Il cristianesimo: una storia semplice
Incontro con don Giacomo Tantardini al Centro culturale Fabio Locatelli di Bergamo 15 dicembre 2000
di don Giacomo Tantardini
Vorrei iniziare con una frase di una poesia di Charles Péguy che riassume un po’ quello che adesso abbiamo ascoltato. Dice Péguy in una delle sue poesie alla Madonna di Chartres: «Ce ne han dette tante, o Regina degli Apostoli / abbiamo perso il gusto dei discorsi / non abbiamo più altari, se non i Vostri / non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice».
Io credo che quando Péguy all’inizio del secolo andava in pellegrinaggio a Chartres per chiedere la grazia della guarigione per i suoi bambini… i bambini non erano battezzati: Péguy conviveva, diciamo così, con una donna ebrea che non aveva accettato di battezzare i figli. Quindi Péguy non ha mai potuto sposarsi cristianamente e non poteva ricevere i sacramenti della Chiesa, eppure credo che Péguy sia stato la testimonianza poetica più grande di questi ultimi secoli, più grande dopo Dante. La grazia del Signore è data secondo la misura del dono di Cristo, come vuole Lui.
«Ce ne han dette tante, o Regina degli Apostoli / abbiamo perso il gusto dei discorsi / non abbiamo più altari, se non i Vostri / non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice». Eppure questa sera devo parlare. Allora vorrei dire semplicemente tre cose che mi sembra siano le cose che la Tradizione della Chiesa, che la semplicità della Tradizione (preghiera semplice richiama la semplicità della Tradizione), che la semplicità della Tradizione cristiana, proprio per il Natale, ridice, ripete.

Dio chiama Adamo ed Eva dopo il peccato originale, Cappella Palatina, Palermo
Vorrei prendere l’inizio dell’inno Il Natale di Alessandro Manzoni…
Alessandro Manzoni per tanti aspetti non è, come dire, un autore attuale, perché descrive nel suo stupendo romanzo, I promessi sposi, una condizione cristiana come già data e quindi non parla di noi, perché oggi quella condizione non esiste più. Forse la pagina più attuale dei Promessi sposi è quella in cui è descritta la conversione dell’Innominato, quando l’Innominato, dopo quella notte, vede il popolo contento che va ad accogliere il cardinale Federico e si domanda: «Ma che cos’ha tutta questa gente per essere contenta?». Ecco, questa è la pagina più attuale. «Che cos’ha tutta questa gente per essere contenta?». E gli nasce nel cuore la curiosità di vedere perché questa gente è contenta. È la pagina che descrive come oggi uno può diventare cristiano… Gli antenati di Alessandro Manzoni sono del mio paese che è Barzio, un piccolo paese sopra Lecco, e il nonno di Alessandro Manzoni si chiama Alessandro perché il patrono di Barzio, come il patrono di Bergamo, è sant’Alessandro. E quindi credo che anche l’autore dei Promessi sposi si chiami Alessandro per questo… Altri motivi me lo rendono vicino. Anche se, ripeto, Manzoni per tanti aspetti non è attuale, non è certamente come Péguy.
L’inno Il Natale inizia con l’immagine di quel masso che è caduto dall’alto della montagna e sta sul fondo della valle: «Là dove cadde, immobile / Giace in sua lenta mole; / Né, per mutar di secoli, / Fia che riveda il sole / Della sua cima antica, / Se una virtude amica / In alto nol trarrà». Il sasso che cade dall’alto della montagna nella valle non è possibile che riveda il sole della cima, se una forza amica non lo prende e non lo porta su. «Tal si giaceva il misero / Figliol del fallo primo». Così giaceva l’uomo, figlio del primo peccato. Così. «Donde il superbo collo / più non potea levar». E questa è la definizione credo più realistica del peccato originale.
