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VITA CONSACRATA
tratto dal n. 04/05 - 2011

Intervista con l’arcivescovo João Braz de Aviz

Le pretese degli uomini e la pazienza di Dio


«Dicevo a Brasilia: se voi dei carismi più grandi mortificate e annullate i carismi  più piccoli perché avete come solo criterio quello di allargarvi e di prendere più spazio, questo non è da Dio». Incontro con il nuovo prefetto della Congregazione vaticana per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica


Intervista con João Braz de Aviz di Gianni Valente


Dai palazzi avveniristici di Brasilia a quelli carichi di storia d’Oltretevere il viaggio è lungo. Dom João Braz de Aviz, 64 anni, arcivescovo emerito della capitale brasiliana, ha compiuto il salto da poche settimane. Lo scorso 4 gennaio il Papa lo ha chiamato a Roma per guidare la Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica e per aprire una nuova stagione nei rapporti – sempre vivaci e talvolta agitati – tra la Sede apostolica e la galassia delle congregazioni e degli ordini religiosi.  

 Dom João Braz de Aviz nella Cattedrale di Brasilia [© Padre Sergio Durigon]

Dom João Braz de Aviz nella Cattedrale di Brasilia [© Padre Sergio Durigon]

Dom João, come è cambiata la sua vita da quando è arrivato a Roma?
JOÃO BRAZ DE AVIZ: Certo, il cambiamento è stato grande. A Brasilia c’erano più di due milioni e mezzo di fedeli, con 380 sacerdoti e 128 parrocchie, che visitavo spesso. Qui, il popolo non c’è, si vede solo quando ci sono le grandi adunate in piazza San Pietro...
E qualche volta, nei primi giorni, le è capitato di mangiare da solo...
A Brasilia, in casa, c’era sempre compagnia. Avevo come segretarie due mamme di famiglia, c’era la cuoca, eravamo una piccola comunità. Anche qui però, il raggio di amici si va allargando col tempo.
Lei, anche da piccolo, in famiglia, era abituato alle tavolate numerose.
I miei genitori erano del sud, io sono nato nello Stato di Santa Catarina. Ma quando avevo due anni i miei si sono trasferiti nello Stato del Paraná, in una zona che, come si diceva a quel tempo, cominciava a essere “colonizzata”. Il mio papà lì ha cominciato a lavorare come macellaio. Ho un fratello più grande, anche lui sacerdote, e poi ne sono nati altri sei. In tutto siamo cinque maschi e tre femmine. La più piccola, che ha la sindrome di Down, adesso ha 47 anni. Ricordo che quando nacque – allora eravamo a Borrazópolis – i miei per farla battezzare presero una carrozza coi cavalli e percorsero più di quaranta chilometri, perché non volevano aspettare.
Un bel viaggio, a quei tempi.
Dove vivevamo, all’inizio non c’erano sacerdoti. Il prete passava ogni tanto, una volta al mese. Erano i leader laici popolari a guidare le comunità, a tenere il catechismo e a favorire le pratiche della vita di fede come il Santo Rosario e la devozione al Sacro Cuore di Gesù. In quel tempo la Chiesa locale si basava molto su gruppi come l’apostolato della preghiera, o i figli di Maria… Anche papà e mamma aiutavano a tenere aperte le cappelle.
E poi, lei come è diventato prete?
Io, anche se ero ancora un bambino, già a sette anni, al tempo della prima comunione, ho percepito la vocazione, che poi è stata coltivata dalle suore di Santa Catarina, dove ero stato mandato per seguire le scuole. Quando avevo undici anni entrai nel seminario minore di Assis, nello Stato di São Paulo, a quattrocento chilometri dalla capitale. Lo avevano aperto i missionari del Pime. Alcuni di loro erano stati missionari in Cina, da dove erano stati espulsi dopo l’avvento al potere di Mao. Ci raccontavano le loro storie. Ricordo che erano persone profondissime, era bello crescere avendoli davanti agli occhi. E poi, da adolescente, incontrai anche la spiritualità del Focolare.
Come avvenne?
Conobbi un pittore ateo che dopo essersi convertito parlava di Dio in maniera viva e concreta. Fece colpo su di me, che ero un ragazzo. Pensavo: guarda un po’ questo ateo che adesso racconta con tanta forza dell’amore di Dio, e di come questo amore si scopre amando il fratello... Per me erano cose nuove. Io fino a quel momento pensavo all’educazione, che bisognasse essere gentili con gli altri per una questione di buone maniere. Mai pensavo che l’altro potesse essere servito come Gesù stesso.
Poi, il suo vescovo la mandò a studiare teologia a Roma. Era il ’67, il Concilio appena finito… Come ricorda quegli anni?
Studiai alla Gregoriana e poi un anno all’Ateneo Salesiano, per seguire i corsi di psicopedagogia. Ricevetti il diaconato a Roma, e tornai in Brasile solo nel 1972. Erano tempi segnati da tanti stimoli e da tante difficoltà. Tutto sembrava in movimento. Iniziava il travaglio portato dal Concilio. Si aggiornavano i vecchi ordinamenti, si ristrutturavano i corsi, ma c’era anche l’incertezza che segna tutte le fasi di passaggio e di revisione.
E in America Latina vi trovavate anche davanti all’emergere della Teologia della liberazione.
Eravamo idealisti, volevamo dare la vita per qualcosa di grande. La scelta di guardare ai poveri ci dava una speranza grandissima, soprattutto a noi che venivamo da famiglie povere. Eravamo pronti a mollare tutto, anche il seminario, se quell’impeto non fosse stato accolto e abbracciato nella realtà ecclesiale in cui vivevamo.
Suore missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta nella Basilica dell’Immacolata Concezione di Washington <BR>[© Associated Press/LaPresse]

