Home > Supplementi > Diario vietnamita 1962-1968

Diario vietnamita 1962-1968

Diario vietnamita 1962-1968

Gli anni-chiave della guerra nelle annotazioni dell'ambasciatore italiano a Saigon.

La storia segreta delle operazioni Marigold e Killy

 

Introduzione di Giulio Andreotti e prefazione di Roberto Rotondo

di Giovanni D'Orlandi

€ 10,00

Presentazione

Introduzione di Giulio Andreotti

È questo il momento giusto per pubblicare il diario del nostro ambasciatore nel Viet Nam del Sud in una fase storica di grande rilievo, sulla quale non mancano saggi cronistorici, ma tutti pregiudizialmente ispirati da condivisione dell’uno o dell’altro fronte.
Servitore dello Stato italiano nel senso più rigoroso di questa espressione, D’Orlandi si trovò a far fronte anche alle complicazioni della politica parallela che vedeva Giorgio La Pira in visita “personale” ad Hanoi.
Sullo sfondo vi è l’onda lunga dei movimenti d’indipendenza che il corso della guerra mondiale aveva suscitato e spinto non senza forti punte di ipocrisia. Mentre a noi venivano tolte le colonie ritenendosi superati questi domini, altri – e specificamente la Francia – ritenevano di dover mantenere le sovranità d’oltremare. Non a caso Parigi seguiva con contrapposti sentimenti le sorti della Libia, con la facile intuizione che non sarebbero state prive di riflessi nelle vicine Tunisia e Algeria.
Ci sembrò allora di essere ingiustamente puniti dai potenti che dettavano le condizioni agli sconfitti. Ma quanto accadde dopo non molto all’Africa “francese” ci porta a ringraziare Dio per avere risparmiato il tragico e sanguinosissimo cammino della contrastata indipendenza.
Sull’Indocina si posero riflettori di forte portata, essendo divenuto uno dei banchi di prova del comunismo sia di marca russa che di marca cinese. A sostenere il perdurare della presenza francese intervennero con tutta la loro potenza gli Stati Uniti. Sulla carta il potenziale bellico americano avrebbe dovuto lasciar pendere facilmente la bilancia dalla parte di Parigi. Lo scontro, divenuto presto internazionale, dimostrò però che il fattore uomo pesa più di ogni disparità di mezzi.
Le tappe della via crucis dell’indipendenza vietnamita – anche con l’autonomia del Laos e della Cambogia – sono state lunghe e dolorosissime.
Ricordo quanto mi disse il cardinale Spellman quando si stava constatando che la superiorità dei mezzi non comportava il successo. Temeva l’insorgere di una profonda crisi morale nel popolo americano, che riteneva di essere una specie di “braccio di Dio” avendo fatto pendere dalla parte giusta la bilancia, sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale.
Il periodo cui si riferisce il diario di D’Orlandi è quello successivo all’illusione che l’indipendenza del Nord chiudesse la partita vietnamita. Non fu così e si registrano sottofondi tragici di contrasti anche religiosi (riflessi della divisione tra buddisti e cristiani) che scuotono una comunità sempre più provata.
Tra morti e feriti la guerra è costata al popolo vietnamita oltre sette milioni di vittime (in gran parte civili bombardati) e al popolo americano sessantamila morti e centomila mutilati. Una lunghissima guerra durata 2.376 giorni.
D’Orlandi appare un diplomatico attento, rispettoso, dotato di forti capacità intuitive senza avere alle spalle massicci apparati informativi e di progettazione. Anche quando la salute fu fortemente compromessa non abbandonò la sua frontiera diplomatica e fece acquisire all’Italia rispetto e ammirazione.
Nel mondo l’eco delle vicende vietnamite ebbe ripercussioni profonde divenendo anche simbolo di contrapposizioni politiche spesso strumentalizzate, con le vesti di partigiani della pace.
Oggi si può ricostruire la vicenda e valutarla non più con il condizionamento delle passioni. Emerge comunque il monito a non dimenticare mai che alla fine la vittoria è degli uomini e non dei mezzi di cui si dispone.
Sono molto grato a Colette D’Orlandi che ha riservato a noi di 30Giorni il privilegio di far conoscere le pagine drammatiche di uno spaccato storico che non va dimenticato.