Che cos’è il peccato originale? Don Giussani, nell’ultimo volume della collana che raccoglie i dialoghi in una casa dei Memores Domini, dice: «Che cos’è il peccato originale? Che cos’è l’orgoglio del peccato originale? È l’affermazione di sé prima che della realtà». L’uomo non vede altro che sé. Caduto da quell’altezza non vede altro che sé stesso. L’affermazione di sé stesso prima della realtà. C’è poi una strofa dell’inno che leggo tutta perché è così realistica: «Qual mai tra i nati all’odio». Nati all’odio. Così. È così la condizione umana. Qualche settimana fa mi ha colpito che uno scrittore non cristiano, non cattolico, Bobbio, ricevendo un premio all’Università di Stoccarda, ha citato Hegel (Hegel maestro di tutti, purtroppo, in questi decenni), ha citato Hegel in una delle sue poche espressioni realistiche, quando dice che la storia umana non è che un grande mattatoio. È così. La storia umana non è che un grande mattatoio. La storia umana, dice sant’Agostino, prendendo l’esempio da Roma, dalla storia di Roma che nasce da un fratricidio, va da omicidio a omicidio. «Qual mai tra i nati all’odio». Nati all’odio. Non per il gesto creatore. La creazione è buona. Ma di fatto, per il peccato originale, si nasce all’odio. E anche le cose buone, anche le cose belle, immediatamente decadono in estraneità. E di questa condizione del peccato originale si può fare esperienza, l’uomo fa esperienza. La grande poesia non fa che parlare di questo. Per riconoscere gli effetti del peccato originale non serve la fede, basta l’intelligenza umana. Non riconoscere gli effetti del peccato originale è questione di non intelligenza, è questione di illusione, è questione di idealismo.
«Qual mai tra i nati all’odio, / Quale era mai persona, / Che al Santo inaccessibile…». Come è cristiano in questo momento Manzoni. «Inaccessibile»: al Santo cui non si può giungere, al Santo ignoto, al Santo di cui non si conosce il volto. E se uno dice Dio c’è ma non Lo vede (dice san Bernardo in una lettura del Breviario nel tempo di Natale), dopo un po’ come può riconoscere che c’è, se a Lui non può arrivare, se è precipitato nel fondo del burrone, e alla luce dell’inizio, alla luce dell’aurora del primo inizio della creazione, non può arrivare? Come può dire che c’è? «Qual era mai persona, / Che al Santo inaccessibile / Potesse dir: perdona?». Perdono! «Chi ringraziare, chi bestemmiare?», chiedeva Cesare Pavese in una delle ultime frasi del suo diario. Chi ringraziare, chi bestemmiare se il Mistero c’è ma è inaccessibile, c’è ma non ha volto, c’è ma è incomprensibile, c’è ma non si può conoscere? «Far novo patto eterno? / Al vincitore inferno / La preda sua strappar?». Chi poteva strappare al diavolo la sua preda?
Questo è il primo suggerimento: si nasce col peccato originale. E il dogma della Chiesa dice che il peccato originale ferisce l’uomo in naturalibus, nelle sue dimensioni naturali. Non solo rende impossibile la coerenza. Ad esempio, uno sa che l’aborto è peccato, ma poi è incoerente. Non è solo così. Il peccato originale impedisce alla lunga anche di accorgersi che l’aborto è peccato, perché il peccato originale ferisce gli uomini nell’intelligenza naturale: per il peccato originale è offuscata l’intelligenza in quanto tale, non solo è indebolita la volontà. Per cui anche ciò che è naturale, anche ciò che è creaturale, anche ciò che è contro il cuore, contro il gesto creaturale, l’uomo è annebbiato nel riconoscerlo. Non è che non lo può riconoscere, ma è annebbiato dentro. Non si capisce la realtà, non si capisce il mondo, se non si parte da qui. Non si capisce il mondo in cui viviamo, non si capiscono le circostanze in cui siamo.

