Rubriche
tratto dal n.01 - 2000


Celestino e l’assassino


Antonio Grano, La leggenda del chiodo assassino, Tommaso Marotta Editore, Napoli 1998

Antonio Grano, La leggenda del chiodo assassino, Tommaso Marotta Editore, Napoli 1998

Ancora una volta Celestino V e Bonifacio VIII in una lettura storica tradizionalmente illuministica visti come l’Ecclesia spiritualis che soccombe nei confronti dell’Ecclesia carnalis. Ancora una volta con puntualità cronometrica, quasi con scadenza all’incirca triennale, esce un’opera che, riesumando niente po’ po’ di meno che “la leggenda del chiodo” più o meno assassino, finisce per gettare la solita ombra truculenta su Benedetto da Anagni che, volenti o nolenti, fu l’ultimo grande Papa del Medioevo. Dopo di lui scismi e antipapi, servaggio avignonese di cardinali francesi, divisioni e incertezze tra le pecorelle di Cristo, tanto che persino due grandi santi come santa Caterina e san Bernardino furono su opposti fronti. Ma si sa, la santità per grazia di Dio non conosce frontiere e «accoglie chi si rivolge a Lei» al di là di fazioni e preconcetti. La leggenda del chiodo assassino, questo libro di Antonio Grano, cultore di studi celestiniani, non si discosta molto da un filone assai praticato, che ha visto nella scuola storica tedesco-francese le sue origini (tradizioni storiche con diverse motivazioni e valenze, ma confluenti nella volontà non tanto di esaltare il Morronese quanto di denigrare a sangue l’Anagnino) e che ha trovato in un ispirato Ignazio Silone il suo aedo meno storico ma più puro e toccante. Il sottotitolo del libro del calabrese Grano esprime in maniera chiara l’intento che soggiace all’intera ricostruzione storica: Tutte le verità sulla morte di Pietro del Morrone che fu papa Celestino V.Ed anche se il buon vescovo d’Isernia, Andrea Gemma, lirico ed entusiasta estimatore del Morronese, parla nella prefazione di atteggiamento distaccato ed equanime dello storico nei confronti del duello Celestino-Bonifacio, la realtà è che se una testimonianza storica la si porge con enfasi e rilievo e un’altra con sufficienza e distacco si capisce bene dove batta il cuore dello storico e dove egli indirizzi la “sua” verità. Perché chiunque abbia avuto dimestichezza con la critica testuale delle fonti e lo studio accurato della bibliografia celestiniana sa bene che, come disse un arguto studioso del santo, le rivisitazioni celestiniane aggiungono ben poco di nuovo l’una all’altra e «finiscono per somigliarsi come le teste di morto», in un’elencazione di voci e controvoci tra le quali quelle che hanno storicamente più peso, come diceva il grande maestro Dupré Theseider, sono quelle dei coevi; per il resto dobbiamo arrivare infatti ai grandi storici del secondo cinquantennio del Novecento, dal Frugoni alla Pastor per trovare analisi storiche di sicuro spessore che, guarda caso, rivalutano con equilibrio e giusto distacco ambedue le figure, del santo più santo che papa e del papa più papa che santo. Il libro di Grano ha il merito di riportare alla memoria tante notizie e tanti “si dice”, di adoperare uno stile scorrevole e gradevolmente avvincente. Tanto che quando sembra esagerare nello sposare con furore una tesi, subito dopo ti dice che però altre e forse più autorevoli fonti dicono l’esatto contrario. Solo talvolta, a chi conosca un po’ le vicende celestiniane, vien da sorridere perché non si capisce come un «bambino un po’ stravagante, bizzarro, solitario e sfaticato», considerato un «fannullone», sia poi diventato un grande santo, fondatore del più importante ordine monastico di Francia. Un uomo che ha restaurato regole ed antichi eremi cadenti (che non erano meno cadenti perché gli furono donati e tanto non li «ignorò» che volle visitarli personalmente, instancabilmente più e più volte), che ha difeso il suo Ordine al Concilio di Lione, cui è giunto viaggiando a piedi, ormai anziano, che si impose anche all’Angioino a favore dei nobili ghibellini aquilani al