Il mio amico don Giacomo
«Durante la cerimonia delle cresime a San Lorenzo fuori le Mura pregammo per la sua salute... e lui ringraziò con un gesto che era di speranza di guarire e, allo stesso tempo, di affidamento». Il cardinale Bergoglio ricorda Giacomo Tantardini, sacerdote
del cardinale Jorge Mario Bergoglio
Il cardinale Bergoglio con don Giacomo Tantardini in una foto del marzo 2009 [© Paolo Galosi]
«Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio; considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene la fede» (Eb 13, 7). Così, l’autore della Lettera agli Ebrei ci esorta a tener presenti quelli che ci hanno annunciato il Vangelo e che già sono partiti. Ci chiede di ricordarli, ma non in quel modo formale e, a volte, commiserevole, che ci fa dire «quanto era buono!», una frase che si sente spesso nel peristilio dei cimiteri. Quel tipo di memoria è un semplice ricordo di formalità sociale. Ci chiede, invece, di ricordarli a partire dalla fecondità della loro semina in mezzo a noi. Ci chiede di ricordarli con la memoria del cuore, quella memoria deuteronomica che costruisce sulla roccia, che plasma vite e marchia cuori. Sì, il nostro cuore si edifica sulla memoria di quegli uomini e quelle donne che ci hanno fatto avvicinare a sorgenti di vita e di speranza a cui potranno attingere anche quelli che ci seguiranno. È la memoria dell’eredità ricevuta che dobbiamo, a nostra volta, trasmettere ai nostri figli.
Così, con questa memoria, ricordiamo don Giacomo e ci chiediamo: che cosa ci ha lasciato? Quali impronte di lui troviamo sul cammino della nostra vita? Oso semplicemente dire che ha lasciato le impronte di un uomo-bambino che non ha mai finito di stupirsi. Don Giacomo, l’uomo dello stupore; l’uomo che si è lasciato stupire da Dio e ha saputo dischiudere il cammino affinché questo stupore nascesse negli altri.
Don Giacomo, un uomo sorpreso che, mentre guardava il Signore che lo chiamava, continuamente si chiedeva, quasi non riuscisse a crederci, come il Matteo del Caravaggio: io, Signore? Un uomo stupito di fronte a questa indescrivibile «sovrabbondanza» della grazia che vince sull’abbondanza meschina del peccato, di quel peccato che ci sminuisce, sempre; un uomo stupito che si è sentito cercato, atteso e amato dal Signore molto prima che fosse lui a cercarlo, ad attenderlo e ad amarlo; un uomo stupito che, come quelli del lago di Tiberiade, non osava chiedergli chi fosse perché sapeva bene che era il Signore.
E quest’uomo stupito si è lasciato, più di una volta, interrogare: «Mi ami?», per rispondere con la semplicità ardente dell’amore: «Signore, tu lo sai che ti amo». Ed era così perché quest’uomo-bambino nutriva il suo amore con la semplice ma sapienziale prontezza della contemplazione di tutta quella Grazia che lo superava.
Don Giacomo era così. Non aveva perduto la capacità di sorprendersi; rifletteva a partire da quello stupore che riceveva e alimentava nella preghiera. A volte, dava l’impressione che questa sensibilità lo provasse, lo stancasse o lo rendesse irrequieto, e questo non è raro in un uomo dal temperamento umano forte, sul quale la Grazia non ha cessato di lavorare nella sua conversione alla mansuetudine.
L’ultima immagine che ho di lui mi commuove: durante la cerimonia delle cresime a San Lorenzo fuori le Mura, con le mani giunte, gli occhi aperti e stupiti, sorridente e serio allo stesso tempo. Lì, pregammo per la sua salute... e lui ringraziò con un gesto che era di speranza di guarire e, allo stesso tempo, di affidamento. Così, per grazia, si può perseverare nel cammino, fino alla fine: l’uomo-bambino si abbandona fra le braccia di Gesù mentre chiede che passi questo calice, e viene preso e portato in braccio, con le mani giunte e gli occhi aperti. Lasciandosi sorprendere ancora una volta, per il dono più grande.
Ringrazio Dio nostro Signore di averlo conosciuto. È rivolto anche a me quel «considerate l’esito della sua vita e imitatene la fede» della Lettera agli Ebrei.
Buenos Aires, 6 maggio 2012