L’Annunciazione, con la scena della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre dopo il peccato originale, Beato Angelico, Museo del Prado, Madrid
Vi leggo due brani della poesia più bella di Leopardi, Alla sua donna, quando Leopardi dice che quello che cercava nella bellezza della donna era una bellezza più grande, una bellezza che finalmente potesse soddisfare l’attesa del cuore. Ma aggiunge che questo era un sogno di quando era adolescente. Diventando adulto si accorge che questo sogno è ormai impossibile. «Viva mirarti omai / Nulla spene m’avanza». Non ho più alcuna speranza di vederti viva, o bellezza. Non ho più alcuna speranza di incontrare, qui in questa vita, quella cosa imprevista, quella cosa imprevedibile, che il mio cuore attende. «Già sul novello / Aprir di mia giornata incerta e bruna». La genialità umana è profezia di Cristo. Non nel senso che anticipa Cristo, non nel senso che fa discorsi cristiani. Ma nel senso che Lo attende, domandando o bestemmiando, ma Lo attende. «Già sul novello / Aprir di mia giornata incerta e bruna». «Incerta». Se il Santo, se il Mistero è inaccessibile, che può fare l’uomo se non essere incerto? Che può fare l’uomo? Non si può condannare l’uomo, non si può condannare l’uomo per il suo nichilismo, non si può condannare l’uomo per la sua “non fede”. Che può fare, se il Mistero non ha volto? Che può fare? Anche perché il nichilismo (sant’Agostino in questo anticipa e risponde a Nietzsche) nasce dal fatto che uno si accorge che quel Dio che dice di affermare è una proiezione di sé, cioè si accorge che non esiste. Se Dio è una proiezione, un’immagine di sé, uno si accorge che quel Dio non esiste, non è niente. Nihil est, non è nulla. «… incerta e bruna, / Te viatrice in questo arido suolo / Io mi pensai». Io pensai di incontrarti in questo arido suolo, di incontrare quello che il cuore attende. «Ma non è cosa in terra / Che ti somigli». Ma in terra non ho incontrato niente, niente che meritasse fino in fondo il mio cuore. Tante cose (anche Leopardi ha avuto tante donne), ma niente, nessuna veramente che meritasse fino in fondo il mio cuore. «Ma non è cosa in terra / Che ti somigli; e s’anco pari alcuna / Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, / Saria, così conforme, assai men bella». Qui c’è l’intuizione, che può essere solo grazia: ma anche se ci fosse una cosa che ti assomigliasse nel volto, nelle parole e nei gesti, «saria, così conforme, assai men bella» di quello che il mio cuore attende.
Questa poesia finisce con una preghiera, la più stupenda preghiera di un ateo, perché Giacomo Leopardi era ateo e materialista. Nessun devoto ha scritto una preghiera così al Mistero che si è rivelato: «Se delle eterne idee / L’una sei tu cui di sensibil forma / Sdegni l’eterno senno esser vestita». Se tu, o bellezza, se tu, o cosa che il cuore attende, se tu, o cosa che il cuore domanda, se tu, felicità, sei una delle idee eterne che sdegni di rivestirti di forma sensibile. «E fra caduche spoglie / Provar gli affanni di funerea vita», e sdegni di sperimentare qui sulla terra gli affanni di questa vita che corre verso la morte, «Di qua dove son gli anni infausti e brevi, / Questo d’ignoto amante inno ricevi».
«Di qua dove son gli anni infausti e brevi». Questo è realismo cristiano. Di un ateo, ma è realismo cristiano. È realismo umano e quindi profezia di Chi il cuore l’ha creato così. Di qua dove le cose passano subito. Passano subito anche le cose belle, anche il sorriso del bambino, del figlio, anche l’affetto per la donna che si ama. «Di qua dove son gli anni infausti e brevi, / Questo d’ignoto amante inno ricevi». Rimane il cuore, il cuore che attende una cosa così. Ma l’uomo (e usiamo ancora un’espressione di Agostino, che di questo cuore è stato nella Chiesa la testimonianza forse umanamente più affascinante), l’uomo è lontano da questo cuore, fugitivus cordis sui. L’uomo è lontano da questa domanda e l’uomo si accontenta. Si accontenta. E di che cosa si accontenta? Dell’usura, della lussuria e del potere. E non c’è religione che tenga. Si accontenta di queste tre cose, i soldi, la lussuria e il potere, chi crede in Dio e chi non ci crede. E questa è una delle cose più impressionanti delDe civitate Dei di Agostino. La credenza in Dio di per sé non cambia la vita, di per sé non cambia la vita. Tutti i libri del De civitate Dei di Agostino sono attuali. Nei libri ottavo, nono e decimo Agostino parla dei filosofi che hanno conosciuto Dio, che hanno riconosciuto l’esistenza di Dio. Eppure alla fine «hanno pensato di dover offrire onori divini di riti e sacrifici al diavolo». Il satanismo può essere la conseguenza anche del proclamarsi credente in Dio, perché la credenza in Dio non cambia realmente la vita. È un’altra cosa che cambia la vita. Se la credenza in Dio cambiasse la vita mestier non era parturir Maria.