 

 

 



Prefazione di Roberto Rotondo

«Preceduto dalla nostra segnalazione cifrata, è venuto a vedermi stasera Lewandowsky che ha ricevuto la circostanziata relazione dell’addetto militare polacco nel Nord Viet Nam sul bombardamento effettuato dagli americani il 2 dicembre ad Hanoi. I termini della relazione fanno paura: “bombardamento indiscriminato e selvaggio dei sobborghi meridionali di Hanoi”, “cannoneggiamento e mitragliamento del centro stesso della città”, “il numero di vittime in Hanoi per quel bombardamento tra morti e feriti supererebbe la cifra di 600”». L’8 dicembre del 1966, Giovanni D’Orlandi, ambasciatore italiano a Saigon, scrive queste note sul suo diario. D’Orlandi è sconvolto, ma riporta minuziosamente ogni particolare dell’incontro. La situazione è delicatissima: lui, l’ambasciatore statunitense Henry Cabot Lodge e l’ambasciatore polacco Janusz Lewandowsky hanno aperto un «canale tripartito», come lo definisce D’Orlandi, e da giugno stanno portando avanti, tra mille difficoltà, una trattativa segreta, denominata dagli americani “operazione Marigold”, per fermare la guerra in Viet Nam. Il progetto dei tre si basa su un documento di dieci punti che deve essere accettato sia dai vietnamiti del nord che dagli americani. Due giorni prima, il 6 dicembre, D’Orlandi è raggiante perché l’accordo sembra a un passo. Ma la situazione, nel giro di quarantott’ore, si rovescia completamente, a causa di coloro che preferiscono l’odore delle bombe al napalm a quello della carta dei trattati di pace. Continua infatti D’Orlandi: «Questo bombardamento famigerato, immediatamente successivo alla fase del nostro tentativo tripartito, ha avuto luogo dopo un periodo di notevole diminuzione dei bombardamenti […]. Lewandowsky ha parole roventi per bollare il bombardamento, a seguito del quale Hanoi gli ha telegrafato il testo di una protesta da diffondere nel mondo civile. Con grande difficoltà Lewandowsky è riuscito a dissuadere Hanoi dal pubblicare tale protesta due giorni fa (proprio il 6!). Continua tracciandomi un quadro desolante delle distruzioni civili, e non militari, dovute ai bombardamenti. Mi dice che in questo modo i negoziati a Varsavia stanno per naufragare prima ancora del loro inizio e mi prega di fare presente al segretario di Stato Rusk (che vedrò a cena domani sera) quanto una simile provocazione sia aberrante. Tutti sanno, mi dice, che se si negozia ci si aspetta una diminuzione dei bombardamenti o quanto meno che essi non accrescano d’intensità; nel nostro caso, a ogni significativa intesa ha fatto seguito un grave inasprimento dei bombardamenti!».
Questo brano del 1966, tratto da una delle oltre mille pagine dattiloscritte che compongono il diario vietnamita che D’Orlandi tenne dal luglio 1962 al dicembre 1968, solleva immediatamente una domanda: mentre la crisi del Viet Nam stava procedendo sulla strada maestra dell’intensificazione dello scontro militare, ci fu la concreta possibilità di farla deviare sul sentiero stretto delle trattative di pace? Il diario di D’Orlandi ci testimonia che la possibilità c’era, ma la storia ci dice che questo sentiero di pace, aperto dal canale “tripartito” di Saigon, fu