momento del suo soggiorno all’Aquila come novello pontefice, ecc. A questo proposito non si capisce affatto l’acrimonia di Grano che chiama «falsi estimatori» coloro che, anche rifacendosi a quel Manoscritto Marciano che lui stesso cita (manoscritto che ha avuto la sua critica testuale e la sua trascrizione pubblicate già nel 1978; quindi la rivisitazione d’Infantino dodici anni dopo aggiunge molto poco), vedono in Pietro del Morrone un uomo mediamente acculturato grazie agli studi fatti nella grande scuola monastica di San Giovanni in Venere, e che oltre a essere «mite, silenzioso e schivo» usava intrattenere i pellegrini in cerca della sua santità, subito dopo il frugalissimo pasto del mezzogiorno, quando i molteplici periodi di stretta penitenza glielo consentivano, con quelle massime angeliche di altissima spiritualità di cui è rimasta ampia traccia negli Opuscola. Non è che per caso, come al solito, questo straordinario personaggio, quale fu Pietro del Morrone, vien tirato da qualcuno per la giacchetta, o meglio per la cocolla, e dopo essere stato l’anti-Pio XII di Silone lo si vuol far diventare anche un “antimercato” dei nostri giorni, mezzo verde e mezzo rivoluzionario, opposto alla cultura «del più sfrenato consumismo» e della «dilapidazione delle risorse umane ed ambientali»? Non mi sembra il caso. Come non mi sembra questa l’epoca in cui il Morronese possa trovare altro che sincera ammirazione e incuriosita reverenza tra coloro che impattano con lui e le sue vicende. Non cerchiamo nemici dove la storia ha ormai steso quel clima di tranquillità e rispetto che si deve ai grandi personaggi del passato.
E veniamo a Bonifacio VIII. Fu un grande papa. Certo le vicende del momento storico, le lotte gentilizie tra le grandi famiglie romane, gli anni di vacanza papale sul trono di Pietro, l’escamotage del papa angelico (per sanare una frattura in cui la Francia si insinuava con determinatezza), per cui rinunciò al papato ben sapendo, lui il santo, che a succedergli sarebbe stato proprio il Dominus Curiae, il cardinale Caetani, sono eventi tempestosi e parzialmente confusi. Ma mi si deve spiegare, razionalmente oltre che storicamente, per qual motivo un cardinale di santa madre Chiesa, per pessimo che sia, deve far uccidere con una chiodata un novantenne che, secondo Grano, era pure dotato di poca salute (questo non lo credo perché in un’epoca che vedeva i sessant’anni come estrema vecchiezza e limite, per pochi, della vita, arrivare a novant’anni era cosa per pochissimi fisici estremamente robusti di natura). Comunque, a un uomo vecchissimo e ormai davvero ammalato, perché piantare un chiodo in testa? Neppure a Dario Argento verrebbe in mente una scena così truculenta e folle. E i rapporti tra i due, Bonifacio e Celestino, non furono mai particolarmente cruenti. Certo Bonifacio sapeva di non potersi permettere, mentre la Chiesa e lui brulicavano di nemici, che il santo del Morrone fosse assunto come una bandiera dai suoi antagonisti dentro e fuori i confini d’Italia. E questo lo capì infine lo stesso Morronese che volle, per prepararsi all’ultimo volo verso il cielo, la solita scomodissima celletta che cercò ovunque, anche nel palazzo pontificio a Napoli. In ultimo, per non tediare più il lettore, voglio ricordare che il comandante della rocca di Fumone, «aspera e crudel preson» di Celestino, era fratello di quel cardinale De Longis che fu tra le persone più care al santo. E chiunque muova i suoi passi fra quelle mura antiche, miracolosamente illese nei confronti del tempo e degli eventi, non può non rimaner colpito dalla serenità e dall’amore che ancora circondano Pietro, le sue memorie, il profumo indelebile della sua santa presenza, l’ineffabile e aspra qualità del suo rigore morale, coltivati come preziosissimi fiori in primo luogo proprio dai discendenti diretti del cardinale e del castellano, che per uno strano gioco della storia sono ancora lì, a guardia del maniero e dei suoi ricordi.