![<I>Riposo nella fuga in Egitto</I>, Bartolomé Esteban Murillo, Museo Puskin, Mosca [© Foto Scala Firenze]](http://www.30giorni.it/upload/articoli_immagini_interne/11-04-012.jpg)
Riposo nella fuga in Egitto, Bartolomé Esteban Murillo, Museo Puskin, Mosca [© Foto Scala Firenze]
Perché è una storia semplice il cristianesimo? È una storia semplice (usiamo una parola che la Chiesa da duemila anni usa) perché è grazia, perché è un avvenimento e quindi una storia di grazia. Se non fosse grazia, sarebbe una cosa complicata. Perché la religiosità umana non è semplice? Perché nasce dall’uomo. Perché è il tentativo buono dell’uomo, partendo dalle cose create, di riconoscere il Creatore. Ma questa non è una cosa semplice, è una cosa faticosa. Dice il dogma di fede: èuna cosa faticosa, una cosa di pochi, una cosa che, anche quando la religiosità arriva al suo termine (il Mistero esiste), è mescolata a errori. Sono le parole del dogma della Chiesa. Non solo è di pochi, non solo è faticosa, ma anche quando uno arriva a dire «Dio c’è», questa affermazione è mescolata a errori. Invece duemila anni fa è iniziata una cosa che è semplicissima. A quella ragazza è stato promesso che avrebbe concepito e partorito. E in quei nove mesi, tanti fatti umanissimi… Innanzitutto si accorge di essere incinta (e che la pancia diventava grande come la pancia di ogni donna incinta). E la testimonianza di Giuseppe, che obbedendo al Mistero più grande di lui la prende con sé. E la testimonianza della cugina Elisabetta: anche lei ha un figlio. E quel Natale, quel primo Natale, quando per la prima volta gli occhi di due ragazzi, di Maria e Giuseppe, hanno visto Dio. Hanno visto Dio. Inizia così il cristianesimo. Non hanno creduto che c’è Dio, no, questo lo credono anche i musulmani che magari in questa religiosità sono più religiosi di noi, ma non hanno visto. Non hanno visto – eppure è venuto – e nella religiosità e nella moralità possono essere più morali e più religiosi di noi. Anche per questo è stato grande Paolo VI quando a Roma non ha fatto nulla perché non si costruisse la moschea, anzi, a chi gli diceva che doveva ottenere la reciprocità, ha risposto che la Chiesa non si abbassava a questo livello. Ma è un’altra cosa. Il cristianesimo è un’altra cosa rispetto a tutte le religioni del mondo, a tutte le morali del mondo. È che duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi, non in una visione mistica. Maria l’ha partorito. E Giuseppe e lei stupiti lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio. E poi quella notte stessa, gli angeli hanno annunciato ai pastori che nella città di Davide (perché Dio è fedele alle sue promesse), «nella città di Davide è nato per voi il Salvatore». E sono andati i pastori, sono andati e hanno visto un bambino. Quel bambino era Dio. Così quando nel Credo diciamo «Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero [quel bambino], generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo di lui tutte le cose sono state create, per noi uomini e per la nostra salvezza [per noi uomini, per l’uomo che si accontenta della lussuria, dell’usura e del potere, per questo uomo, non per gli uomini di buona volontà (è Sua la buona volontà) ma per questo uomo concreto], per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato…».