Suore missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta nella Basilica dell’Immacolata Concezione di Washington
[© Associated Press/LaPresse]

Lei ha già spiegato che in quel passaggio, l’esperienza del Focolare la aiutò a superare il pericolo che tutto si dissipasse.
Dio mi ha custodito così. L’esperienza spirituale del Focolare è forte e semplice. Già alla fine degli anni Sessanta, Chiara Lubich ci invitava a rivedere il nostro modo di vivere, alla luce dell’amore di Dio. A volte anche a me sembrava che sottovalutasse l’esigenza della trasformazione sociale. Fu un passaggio difficile per molti. Ma così rimaneva la fiducia che c’era una strada, occorreva aver pazienza, ma si camminava insieme e non ci si perdeva. Siamo diventati sacerdoti con questa grande luce interiore, accompagnata da questo senso di inquietudine, di sospensione. Non ho mai voluto nascondere a me stesso la compresenza di questi due fattori. Pensavo: questa è la condizione in cui mi è toccato di vivere. Col tempo, questo mi ha aiutato a vedere che essere sacerdote non vuol dire esercitare un “dominio” religioso sulla propria vita e sulla vita degli altri.
Col tempo passato, quale bilancio fa della stagione ecclesiale legata alla Teologia della liberazione?
Si possono dire diverse cose. In Brasile, alcuni dei gruppi pastorali a quel tempo più spinti in quella linea oggi si sono trasformati in Ong con molti soldi, uscendo dalla Chiesa. Dicevano di voler cambiare la Chiesa, poi la fede è venuta meno ed è rimasta la sociologia. Questo non può non suscitare tristezza. Eppure rimango convinto che in quella vicenda è passato comunque qualcosa di grande per tutta la Chiesa. Come la constatazione che il peccato degli uomini crea strutture di peccato. E che la predilezione per i poveri è una scelta di Dio, come si vede nel Vangelo. Nelle prime comunità le quattro colonne portanti erano la fedeltà alla dottrina degli apostoli, l’eucaristia, la preghiera e poi quella comunione fraterna che non era un sentimentalismo, ma una cosa pratica, voleva dire aiutare le vedove e gli orfani, mettere i beni in comune. Da questo si vedeva che la comunità viveva davanti al suo Signore. Adesso, noi i beni li nascondiamo chiudendoli a chiave con sei mandate, anche nelle comunità religiose.
Al’interno della generazione dei preti “liberazionisti”, uno dei punti di differenziazione era l’atteggiamento davanti alla devozione del popolo.
In quel tempo alcuni pensavano che la devozione popolare fosse alienazione. Dicevano che la purezza della fede si era corrotta con le devozioni. Un’idea che si può confutare anche dal punto di vista schiettamente storico. Da noi la crisi venne con l’abolizione delle congregazioni religiose voluta dal Marchese di Pombal, che fu un disastro e compromise anche tutta l’esperienza pastorale iniziata con gli indios. E comunque anche adesso non capisci come mai il Brasile sia cattolico al 75 per cento, anche se poi solo il 10 per cento si accosta ordinariamente ai sacramenti. La ragione storica è questa: proprio la devozione popolare è stata uno strumento per trasmettere e mantenere la fede, in tante comunità guidate per tanto tempo dai laici.
A volte, c’è chi agita ancora la Teologia della liberazione come un “pericolo” incombente.
Sì, certe volte la Teologia della liberazione sembra un fantasma che si tira fuori a comando. Tante cose sono cambiate. In tanti Paesi quelli che erano contro il potere, come Lula, o che addirittura erano guerriglieri, adesso governano. C’è stato tutto un cammino, ed è tempo che anche nella Chiesa tutti ne prendano atto.
In Brasile, fin dall’indipendenza, è stato sempre forte un potere che chiamerei “il potere dei soldi”. È quel potere che, ad esempio, continua a resistere a una vera riforma agraria. E che non ha mai avuto un grande rapporto di prossimità con la Chiesa e nemmeno con la gerarchia ecclesiastica. La Chiesa non ha sostegni finanziari da parte dello Stato, e anche le chiese si costruiscono coi soldi del popolo, e di solito ad aiutare di più sono i più poveri.
Óscar Romero con i seminaristi a Playa el Majahual, nel 1978