Maria Burani Procaccini




La guerra civile in Spagna


Vicente Cárcel Ortí, Buio sull’altare. 1931-1939: la persecuzione della Chiesa in Spagna, Città Nuova Editrice, Roma 1999

Vicente Cárcel Ortí, Buio sull’altare. 1931-1939: la persecuzione della Chiesa in Spagna, Città Nuova Editrice, Roma 1999

I meno giovani fra noi ricordano benissimo che negli anni dal 1936 al ’39 si parlava moltissimo della guerra di Spagna. Era un conflitto aspro e sanguinoso condotto dalle truppe del generale Franco che si erano ribellate al governo repubblicano. Una guerra civile alla quale noi italiani eravamo di fatto molto interessati per due motivi: perché in aiuto di Franco erano intervenuti notevoli contingenti italiani (non solo camicie nere della milizia fascista ma anche militari delle forze regolari e soprattutto reparti scelti della nostra aeronautica) e inoltre perché la parte repubblicana spagnola aveva assunto una posizione nettamente antireligiosa.
Si era determinato uno stato di persecuzione che si spinse ben presto fino all’uccisione di migliaia di sacerdoti e di religiose.
La Chiesa cattolica non poteva che censurare con la massima fermezza i delitti così perpetrati e i cattolici italiani potevano leggere sull’Osservatore Romano notizie trionfalistiche sulle avanzate delle truppe franchiste che liberavano man mano la cattolicissima popolazione spagnola dalla violenza del comunismo ateo.
Molto si è scritto in argomento, tuttavia il nuovo libro appena uscito di Vicente Cárcel Ortí merita ogni attenzione perché è un’opera storica scritta dopo accurate ricerche e che studia il fenomeno non solo in quanto legato alla guerra civile ma alla lotta condotta dalle forze repubblicane comuniste contro la religione “oppio dei popoli”.
Il nocciolo del volume è costituito da un documento molto importante: la lettera collettiva dell’episcopato spagnolo ai vescovi del mondo intero pubblicata nel luglio del 1937.
La lettera, fra l’altro, adottò una linea destinata a suscitare feroci discussioni ravvisando nell’insurrezione civico-militare franchista una radice patriottica e religiosa volta alla salvaguardia dell’identità e della storia culturale della nazione. Come ovvia conseguenza si vedeva nella vittoria dei franchisti l’unica speranza di sopravvivenza di questi diritti e valori.
L’autore obiettivamente non manca di registrare le critiche alla lettera formulate da parte cattolica. Infatti da molti fu sostenuto che essa compromise in modo definitivo la Chiesa con il regime di Franco. Tuttavia la lettera fu una denuncia molto coraggiosa e risvegliò la coscienza mondiale di fronte agli orrori della guerra in Spagna.
Lo stesso Pio XI nel settembre del 1936 pronunciò un discorso che ebbe grande ripercussione nella stampa mondiale perché era – afferma l’autore – il primo pronunciamento della Santa Sede sulla situazione spagnola. Pio XI deplorò la guerra civile e il veleno della propaganda bolscevica.
Fra le osservazioni di Ortí spiccano quelle relative ai parallelismi franchisti-Chiesa cattolica e governo spagnolo-comunisti atei. Egli infatti non ritiene giusto ridurre la guerra civile spagnola a uno scontro tra ateismo e religione. Non sono stati soltanto eventi bellici le migliaia di esecuzioni di religiosi che venivano fucilati non perché franchisti ma perché sacerdoti. E nei periodi in cui più tragica e più diffusa fu la persecuzione a tutto il territorio della Repubblica e non soltanto alle zone di combattimento fu evidente che c’erano in proposito ordini precisi delle autorità civili del governo repubblicano.
In conseguenza di questo modo di vedere le cose, a parte le convinzioni politiche, fu soprattutto la convinzione religiosa dei singoli a far propendere per i franchisti o per i governativi. I cattolici, senza stare tanto a pensarci, auspicavano che la guerra fosse vinta da Franco mentre chi aveva idee politiche di sinistra sperava che i “fascisti” fossero sconfitti. Su questo punto l’autore tiene a precisare che Franco non era un fascista ma si servì del fascismo per liquidare spietatamente i suoi avversari. E confessa onestamente di avere egli stesso ai tempi della guerra parteggiato per Franco.
In conclusione il volume è assai interessante, e conciso, ha l’essenzialità propria delle opere storiche, si appoggia su una ricchezza di citazioni e di dati. Con la precisione che lo distingue ha anche cercato di verificare e rettificare molti dati che comunemente vengono riportati su quella catastrofica guerra e sono numeri tanto più impressionanti in quanto si tratta di un popolo di antica civiltà cattolica che ha fatto strage dei suoi religiosi e raso al suolo splendide cattedrali, chiese e conventi. Secondo un rapporto del 1960, furono fucilati 4184 sacerdoti e seminaristi, 13 vescovi, 2365 religiosi e 283 religiose.
Il libro contiene anche un elenco dei martiri che sono stati beatificati da Giovanni Paolo II.