Aggiungo questo. Dopo Maria e Giuseppe, dopo quei trent’anni in cui l’Eterno, che è iniziato a esistere e a crescere nel tempo (l’Eterno, rimanendo eterno, ha iniziato a esistere e a crescere nel tempo e a contare i giorni, le ore, i mesi e gli anni, come ogni bambino), dopo quei trent’anni in cui ha vissuto a Nazareth, ubbidendo a suo padre e a sua madre, inizia la missione, quando i primi due, quel pomeriggio, sulle rive del Giordano, lo hanno incontrato, quando Giovanni e Andrea, dopo che Giovanni il Battista aveva indicato «Ecco l’Agnello di Dio, ecco Colui che toglie i peccati del mondo», gli sono andati dietro. Gli sono andati dietro attratti da Lui. E allora Gesù si volta e a questi due ragazzi – Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino –, a questi due ragazzi domanda: «Che cosa cercate?». Mi colpisce sempre questa cosa. Non gli hanno risposto cerchiamo la verità, cerchiamo la felicità, non gli han detto neppure cerchiamo il Messia. Quello che il cuore cercava Lo avevano davanti. Lo avevano davanti. Il cuore è infallibile, in questo il cuore è infallibile. C’è una tesi bellissima della teologia cattolica che parla dell’infallibilità della fede. L’infallibilità del magistero è secondaria rispetto all’infallibilità della fede. La fede è infallibile. Quello che cercavano, quello che il cuore cercava, Lo avevano davanti. Allora a quella domanda, «Che cosa cercate?», rispondono domandando l’unica cosa che si può domandare. Quando uno incontra quello che il cuore desidera può solo domandare che questa cosa rimanga. «Maestro dove abiti?», cioè «dove rimani?». Dove rimani, per stare con te? Pubblicamente, qui. Là, con Maria e Giuseppe, diciamo, privatamente. I trent’anni di vita privata, privata ma con tanti episodi pubblici: i pastori, poi i Magi, poi quando a dodici anni nel Tempio… Ma comunque una storia privata. Qui l’inizio è della storia pubblica, della storia per cui questa sera siamo qui. Per cui esiste nel mondo questa storia semplice di persone che si sono stupite perché Lo hanno incontrato. Storia semplice: si sono stupiti perché Lo hanno incontrato e poi una volta incontrato dipende da Lui, non dipende innanzitutto da te, dipende da Lui che rimanga con te. È semplice per questo. Diversamente – posto che l’inizio del cristianesimo è grazia (se uno è cristiano, questo non può non dirlo) – si introduce un’altra dinamica. No! Una volta incontrato, che cosa accade? Cos’hai fatto per incontrarLo? Niente. Allora, guarda, non darti da fare, perché dipende da Lui. Dipende da Lui che ti ha incontrato e che rimane fedele. Dipende da Lui che ti rimane fedele, non dipende innanzitutto dalla tua fedeltà. Dipende da Lui. È semplice per questo. È semplice perché non solo ti incontra Lui, non solo è Lui che è andato incontro ai primi, ma dipende da Lui che è rimasto con i primi, dipende da Lui che il giorno dopo si è fatto di nuovo incontrare dai primi, dipende da Lui che il giorno dopo ancora…
Andrea è andato a casa quella sera e a suo fratello Pietro ha detto: «Abbiamo incontrato il Messia». Un’altra cosa che mi stupisce è pensare che Pietro la prima volta che ha intravisto umanamente il Mistero fatto carne è stato guardando il volto di suo fratello. Non aveva mai visto il volto di Andrea così, il volto di suo fratello così non l’aveva mai visto, perché la grazia ha un riverbero nell’umano. È visibile, la grazia. Ha una sorgente invisibile, ma ha un riverbero visibile, il riflesso della grazia si vede, si vede ed è inconfondibile. È infallibile il riflesso della grazia, è inconfondibile con qualunque altra bellezza. È la bellezza per cui il cuore è stato creato. Allora non solo è Lui che si fa incontro, ma è Lui che rimane, tanto è vero che il giorno dopo, quando ha visto Pietro, gli ha detto: «Tu sei Simone, figlio di Giovanni, tu ti chiamerai Pietro». E così da due sono diventati tre e così sono andati avanti per tre anni… Così. Ma pensate in quei tre anni, pensate