presto smarrito, e la guerra guerreggiata, anche se mai dichiarata, si fermerà solo il 30 aprile 1975, con l’entrata a Saigon dei vietcong vittoriosi. Allora si stilarono i bilanci di quella tragedia: sette milioni di tonnellate di bombe (più di quante ne furono esplose durante tutta la Seconda guerra mondiale) su un territorio poco più grande dell’Italia, sessantamila militari americani e un milione e mezzo di combattenti vietnamiti uccisi, quattro milioni di morti tra i civili, devastazioni immense di cui ancora oggi il Viet Nam, a trent’anni dalla fine della guerra, porta le cicatrici.
La storia dell’operazione diplomatica “Marigold”, che fu seguita nel 1968 dall’“operazione Killy”, non è stata mai del tutto chiarita e approfondita. Le indiscrezioni uscite sui giornali dell’epoca, in alcuni casi per affondare le due iniziative diplomatiche stesse, e, in seguito, le rare ricostruzioni storiche di alcuni studiosi, si fermano di fronte alla scarsità di documenti. Il diario di Giovanni D’Orlandi, scomparso nel 1973, quando era ambasciatore ad Atene, fornisce agli studiosi una preziosa ricostruzione ragionata degli avvenimenti, elaborata giorno dopo giorno da uno dei principali artefici delle due operazioni segrete. Ma non è solo questo il motivo di interesse del diario, totalmente inedito, che 30Giorni, in stretta collaborazione con la moglie del diplomatico italiano, Colette, e con la figlia Daniela, pubblica in occasione del trentennale della fine della guerra in Viet Nam. Il diario, infatti, avvincente e leggibile come un romanzo storico, ci permette di ricostruire da un punto d’osservazione assolutamente privilegiato tutto il periodo dell’escalation dell’impegno militare Usa in Viet Nam. Basti pensare che alla fine del 1962 i soldati americani presenti in Viet Nam (con lo status di consiglieri militari) sono 11mila, e nel 1968 arrivano alla cifra record di 580mila.
Questi sono gli anni in cui «quel piccolo piscioso Paese», come lo definì il presidente Usa Lyndon Johnson, che aveva ereditato il problema da Kennedy e lo avrebbe lasciato come eredità a Nixon, da crisi regionale del Sud-Est asiatico su cui Stati Uniti e Urss (con l’aggiunta della Cina come terzo incomodo) esercitavano la loro pressione, diventò per gli Usa un incubo, uno shock nazionale che cambierà la stessa concezione dell’american way of life e alimenterà le manifestazioni sessantottine in tutto il mondo. Inoltre il diario è il racconto drammatico dell’implosione politica e sociale del Sud Viet Nam, e dell’ex Indocina in generale. Il collasso di una nazione travolta dalla guerra civile, da un numero infinito di colpi di Stato, dalla corruzione, dalla miseria, dalle lotte tra diversi fondamentalismi religiosi, dal traffico di droga in cui erano coinvolte alte cariche dello Stato e dell’esercito. A nulla serviranno i giganteschi aiuti economici e militari da parte degli Usa. Anzi, come scrive D’Orlandi, proprio la mancanza di una strategia chiara da parte degli americani e l’incapacità di comprendere i meccanismi di una società così diversa dalla loro, finiranno per complicare ancora di più la situazione, creando frustrazione e lassismo nel popolo sudvietnamita.

