Rubriche
tratto dal n.03 - 2006


Neri in campi nazisti


Serge Bilé, Neri nei campi 
nazisti, Emi, Bologna 2006,
159 pp., euro 12,00

Serge Bilé, Neri nei campi nazisti, Emi, Bologna 2006, 159 pp., euro 12,00

Lautore è un giornalista francese, Serge Bilé; in Neri nei campi nazisti (ottima la traduzione dal francese curata da Anna Maria Malvezzi), Emi editore, raccoglie testimonianze di persone di colore deportate, rimaste vittime dei campi di concentramento e di sterminio della Germania nazista. È un libro per ricordare; e ricordare è, innanzitutto, un obbligo morale che riguarda ciascuno di noi; è un “libro della memoria” che dà voce a qualcuno dei tanti che si volle far tacere e cancellare dalla storia.
Il primo capitolo si apre con le repressioni e le stragi perpetrate dai colonizzatori tedeschi in Namibia agli albori del XX secolo. Altre pagine riguardano i neri arruolati nell’esercito francese e gettati contro i panzer tedeschi nel 1940: discriminati razzialmente nel loro esercito, che pure ha imposto loro lingua, regole, modelli di vita, e massacrati dai tedeschi che rifiutano perfino di riconoscere loro la dignità dei “veri” prigionieri di guerra francesi. Altre testimonianze accennano ai combattenti neri americani, anch’essi vittime, nel medesimo tempo, di discriminazioni nel “loro” esercito e di brutalità e assassinio da parte del nemico.
È un aspetto sconosciuto, questo, della Seconda guerra mondiale. Sentimenti, emozioni, ribellioni si intrecciano con fatti storici e situazioni del momento: ne escono pagine di storia inedita in cui scopriamo, tra l’altro, l’esperienze di guerra di coloro che sarebbero diventati i leader della causa nera: Mandela, Luther King, Senghor, Aimé Césaire. E proprio con una bella poesia di Léopold Sédar Senghor vorrei chiudere:
«No, non siete morti inutili, o Morti!
Questo sangue non è acqua tiepida.
Annaffia forse la nostra speranza che fiorirà al crepuscolo.
E la nostra sete, la nostra fame d’onore, queste grandi regine assolute.
No, non siete morti inutili
Siete testimoni dell’Africa immortale.
Siete i testimoni del mondo nuovo che domani sarà.
Dormite, o Morti!
E la mia voce vi culli, la mia voce corrucciata che culla la speranza».




La società moderna tra cultura di vita e cultura di morte


Vincenzo Di Muro, La società moderna tra cultura di vita 
e cultura di morte, 
Cuzzolin Editore, Napoli 2005,  342 pp., euro 14,00

Vincenzo Di Muro, La società moderna tra cultura di vita e cultura di morte, Cuzzolin Editore, Napoli 2005, 342 pp., euro 14,00

Quando si inizia a leggere questo libro di monsignor Vincenzo di Muro, La società moderna tra cultura di vita e cultura di morte, si ha la sensazione di essere travolti da un fiume in piena, con la forza di sensazioni, fatti, indicazioni, dati, posizioni chiare e nette, frequenti e puntuali citazioni dal magistero della Chiesa, soprattutto da quello di Giovanni Paolo II; del resto, l’opera di Di Muro esce nel decimo anniversario dell’Evangelium vitae, l’enciclica di Giovanni Paolo II del 25 marzo 1995, forse oggi un po’ dimenticata.
È un libro coraggioso. Dove sta il suo coraggio? Nella non accettazione del silenzio di fronte a una cultura di morte che affascina gran parte dell’umanità e che corre veloce anche attraverso disinformazione e strumentalizzazioni mostruose. Interessante l’“antologia” sui linguaggi della cultura della vita e della morte (p. 33) che l’autore presenta, ponendo l’uomo al centro del suo interesse: «Ogni lotta per la vittoria della vita e per la sconfitta della morte si combatte prima nel cuore di ogni uomo, nella sua coscienza, poi a livello di civiltà, in aree allargate dove gli sconfitti nel loro cuore e nella loro coscienza vogliono sentirsi numericamente forti e politicamente vincitori» (p. 16).
È un libro opportuno, soprattutto nel particolare momento storico che la società sta vivendo. Oggi siamo di fronte a una grande sfida; in un delicato momento di passaggio culturale, di chiusura di un’epoca e di apertura di una nuova, dai connotati ancora incerti, non ben delineati. Il contributo di Di Muro è riferito soprattutto al terzo capitolo su “Il tempio della vita tra costruzione e macerie”. Un capitolo ben ordinato, lo ritengo il più ben fatto, che costituisce la parte portante dell’intera opera, anche come numero di pagine, circa duecento (pp. 69-262). Spesso si ha un po’ di timore, o di pudore, nell’avvicinarsi ad argomenti di stringente attualità, forse perché non si vuole correre il rischio di mettere in discussione alcuni nostri convincimenti o alcune credenze date per scontate nella nostra cultura e nel nostro modo di ragionare, ma che solide non sono.
È un libro attuale. I “modelli” che l’autore propone, a completamento e chiarimento di alcune questioni affrontate, costituiscono esempi di come si possa essere testimoni di una cultura di vita: da Giorgio La Pira a Bachelet, a Madre Teresa di Calcutta, per dire i più noti; ma anche alla famiglia Quattrocchi, agli esempi del giudice Livatino, di Giuseppe Girotti e tanti altri. Esempi forse sconosciuti ma che costituiscono una presenza significativa nella società moderna. Qui sta l’attualità di questo libro che è anche un tributo d’affetto dell’autore nei confronti del cardinale Corrado Ursi