di chi era l’iniziativa. Non era di quelli che Lo seguivano, l’iniziativa era sempre Sua. Come quando il giovane ricco, invitato a seguirLo, anzi, voluto bene da Lui… Gesù lo guardò e si intenerì, gli volle bene. Eppure non Lo segue, e allora Gesù dice che è impossibile per un ricco entrare nel Regno dei Cieli, e Pietro gli domanda: «Ma allora chi si può salvare?». E qui c’è una delle più belle frasi del Vangelo: «E Gesù guardandoli [guardandoli, non facendo teologia, guardandoli] disse: “A Dio nulla è impossibile”». Guardandoli: perché ciò che gli era evidente come Mistero, come uomo lo imparava dalle cose che succedevano, come noi impariamo da quello che succede. Se Pietro era lì, se Giovanni era lì, se Matteo era lì (pensavo oggi, vedendo i quadri del Caravaggio, pensavo alla Vocazione di Matteo del Caravaggio in San Luigi dei Francesi a Roma), se Zaccheo era sceso pieno di gioia vuol dire che a Dio nulla è impossibile. Perché Matteo era ricco, anzi raccoglieva i soldi per gli invasori romani, e Zaccheo, il più ricco di Gerico… se erano lì loro, vuol dire che a Dio nulla è impossibile. Anche Gesù, come uomo, ha imparato la natura del Mistero da quello che succedeva. Ciò che come Dio conosceva, lo ha imparato come uomo dall’esperienza. Dice san Bernardo in una delle frasi più stupende sul mistero di Gesù: ciò che per natura conosceva dall’eternità (che a Dio nulla è impossibile) l’ha imparato dall’esperienza umana. Si è stupito anche Lui quando ha visto Zaccheo correre giù. Pensate all’episodio di Zaccheo. Questo piccolo uomo che è dovuto salire sull’albero per vederlo passare. Questo piccolo uomo che era il capo delle bande illegali della città di Gerico, e Gesù che passa, lo guarda e gli dice: «Zaccheo, vengo a casa tua». Non ha detto nulla, non gli ha risposto nulla. Pieno di gioia è sceso. E poi ha distribuito quattro volte quello che aveva rubato. Ma poi, poi! Subito, pieno di gioia è sceso ed è corso a casa sua. Allora è semplice, è semplice non solo perché l’inizio è grazia, ma perché ogni passo è grazia. Dice san Tommaso in una delle sue frasi più belle (la Chiesa cattolica, anche usando questa frase, l’anno scorso, ha firmato un documento con i luterani in cui diceva che su aspetti essenziali della dottrina della giustificazione i cattolici e i protestanti riconoscono la stessa cosa): «Gratia facit fidem», la grazia crea la fede. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, la fede è il riconoscimento di questo incontro, la fede è lo stupore riconosciuto di questo incontro. «Gratia facit fidem non solum quando fides incipit esse in homine», la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ad esistere in un uomo, «sed quamdiu fides durat», ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, in ogni momento l’iniziativa è Sua.
Questo pomeriggio ho visitato la mostra, qui a Bergamo, del Caravaggio. Bellissima. Ci guidava un sacerdote che molto umanamente, in maniera molto bella, descriveva le cose. Ad un certo punto però ha detto che Caravaggio esprime la fatica della fede. Io non direi così. La fede, quando accade, non è mai faticosa. È facile la “non fede”. Questo sì, è facilissima la “non fede”. «Uomini di poca fede, perché dubitate?». È facilissima, anche per quelli che Lo seguivano, è facilissima la “non fede”, è facilissimo il dubbio, è facilissima la bestemmia, questo sì. Perché la grazia del Battesimo cancella il peccato originale, ma non le conseguenze del peccato originale. È facilissima la “non fede”, è facilissimo il dubbio, è facilissimo il tradimento. Pensate a Pietro: «Anche se tutti ti abbandoneranno io non ti abbandonerò mai». Tre ore dopo… Tre ore dopo! Innanzitutto, mezz’ora dopo, si era addormentato. E poi, tre ore dopo, L’ha tradito. È facilissimo il tradimento. Ma la fede è più facile. È più facile la fede. Se no, vuol dire che non si sa che cos’è. È più facile, perché quando Gesù, dopo il tradimento, l’ha guardato, era più