Diem il “cesaropapista”
Quando, il 17 luglio 1962, sotto una battente pioggia tropicale, Giovanni D’Orlandi, ambasciatore italiano presso il Viet Nam, la Cambogia e il Laos, atterra per la prima volta a Saigon, pur sapendo che lo attende un lavoro difficile (è una delle migliori feluche della Farnesina), non può neanche lontanamente immaginare cosa lo aspetterà negli anni a seguire. Il Viet Nam che trova è un Paese diviso in due all’altezza del diciassettesimo parallelo dagli accordi di Ginevra del 1954. Accordi mai rispettati, né a Nord dal regime comunista di Ho Chi Minh, appoggiato prima dalla Cina e, in seguito, dall’Urss, né a Sud dal governo del nazionalista cattolico Ngo Dinh Diem, sostenuto fin dal 1954 dagli Usa, perché, secondo i dettami della famosa “teoria del domino” elaborata ai tempi della presidenza Eisenhower, se il Paese fosse finito interamente nelle mani dei comunisti, l’intero Sud-Est asiatico avrebbe inevitabilmente seguito la stessa sorte.
Uno scenario che, per quanto grave, non è nel luglio del 1962 al primo posto dell’agenda del presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy. Jfk, succeduto nel 1961 a Eisenhower, infatti, ha ben altre gatte da pelare e a ottobre deve, con un blocco navale, costringere i sovietici a ritirare i missili strategici da Cuba. Il Viet Nam, quindi, è solo uno dei molteplici scenari di quella fase storica che è stata definita di “coesistenza competitiva” tra i due blocchi. Fase in cui, in tutte le zone del globo, Usa e Urss cercano di limitare l’influenza del rivale.
D’Orlandi, fin dalle prime pagine del suo diario vietnamita, descrive una situazione politica, economica e militare difficile. Il presidente Diem, acceso nazionalista anticomunista, non riscuote più il successo di un tempo a Washington, e anche nel Viet Nam del Sud la sua popolarità sta precipitando, tanto che nel febbraio del ’62 aveva subito un attentato, e il suo palazzo era stato bombardato da due piloti sudvietnamiti.
Il governo Diem è un regime a “conduzione familiare”: il fratello Nhu, suo consigliere politico, è la vera eminenza grigia del governo; la cognata, essendo Diem scapolo, è diventata una sorta di first lady; l’altro fratello, Thuc, è l’arcivescovo cattolico di Hué, la città imperiale di fondamentale importanza per gli equilibri sociali e religiosi del Viet Nam. I cattolici, che rappresentano solo il dieci per cento della popolazione, sono accusati dai buddisti di detenere le leve del potere in ogni campo. Molti di loro provengono dal Nord e hanno lasciato tutto per fuggire dal regime comunista e dalle sanguinose conseguenze della riforma delle campagne, avviata dal regime di Hanoi e di cui lo stesso Ho Chi Minh ammise in seguito il fallimento. Nonostante questa base di consensi, l’assedio alla famiglia Diem è evidente e loro non fanno certo nulla per dimostrarsi più aperti e tolleranti, anzi, continuamente coinvolgono il mondo cattolico in manifestazioni e prese di posizione intransigenti, anticomuniste e guerrafondaie. D’Orlandi, fin dal primo momento, è preoccupato della situazione religiosa in Viet Nam: le repressioni poliziesche delle manifestazioni buddiste, il cinismo della signora Nhu, che dichiarava di voler fornire benzina e fiammiferi per i bonzi che si davano fuoco per protestare contro il regime, le provocazioni dell’arcivescovo di Hué, non solo esasperavano la situazione politica, ma venivano fatte pagare ai tanti cattolici che non si riconoscevano affatto nelle idee della famiglia Diem ed erano alle prese, come il resto della popolazione, con ben altri guai. Uno di questi era il progetto dei “villaggi strategici” che si stava realizzando: la popolazione delle campagne, tra mille difficoltà, veniva costretta a vivere in villaggi circondati da filo spinato e fortificazioni, per impedire