Óscar Romero con i seminaristi a Playa el Majahual, nel 1978

Cosa pensa della causa di beatificazione di Óscar Romero?
Nei processi di beatificazione ci sono dettagli che vanno vagliati con cura, come quelli anche scientifici implicati nel riconoscimento del miracolo richiesto. Ma credo che come vita di santità Romero sia stato un esempio grande. Un vescovo che con l’episcopato riceve in maniera manifesta anche la grazia di diventare pastore del suo popolo, in quella situazione così stravolta dalla violenza. Lo stesso accadde in Brasile a dom Hélder Câmara. Quando lo ascoltavamo parlare, durante il regime militare, ci faceva tremare dall’emozione. Era una persona che ci incantava. Un uomo di preghiera. Penso che ci sono tante figure che piano piano, col tempo, capiremo meglio. E si vedrà che tutta la loro vita era impregnata da questo. Altrimenti non avrebbero offerto la loro vita così. Câmara ha sempre vissuto avendo davanti la possibilità di essere ucciso. Non lo hanno ucciso solo perché il popolo avrebbe reagito troppo male. E allora mandavano avvertimenti abbastanza chiari: invece dei vescovi, uccidevano i segretari dei vescovi, come accadde al segretario di dom Hélder.
Lei ha citato Lula. Come arcivescovo di Brasilia, avrà avuto a che fare con lui. Che bilancio fa della sua stagione alla guida del Paese?
In sette anni a Brasilia non l’ho mai visto in Cattedrale... [sorride]. E a volte faceva affermazioni un po’ sorprendenti, come quando diceva di avere una morale come persona privata e una morale come presidente… Ma certo la percezione del suo contributo è molto positiva, e condivisa dalla maggioranza dei brasiliani. Ha amato il suo popolo e, essendo stato un operaio, ha capito la condizione dei brasiliani per come essa è nella realtà concreta. Con lui il Brasile ha avuto una crescita impressionante, e c’è stata anche una certa redistribuzione del reddito. Ha combattuto la corruzione, senza approfittare della posizione di presidente per difendere i corrotti che stavano anche all’interno del suo partito.
E Dilma, la nuova presidenta?
Dilma è molto diversa. Lula è un operaio, la sua forza è il sindacalismo. Lui è un sindacalista umanista, un fortissimo lottatore. Dilma è un’intellettuale, e per altri versi è più pragmatica. Ma dicono che abbia sostegno popolare ancor più di Lula. Interessante, questo dato.
Come è iniziato il suo lavoro alla Congregazione per i Religiosi?
Abbiamo dovuto affrontare molte difficoltà. C’era parecchia sfiducia da parte dei religiosi per via di alcune posizioni prese in precedenza. Adesso, il punto focale del lavoro è proprio quello di ricostruire un rapporto di fiducia. Col segretario della Congregazione, Joseph William Tobin, lavoriamo insieme, parliamo molto, in modo che le decisioni siano prese in comune.
Come sta procedendo la vicenda delle ispezioni alle congregazioni religiose femminili degli Stati Uniti?
Anche quella non è una vicenda facile. C’era sfiducia, contrapposizione. Abbiamo parlato con loro, le loro rappresentanze sono anche venute qui a Roma. Abbiamo ricominciato ad ascoltare. Non si tratta di dire che i problemi non esistono. Ma si può affrontarli in un altro modo. Senza condanne preventive. Ascoltando le motivazioni. Adesso abbiamo tanti rapporti di indagine su cui dobbiamo lavorare. Poi c’è il rapporto di suor Clare Millea [la religiosa designata dal Vaticano come visitatrice apostolica, ndr] che sarà importante.
Sono legittimi e utili i confronti tra gli ordini religiosi più antichi e i nuovi movimenti? A volte c’è chi li mette in concorrenza, o addirittura in contrasto.
I carismi che fioriscono nel tempo presente vengono donati alla Chiesa di oggi. Forse tra vent’anni non avranno la stessa rilevanza. E questo non dovrebbe urtare con i carismi più antichi. Se vivono in fedeltà al carisma iniziale donato al loro fondatore, troveranno anche il modo di dare qualcosa in questo tempo. Il pericolo è quando si perde lo spirito dei fondatori.
Il presidente brasiliano uscente Luiz Inácio Lula da Silva solleva il braccio del neopresidente Dilma Rousseff a Palazzo Planalto, Brasilia, il 1° gennaio 2011