L’Africa in soccorso dell’Occidente


Anne-Cécile Robert, L’Africa 
in soccorso dell’Occidente, Emi, Bologna 2006, 190 pp.,
euro 12,00

Anne-Cécile Robert, L’Africa in soccorso dell’Occidente, Emi, Bologna 2006, 190 pp., euro 12,00

Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, ucciso il 15 ottobre 1987, diceva: «Dobbiamo accettare di vivere da africani. Il solo modo di vivere liberi è di vivere da africani. Costruire basandoci sulle nostre forze, quelle degli uomini e delle donne del continente». Vanno in questa direzione – «aiutare l’Africa ad aiutarsi», per usare un’espressione ormai corrente – molte iniziative che si sviluppano nel nostro Paese per la cura dei rapporti tra il Continente africano e l’Occidente, quasi in un voler mettere a nudo i mali e le reciproche responsabilità dei continenti.
È inusuale l’approccio al problema applicato da Anne-Cécile Robert nel suo libro L’Africa in soccorso dell’Occidente, pubblicato da Emi, l’Editrice missionaria italiana. Dice all’Occidente che per imparare nuovamente l’umanesimo, occorre osare in primo luogo, in tutta umiltà, una ridefinizione dello sviluppo…; ricorda poi agli africani ciò che essi tendono così spesso a dimenticare: che nel mondo mondializzato ogni nazione ha tanto da ricevere quanto da dare; che la povertà può anche essere la ricchezza dei popoli. Viene alla mente l’esperienza romana: utilizzando lo strumento della cooperazione decentrata, in Mozambico, nella periferia della capitale, è sorta una scuola intitolata a Roma: è il risultato dell’opera di studenti di alcuni licei romani che hanno raccolto i fondi necessari con diverse iniziative sociali; la stessa cosa è avvenuta per la costruzione di un asilo nido e di una scuola materna. Progetti analoghi si stanno sviluppando in altri Paesi africani.
«Se le società africane e le loro élite potessero prendere coscienza della fecondità di questa differenza di valori e accettassero di impadronirsene, invece di calarsi nel modello dominante, renderebbero un servizio all’intero pianeta. Se l’Occidente accettasse un’Africa maggiorenne invece di volerla sempre mantenere in sua balia, in un modo o nell’altro, allora il corso del mondo potrebbe risultarne cambiato. Il mondo ha bisogno di un’Africa soggetto e non più oggetto. In questo senso un vero incontro, fecondo, potrebbe avere luogo a vantaggio di tutti».
L’orgoglio dell’Africa esce dalle pagine di Anne-Cécile Robert con grande evidenza. In un momento di intenso dibattito sui molteplici temi legati al fenomeno dell’immigrazione, credo che questo libro costituisca un prezioso sussidio per condurre la discussione su binari forse inusuali, ma percorribili.
Le pagine conclusive sono una difesa appassionata della diversità del mondo e si aprono con significative parole di John F. Kennedy che efficacemente sintetizzano il senso del volume: «Tutti i paesi hanno le loro tradizioni, le loro idee, le loro ambizioni. Non li ricreeremo a nostra immagine».


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