la continua infiltrazione di vietcong tra i contadini. Lo stesso era stato fatto per i quartieri delle grandi città. Ma i risultati erano disarmanti se non controproducenti. D’Orlandi dedica pagine molto interessanti ai villaggi fortificati, stupito dal fatto che non nascevano solo da motivi strategici, ma anche ideologici: infatti, per la famiglia Diem, come il nemico vietminh utilizzava tattiche di guerriglia desunte dalla dottrina di Mao Tse-tung, così i villaggi strategici, nati per difendere il contadino dai comunisti, ma trasformatisi in prigioni, traevano ispirazione dalla filosofia personalista francese. Era una sorta di purificazione per la popolazione. Per D’Orlandi, cattolico anche lui, questa è pura follia e cercherà sempre di aiutare concretamente tutti quegli ambienti cattolici che non si allineavano a posizioni intransigenti e fondamentaliste. Alcuni sacerdoti vietnamiti, o missionari come don Mario Acquistapace, o diplomatici come monsignor Asta, che D’Orlandi incontra nei primi giorni del suo arrivo a Saigon, diverranno tra i suoi amici e consiglieri più stretti e fidati. Inoltre ancora oggi esiste, a una sessantina di chilometri da Saigon (oggi Ho Chi Minh Ville), l’orfanotrofio Lina, tenuto da suore salesiane, che D’Orlandi realizzò negli anni della sua permanenza a Saigon e che intitolò alla mamma.
Tornando al 1962, nel diario molte pagine sono dedicate sia al Laos che alla Cambogia del principe Norodom Sihanouk, la cui politica neutralista è seguita con particolare attenzione da D’Orlandi. Pur rilevando la fragilità e l’ambiguità della posizione cambogiana, D’Orlandi ne coglie alcuni elementi positivi e intuisce come un eventuale crollo della Cambogia, dovuto all’attrito con il Viet Nam del Sud e con gli Usa, possa ulteriormente complicare lo scenario. La lettura di queste pagine, con il senno di poi, muove a domandarsi se proprio l’aver messo in difficoltà Sihanouk non abbia facilitato l’ascesa dei khmer rossi e di uno dei più sanguinari regimi della storia, quello di Pol Pot.
Nell’agosto del 1963 D’Orlandi stringe amicizia con l’ambasciatore Usa Henry Cabot Lodge, con il quale, per salvare il governo di Diem, condivide il piano di allontanare dal Paese il fratello Ngo Dinh Nhu, leader del Partito personalista e anima più intransigente del governo. Diem è stretto ormai in una morsa e sotto pressione mediatica internazionale, dopo che in giugno una delle manifestazioni buddiste (a volte non immuni da infiltrazioni vietcong) era finita nel sangue. Il progetto di Cabot Lodge fallisce e, nonostante le dichiarazioni ottimistiche alla stampa di Robert McNamara e del generale Maxwell Taylor, inviati da Kennedy in visita in Viet Nam, inizia il cupio dissolvi dell’epoca di Diem, fino al colpo di Stato, organizzato dai generali sudvietnamiti con l’appoggio degli Usa, il 1° novembre. La sera stessa del golpe, D’Orlandi, che dava per scontato questo evento fin da agosto, si ritrova in salotto tre ministri del governo appena rimosso che chiedono asilo e protezione. Non è un caso: D’Orlandi è talmente dentro la vita politica, pur mantenendosi super partes, da poter offrire perlomeno un rifugio sicuro. Così quella di riparare dentro l’ambasciata italiana di via Pasteur diventerà un’abitudine negli anni a venire per ministri e generali “dimissionati”. Disgraziatamente Diem e il fratello Nhu non hanno la stessa fortuna, perché vengono catturati in chiesa e uccisi dai rivoluzionari: «La più grossa tragedia della guerra del Viet Nam», commenterà il capo della Cia William Colby, intuendo che gli Usa si stavano impantanando in una situazione pericolosa.
Ma gli americani sono presto costretti a guardare altrove, perché, venti giorni dopo, viene ucciso il presidente Kennedy a Dallas; gli succede, come detto, il suo vice, Lyndon Johnson.