Il presidente brasiliano uscente Luiz Inácio Lula da Silva solleva il braccio del neopresidente Dilma Rousseff a Palazzo Planalto, Brasilia, il 1° gennaio 2011

In questo senso, che cosa ha rappresentato per lei la vicenda del fondatore dei Legionari di Cristo?
Certo, è un dolore quando si vede l’espandersi di una realtà che si presenta come carismatica, e poi si scopre l’indegnità del suo iniziatore. Come sia possibile, rimane un mistero. Quello dei Legionari non è l’unico caso. In Brasile abbiamo avuto il caso della Toca de Assis. Una comunità che vestiva un abito di foggia francescana che richiamava l’attenzione, e che si era messa nel filone della Canção nova [comunità-network nata in Brasile e legata al movimento carismatico, ndr]. Davano di sé un’immagine forte, con frati che dicevano di rendere gloria a Dio cantando e ballando. Avevano coinvolto circa seicento ragazzi. Finché si è scoperto che il fondatore aveva anche lui comportamenti moralmente indegni coi suoi seguaci. Quanto ai Legionari, nella loro struttura non mi convinceva già da prima la mancanza di fiducia nella libertà delle persone che vedevo al loro interno. Un autoritarismo che cercava di dominare tutto con la disciplina. Avevo già tolto i seminaristi di Brasilia dai loro seminari, perché vedevo che così le cose non potevano andare avanti.
Non crede che in passato ci sia stata troppa enfasi sui nuovi movimenti, che a volte ha nascosto aspetti problematici?
Nelle nuove comunità e nei nuovi movimenti non tutto è bello e giusto a priori. In alcune realtà si vede che ci sono aspetti davvero squilibrati. Certo, non si può negare che in molte di queste realtà si sono viste cose grandissime. In molti luoghi hanno portato freschezza, gioia, novità, gioventù. Credo che comunque il tempo attuale non sia più il tempo in cui ognuno fa per sé, in cui tutti sono separati fino a entrare in contrasto gli uni con gli altri e sono uniti solo nel riferimento comune al Papa. Dicevo a Brasilia: se voi dei carismi più grandi mortificate e annullate i carismi più piccoli perché avete come solo criterio quello di allargarvi e di prendere più spazio, questo non è da Dio. Se c’è un “carismetto” piccolino, per esempio in una parrocchia, aiutatelo a crescere, invece di contrastarlo.
Oltre al suo legame con il Focolare, è nota anche la sua amicizia con la Comunità di Sant’Egidio.
Sì. Ho molta stima di Andrea Riccardi. Spero di andarli a trovare presto.
Negli ultimi tempi, un fenomeno diffuso è quello di nuovi istituti di vita consacrata che a volte vivono situazioni di contrasto coi vescovi e con le proprie Chiese nazionali.
Io ho sempre un po’ paura quando un gruppo comincia a pensare e a dire: noi siamo gli unici a difendere la vera Chiesa e la Tradizione. Noi possediamo la luce di Dio, e gli altri no. Nella Chiesa non funziona così. E Dio non lavora così. Lui distribuisce i suoi doni, non ha mai dato tutta la sua grazia a una sola persona. Se pensiamo all’esperienza di Dio con il suo popolo, anche nella Bibbia quello che risalta non è l’esclusivismo elitario, ma piuttosto la pazienza e la misericordia verso quel popolo pieno di limiti, che si perdeva lungo il cammino. Quanto ha aspettato, quante volte è stato deluso... E se poi si guarda anche ai santi, si vede che i veri santi sono sempre amici fra loro. Sono diversi, magari a volte litigano, ma poi chiedono perdono e lavorano insieme. Anche quelli di adesso, come don Giussani e Chiara Lubich.



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