Liliana Piccinini




Tommaso e l’eredità di Agostino


Battista Mondin, Storia della metafisica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1998

Battista Mondin, Storia della metafisica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1998

Presentati a Roma lo scorso novembre dal cardinale Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, i tre volumi di Storia della metafisica (Edizioni Studio Domenicano, 1998) sono l’ultima fatica di padre Battista Mondin, saveriano, celebre filosofo e teologo. Autore fecondissimo (suoi oltre settanta volumi e migliaia di saggi), è noto anche come grande amante e studioso di san Tommaso e della metafisica dell’actus essendi. «Tutti gli elementi tratti dai due grandi padri della metafisica, Platone e Aristotele» scrive l’autore, «acquistano in san Tommaso un nuovo vigore e un nuovo significato grazie al fecondo e potente lievito del suo concetto dell’Essere». La conoscenza dell’Essere, spiega Mondin, può avvenire solo per concetti allusivi, analogici. E il rapporto con il santo vescovo di Ippona? Afferma Mondin: «È sotto gli occhi di tutti: più del settanta per cento delle citazioni di Tommaso sono riprese da Agostino…».

Giovanni Cubeddu




Luci della parrocchia


Sonia Mantelli, Dalla sala parrocchiale alla sala della comunità, Acec, Roma 1999

Sonia Mantelli, Dalla sala parrocchiale alla sala della comunità, Acec, Roma 1999

Costituita il 18 maggio 1949, l’Associazione cattolica esercenti cinema (Acec), è l’organizzazione che coordina tutte le sale parrocchiali in Italia. È stata creata su mandato dell’episcopato italiano per rappresentarle e tutelarle. In occasione del cinquantenario dell’Acec, celebrato proprio in vista del Giubileo, Sonia Mantelli traccia un bilancio della sua attività: dai primi difficili anni di vita dell’Associazione, anni in cui la Chiesa tardava a riconoscere nel cinema uno straordinario strumento di comunicazione e di formazione evangelica, fino alla creazione della “sala della comunità”, in cui ad essere protagonista della gestione del cinema non è più solo il parroco e la comunità parrocchiale. Un passaggio fondamentale per la Mantelli che lo sottolinea più volte.
Era stato Pio XI a parlare della validità del cinema come strumento comunicativo nell’enciclica del 29 giugno 1936, Vigilanti cura, documento in cui, però, si sottolineava anche la potenziale azione dannosa della settima arte, utilizzata spesso senza un confronto con la morale. Naturale che l’Acec, nata sulla spinta dell’enciclica papale pochi anni dopo, soffrisse fin dall’inizio di difficoltà e contraddizioni. Un’altra enciclica darà un impulso decisivo all’attività dell’Acec: la Miranda prorsus di Pio XII, che fissa il punto di partenza per la formulazione di una teologia della comunicazione audiovisiva. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta emerge anche la necessità di mettere più in luce la funzione pastorale dell’Associazione. Una funzione che sarà ratificata nel documento conciliare Inter mirifica. In questo senso si colloca la nascita dell’Associazione nazionale circoli cattolici italiani (Ancci), un organismo di promozione culturale sorto in seno all’Acec. Oggi la nascita di nuove forme di comunicazione multimediali, tra tutte Internet, non ha trovato impreparati i vertici dell’Associazione, che negli statuti del 1988 e del 1998 allargano il proprio raggio d’azione a tutto ciò che rientra nelle comunicazioni sociali. In chiusura il volume ci aggiorna su tutte le attività collaterali, ma fondamentali, dell’Acec: il bimestrale Il nostro cinema (diretto da don Dario Viganò), giornate di studio e corsi di formazione.

Antonio Termenini


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