L’escalation militare degli Usa
Quello di Diem fu solo il primo di una serie di colpi di Stato e di manovre che porteranno al governo generali come Minh, Khanh e Cao Ky, i quali avranno per le sorti del Viet Nam del Sud un effetto devastante quanto la guerriglia vietcong. D’Orlandi in questi anni non è solo un testimone intelligente e per questo scettico sulla possibilità di vittoria da parte del Viet Nam del Sud, ma in alcuni casi viene anche sollecitato dalle componenti vietnamite più moderate per far sì che gli Usa non appoggino la salita al potere degli elementi più violenti ed estremisti dell’esercito.
Agli inizi del ’64, dopo il colpo di Stato del generale Khanh, D’Orlandi registra una situazione militare non incoraggiante: le nuove tattiche di combattimento adottate dai sudvietnamiti e dai consiglieri americani penalizzano più i contadini che il nemico; i villaggi strategici, ribattezzati “villaggi di vita nuova”, continuano a cadere nelle mani dei vietcong, che, con l’aiuto dei nordvietnamiti, controllano a macchia di leopardo ampie zone del Paese, tra cui quella di vitale importanza del Golfo del Mekong, la risaia del Viet Nam, dove vive metà della popolazione, mentre le città sono continuamente bersagliate da colpi di mortaio e attentati dinamitardi. Solo a Saigon, secondo il diario, ci sarebbero almeno seicento cellule di vietcong in attività. A livello diplomatico si accentua la frizione con la Francia, ex padre-padrone dell’Indocina, che chiede la neutralizzazione del Paese, mentre gli Usa cominciano a ipotizzare di prendere su di sé il peso di una guerra che, fino a quel momento, si è combattuta sostanzialmente tra vietnamiti (i caduti statunitensi finora sono solo una settantina). Ipotesi che inizia a prendere corpo dopo che, il 2 agosto, i nordvietnamiti, nel Golfo del Tonchino, attaccano la nave Usa Maddox (incidente su cui D’Orlandi nutre da subito molte perplessità temendo, come molti, che sia stato provocato dagli americani per convincere il Congresso a dare carta bianca sul Viet Nam al presidente Johnson, a soli tre mesi dalle elezioni presidenziali). L’ambasciatore italiano è pessimista sulla situazione, e a settembre dà il Sud Viet Nam per perduto. Se a livello internazionale comprende bene che tutto dipende dai rapporti Usa-Urss-Cina, a livello interno egli registra un graduale peggioramento della situazione sociale: la borghesia sudvietnamita che imbosca i propri figli mandando solo i figli dei poveri a morire per difendere il Paese; il generale sudvietnamita Thi che regola i conti con i villaggi cattolici accusandoli di sedizione e bombardandoli senza pietà: sono solo due dei tanti segnali che l’ambasciatore registra sul suo diario. Solo nel settembre del 1966 D’Orlandi registra un segnale in controtendenza: una larga maggioranza di vietnamiti partecipa alle elezioni per l’Assemblea costituente, nonostante gli appelli dei vietcong e dei buddisti a disertare le urne. Segno che il sentimento nazionale del popolo è ancora vivo.
Ma torniamo al 1965. Nel febbraio, dopo un attacco alla base Usa di Pleiku, Johnson, che ha da poco vinto le elezioni presidenziali, si convince ad autorizzare i bombardamenti del Viet Nam del Nord. Il primo dei quali avviene proprio mentre il presidente del Consiglio sovietico Kossygin è ad Hanoi per convincere i nordvietnamiti a trattare. Inoltre inizia dopo poco lo sbarco in forze di marines e truppe da combattimento, che dà il via alle operazioni terrestri su vasta scala dell’esercito statunitense per riprendere il controllo di un territorio, quello sudvietnamita, che sfuggiva sempre di più al governo di Saigon.
Ma i tanti bombardamenti massicci sul Viet Nam del Nord, con i quali gli Usa pensavano di costringere i nordvietnamiti alla resa, non produssero mai gli effetti sperati. Scrive infatti D’Orlandi nel suo diario: «Non capisco perché gli americani si ostinino così pervicacemente a voler continuare i bombardamenti giacché le infiltrazioni dei nordvietnamiti invece di diminuire sono quadruplicate. Da fonte autorevole ho appreso che solo nell’ultimo mese non sono state inferiori a 22mila uomini».
Ma non è l’unica cosa che D’Orlandi non riesce a spiegarsi, perché, prendendo in esame la componente economica, che per lui non è secondaria rispetto a quella militare, il 29 maggio del 1966 scrive: «Se l’aiuto americano sinora stanziato fosse stato distribuito pro capite, ogni famiglia vietnamita avrebbe oggi una casa, un frigorifero, la televisione e l’orto. Vorrei sapere in quale settore civile sia stata creata una solida infrastruttura o quale problema economico sia stato risolto. In questo Paese, a fianco dell’affarismo sfacciato, e dell’intrallazzo, si procede senza alcun piano preordinato. Quando l’alluvione ha provocato l’esodo di centinaia di migliaia di persone, tra cui 200mila cattolici, non è stato dato che un pugno di riso e qualche coperta. L’uomo della strada non vede alcun aiuto concreto da parte degli Usa ed è convinto che gran parte dei dollari profusi sia tornato in America, in Svizzera o a Hong Kong. Come è possibile nell’attuale caos politico-economico-militare controbattere gli argomenti di quei vietnamiti (e sono sempre più numerosi) che sostengono che in tanta corruzione vietnamita e straniera i soli ancora onesti sono i vietcong? Molto si poteva fare, e forse si potrebbe ancora tentare di fare, per evitare questo stato di cose, e ben poco è stato fatto. Per quanto mi concerne, ho sempre creduto di dover esprimere con molta franchezza agli amici americani quanto mi constava e quanto mi preoccupava. Quando si dovesse, al Senato e al Congresso, aprire un’ampia inchiesta sugli errori e le colpe che hanno fatto precipitare la situazione vietnamita, non vorrei essere nei panni dei vari dirigenti dell’aiuto economico americano a Washington o nel Viet Nam».

