato, che consta di 1434 lettere. Esso è tutto relativo alla istituzione delle Adoratrici del Sangue di Cristo: inizia infatti alla vigilia della fondazione, con due lettere che ne costituiscono l’esordio, e corre per tutto l’arco dei trentadue anni, dal tempo delle origini fino alla morte della pioniera.
Mentre tesse la trama della storia delle origini delle Adoratrici, esso offre, in filigrana, uno spaccato di vita ecclesiale e civile dei pieno Ottocento e tratteggia, veritiera e profonda, la sua vicenda umana e spirituale.
Le lettere sono varie nel registro a motivo della varietà dei destinatari, numerosissimi e diversi non solo per i ruoli ma anche per il rapporto che hanno avuto con l’autrice; hanno un linguaggio immediato e caldo, energico ma non privo di tenerezza. Trattano le tematiche più svariate e, nonostante l’occasionalità e la quotidianità dei testi, lasciano emergere, ponderosa, la dimensione spirituale, con espressioni sorprendenti per una donna alla quale fu vietato, a causa dei tempi, l’accesso a ogni tipo di cultura.
Cinque i volumi, redatti in maniera scientifica, e corredati da opportuni indici che aiutano l’accostamento e la ricerca. Una interessante e competente introduzione alla lettura, una ricca bibliografia e la descrizione del carteggio e dei criteri di redazione fanno da premessa al corpo delle lettere.
Lo scorrere cronologico degli scritti evidenzia due costanti che accompagnano, a ritmo parallelo, il dettato delle lettere: da una parte il progressivo sviluppo nella conquista della scrittura, nella capacità di esprimere con parole e caratteri propri il pensiero, la forza carismatica, l’evoluzione spirituale della sua esistenza, in modo sempre più agevole e disinvolto; dall’altra la dinamica di crescita di una Congregazione che si impone in tempi difficilissimi, per la forza di una spiritualità coinvolgente e benefica, segno evidente della presenza dello Spirito.

Angela Di Spirito A.S.B.




Un’enciclopedia della devozione mariana


Maria, Madre umana e spirituale di tutta l’umanità. Il dolore della Madonna, Cameli, Roma 2004, 
628 pp., s.i.p.

Maria, Madre umana e spirituale di tutta l’umanità. Il dolore della Madonna, Cameli, Roma 2004, 628 pp., s.i.p.

Quanti sono i santuari mariani nel mondo, quale ne è l’origine, la storia, la caratteristica che li differenzia dagli altri e li rende unici, ciascuno a suo modo? Farne un censimento, tracciarne una mappa senza trascurare gli angoli più sperduti del mondo, descriverne i tratti tipici in una sorta di “enciclopedia” della devozione e della pietàpopolare nei riguardi della Madonna: questa è l’impresa che la casa editrice Cameli ha voluto compiere, scegliendo la formula artistica di un volume prezioso, a tiratura limitata, arricchito dalle due copertine a bassorilievo in bronzo, dedicate all’incarnazione del Verbo e alla gloria della Vergine in Paradiso, opera di Ambrogio Ciranna. Ma non solo. Percorrere idealmente il mondo alla ricerca dei luoghi in cui l’intercessione di Maria rappresenta un punto di riferimento per nazioni intere, dal Messico alla Cina, passando per la vecchia Europa, significa anche porre l’accento sul ruolo centrale che il culto mariano svolge nella vita di tutto il popolo cristiano. «I san
tuari mariani sono luoghi che testimoniano la particolare presenza di Maria nella vita della Chiesa», sono parole di Giovanni Paolo II riportate nelle pagine introduttive al volume: «essi fanno parte del patrimonio spirituale e culturale di un popolo e possiedono una grande forza attrattiva e irradiante. In essi non solo individui o gruppi locali, ma a volte intere nazioni e continenti cercano l’incontro con la madre del Signore, con colei che è beata perché ha creduto. Per questo si potrebbe forse parlare di una specifica geografia della fede e della pietà mariana, che comprende tutti questi luoghi di particolare pellegrinaggio per il popolo di Dio, il quale cerca l’incontro con la Madre di Dio per trovare, nel raggio della materna presenza di Colei che ha creduto, il consolidamento della propria fede (Angelus del 26 giugno 1987)». Tra santuari famosi e frequentati da milioni di pellegrini, come Lourdes, Guadalupe o Fatima, trovano posto luoghi quasi sconosciuti, ma altrettanto ricchi di suggestione, come il Viottolo della Vergine di Tsuwano in Giappone, che serba memoria della dolce apparizione di Maria a Giovanni Battista Yasutaro, mentre era in carcere, in una cella di un metro per due, nel 1869, in attesa di essere portato al luogo del suo martirio; o come il santuario di nostra Signora di Madhu, in Sri Lanka, eretto da quei cattolici cingalesi fuggiti nel Settecento dalla costa occidentale nel cuore dell’isola per sfuggire ai coloni olandesi che imponevano loro di abiurare alla fede cattolica. Frammenti di storie antiche, di pietà e perseveranza, di domanda e di abbandono che questo libro raccoglie, cataloga e offre al lettore in una sequenza attenta e partecipata, come tanti grani di un unico lungo rosario.
Giovanni Ricciardi


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