L’“operazione Marigold”
Un mese dopo questa spietata analisi, il 27 giugno del 1966, D’Orlandi riceve la visita del delegato polacco presso la Commissione di armistizio di Ginevra, Janusz Lewandowsky. Costui rappresenta un Paese oltrecortina con stabili rapporti con Hanoi ed è latore di un messaggio che lascia D’Orlandi di stucco: Hanoi è disponibile a un compromesso per la sistemazione del conflitto nel Viet Nam e non esige né la riunificazione immediata del Paese, né vuole imporre un sistema socialista al Viet Nam del Sud, né chiede il ritiro immediato delle forze Usa. Però non accetta soluzioni che possano essere lette come una capitolazione e pretende, oltre alla totale segretezza sull’operazione, anche la fine dei bombardamenti. Due giorni dopo D’Orlandi incontra l’ambasciatore Usa Cabot Lodge per riferire ogni particolare della proposta di pace ricevuta da Lewandowsky. Il presidente Johnson viene informato da subito ma per i falchi dell’amministrazione, nonostante Lewandowsky dimostri di poter andare e tornare senza problemi da Hanoi, non c’è prova che sia stato incaricato di trattare. E anche qualora lo fosse, potrebbe essere solo una manovra da parte dei vietnamiti del Nord per attirare consensi a livello internazionale mostrandosi disponibili alla pace. Ma D’Orlandi e Cabot Lodge non la pensano così e nel diario ci sono molti elementi che fanno capire che dall’altra parte del fronte facevano sul serio. Inoltre Lewandowsky informa Cabot Lodge che il suo referente ad Hanoi è il primo ministro Pham Van Dong in persona. Il ritmo del diario diventa incalzante, traspare da queste pagine la passione con cui D’Orlandi, dipinto da tutti impassibile e pignolo, vive il momento più importante ed esaltante della sua carriera. Lewandowsky, d’accordo con D’Orlandi, elabora un documento di dieci punti, detti “scalini”, perché dovevano essere accettati uno dopo l’altro fino ad arrivare all’accordo finale. Cabot Lodge viene anche autorizzato ad affermare che i dieci scalini rappresentano sostanzialmente la posizione americana. Ma i falchi dell’amministrazione Usa, tra cui il segreterio di Stato Dean Rusk e Walt W. Rostow, consigliere del presidente per la Sicurezza nazionale, restano freddi. E i bombardamenti non cessano. Anzi.
I tre ambasciatori cuciono e riparano per mesi ogni strappo causato dalla continua e colpevole fuga di notizie, dall’arrivo sulla scena di nuovi interlocutori che creano confusione, dai timori dei vertici del Sud Viet Nam di essere lasciati soli. Nel novembre del ’66 sono proprio gli Usa a ridare slancio all’“operazione Marigold”, che, tra alti e bassi, arriva fino ai primi di dicembre, quando, come abbiamo letto, nel giro di poche ore la calendola (in inglese “Marigold”, appunto), invece di sbocciare, appassisce senza rimedio sotterrata sotto una pioggia di bombe: dopo l’ennesimo raid su Hanoi, quello del 13 dicembre, i nordvietnamiti chiudono ogni trattativa. Segue un periodo buio, i polacchi vengono accusati dagli americani di aver bluffato e D’Orlandi, che comincia anche a sospettare di essere stato usato dagli Usa per saggiare le intenzioni del nemico, viene tacciato di ingenuità. A gennaio scrive: «Il nostro tentativo è morto ed è morto trucidato. Dio perdoni coloro che si sono presi questa schiacciante responsabilità».

L’“operazione Killy” e le trattative di Parigi
Eppure sotto la cenere, non tutte le speranze di riallacciare i fili della trattativa sono spente. A marzo 1967 Lewandowsky torna alla carica: ha ottenuto che Hanoi togliesse la pregiudiziale dei bombardamenti sul Nord per avviare i sondaggi. La partita non è chiusa quindi, e i contatti riprendono. Ma quello tra Hanoi e Washington resta comunque un dialogo tra sordi: anche quando a settembre, a San Antonio, il presidente Johnson parla di cessazione dei bombardamenti in cambio di “discussioni produttive”, di fatto invece che aprirla chiude la porta in faccia alla pace, perché esige un contraccambio per qualcosa che i nordvietnamiti ritengono un abuso gravissimo: il bombardamento di un Paese non ufficialmente in guerra con gli Usa. In realtà i comandi americani erano convinti di essere a un passo dalla vittoria: l’esercito, che da un anno aveva messo in campo tali forze che sembrava non potesse in nessun caso perdere, aveva sostituito in toto i vietnamiti nell’azione di bonifica dei territori considerati nelle mani dei vietcong. E, nonostante perdurassero gli attentati a Saigon, i falchi erano convinti che si potesse discutere con Hanoi solo da vincitori. Ma, come testimonia Lewandowsky, anche dall’altra parte del fronte esisteva un partito di falchi convinti che la pace sarebbe arrivata solo con la vittoria militare. E il 31 gennaio del ’68, il giorno del Tet (capodanno vietnamita), vietcong e nordvietnamiti attaccano simultaneamente le maggiori città sudvietnamite. Per gli Usa è una doccia gelata. I vietcong sono dappertutto e, come racconta D’Orlandi nel diario, la reazione americana è rabbiosa. Per riconquistare Hué alla fine di febbraio, vengono uccisi migliaia di civili e i monumenti dell’antica città imperiale sono ridotti in macerie. Cabot Lodge è già stato sostituito da tempo da Bunker, e D’Orlandi, anche per motivi di salute, ha lasciato il suo incarico il 4 aprile del 1967, pur continuando a seguire la situazione vietnamita da Roma in quanto, su incarico di Fanfani, cerca in tutti i modi di tenere aperto il canale tripartito. Inoltre era tornato a Saigon, chiamato dal ministro degli Esteri sudvietnamita Tran Van Do, per scongiurare gli Usa di non appoggiare la scalata del generale Ky alla presidenza della Repubblica. Proprio nel periodo più critico dell’offensiva del Tet si svolge gran parte dell’“operazione Killy”. D’Orlandi aveva già incontrato più volte i nordvietnamiti a Praga alla fine del 1967. Il suo interlocutore era l’ambasciatore nordvietnamita a Praga Phan Van Su, il massimo rappresentante di Ho Chi Minh in Europa, e il suo tramite era Carlo Galluzzi, responsabile Esteri del Pci. I dieci scalini rappresentavano ancora la piattaforma più elaborata di accordo. Nel diario sono minuziosamente descritti i particolari inediti di questi viaggi e le basi su cui iniziare un dialogo: «Se cessano i bombardamenti, Hanoi si metterà in contatto con Washington», afferma Su.
Il 5 febbraio del ’68 Phan Van Su si incontra anche a Roma con Fanfani, ben deciso a proporsi come mediatore. D’Orlandi è chiaramente della partita e riporta nel diario tutti i passaggi chiave dei colloqui tra Su e il ministro degli Esteri italiano. Ma l’“operazione Killy” si arresta presto, anche perché trapelano molte notizie sui giornali. Rusk ringrazia pubblicamente Fanfani, ma di fatto lo mette fuori gioco, e anche Hanoi si rimangia tutto.
Comunque l’epoca Johnson sta finendo. Il presidente a marzo annuncia sia una parziale interruzione dei bombardamenti sia che non si ricandiderà alle elezioni. A Parigi, a maggio, si aprono trattative di pace che, come previsto realisticamente da D’Orlandi, non possono essere immediatamente produttive così esposte sotto i riflettori. La guerra, infatti, finirà solo sette anni dopo, e farà, in questo periodo, più morti che dall’inizio del conflitto. Ma il ’68, con l’inizio dell’epoca di Richard Nixon e del suo consigliere per la Sicurezza nazionale Henry Kissinger, resta un anno importante: si comincia a parlare di disimpegno e di vietnamizzazione del conflitto, e, paradossalmente, proprio nel 1968, quando lo scontro in Viet Nam tocca uno dei momenti più drammatici – con Breznev che assicura il completo appoggio militare al Viet Nam del Nord e i falchi Usa che dichiarano che non si può escludere il ricorso alla bomba atomica –, Usa, Urss e Inghilterra firmano l’accordo di non proliferazione nucleare, un caposaldo degli equilibri mondiali del secondo Novecento. Segno che, a dispetto della teoria del domino, l’Urss aiutava il Viet Nam non per accaparrarsi il Sud-Est asiatico ma per logorare il suo rivale e “ammorbidirlo” su altri fronti.
D’Orlandi, nominato ambasciatore italiano in Grecia, muore nel 1973 ad Atene per le complicazioni di una malattia del sangue, forse contratta durante gli anni della Seconda guerra mondiale passati come prigioniero degli alleati in India, e molto peggiorata negli anni a Saigon.
L’ambasciatore, che poteva chiudere il suo diario vietnamita allegando decine di attestati di stima ed elogi guadagnati sul campo, lo fa invece in modo ironico e amaro: senza un rigo di commento, riporta parola per parola un articolo velenoso contro di lui di A.W. Faber. L’articolo è del 17 novembre del 1968 e l’accusa più “leggera” è di essere una “mosca cocchiera” e un illuso, se pensa di essere stato tra coloro che hanno contribuito alla cessazione dei bombardamenti. Una tale dose di astio poteva essere giustificata solo dal fatto, pensiamo noi, che D’Orlandi fu davvero un elemento che contribuì alla ricerca della pace. Una pace che aveva però parecchi nemici, loro sì illusi di poter vincere sul campo di battaglia.



Español English Français Deutsch Português