facile scoppiare in pianto, più facile di qualunque altra cosa. La fede è più facile. Non esiste una fede difficile. È più facile. È un’immagine non cristiana di fede dire che la fede è difficile. È più facile, è ancora più facile del tradimento. Pensate a quel povero uomo di Pietro, quel povero peccatore di Pietro: quando Gesù lo ha guardato, è stata la cosa più facile della vita scoppiare in lacrime, è stata la cosa più facile della vita mettersi a piangere. È stata la cosa più facile della vita dire: «Come mi vuoi bene, come mi vuoi bene. Eppure ti ho tradito». È facile la fede, è facile. Non esiste fede (questo è un dogma di fede), non esiste fede se lo Spirito Santo non dona la dolcezza (parla di dolcezza, non può essere difficile la dolcezza, sarebbe una cosa disumana), la dolcezza di aderire. È lo Spirito, è la grazia che dona la dolcezza di aderire. Usa la parola dolcezza: più facile di così! È facile la fede. L’istante dopo, si può non credere. L’istante dopo, si può bestemmiare, l’istante dopo si può correre dietro al denaro, alla lussuria e al potere. Ma se uno ha sperimentato questa dolcezza, può correre dietro come tutti, eppure questa dolcezza è la cosa più facile, è la cosa più facile. E il mettersi a piangere dopo aver corso dietro alla lussuria, ai soldi, al potere, il mettersi a piangere, perché questa dolcezza si ripresenta, perché quello sguardo ti riguarda, il mettersi a piangere è la cosa più facile. Non c’è cosa più facile per il bambino che, dopo tutti i capricci di questo mondo, si abbandona in braccio al papà e alla mamma, non c’è cosa più facile. Dite che è difficile per il bambino? Sarebbe una cosa disumana se non si abbandonasse. È la cosa più facile di questo mondo abbandonarsi in braccio al papà e alla mamma.

La vocazione di Pietro e Andrea, Caravaggio, Royal Gallery Collection, Hampton Court Palace, Londra
Ma allora che cosa è possibile all’uomo? Lo dico con le parole di don Giussani in un articolo sul Santo Rosario pubblicato su Avvenire domenica 30 aprile (secondo me una delle cose in assoluto più belle, non solo di Giussani ma di tutta la Chiesa in questi decenni): «La risposta a questa grazia sta tutta quanta nella preghiera di cui siamo capaci». La risposta a questa grazia (che non è solo l’inizio ma è di ogni passo) sta tutta quanta nella preghiera di cui siamo capaci. La nostra risposta è una preghiera, è una domanda. La nostra risposta è la sorpresa di una domanda, una domanda come quella di Giovanni e Andrea: «Dove rimani?». Di fronte a una cosa così bella la nostra risposta è: «Rimani!». Di fronte a una dolcezza così grande, la nostra risposta è: «Non abbandonarmi, rimani!». Tutta la nostra risposta è questa, ed è tutta la risposta del bambino quando il papà e la mamma gli vogliono bene. «La nostra risposta è una preghiera. Non è una capacità particolare, è solo l’impeto della preghiera». Può essere il pianto del bambino che chiede al papà e alla mamma di volergli bene. Il pianto. Nell’antica liturgia vi era una messa per chiedere il dono delle lacrime. Si domanda molto di più con le lacrime che non con le parole. L’impeto, l’impeto di una domanda. Habet et laetitia lacrimas suas. Così sant’Ambrogio. Quando uno è contento di questa dolcezza, anche questa letizia ha le sue lacrime. In fondo la gioia si esprime soltanto piangendo. Così Giussani dice in quell’articolo: «La nostra risposta è una preghiera, non è una capacità particolare, è solo l’impeto della preghiera». Poi aggiunge Giussani (voglio leggere questa cosa perché riprende Péguy con cui abbiamo iniziato): «Entriamo nel mese di maggio [ora siamo nella novena del Natale]. Il popolo cristiano da secoli è stato benedetto [l’inizio è Suo: benedetto] e confermato nell’essere proteso alla salvezza [confermato: perché se Lui non conferma, anche se Lo abbiamo incontrato, non rimaniamo nell’incontro. Così la semplicità della Tradizione. Per esempio un dogma del Concilio di Trento dice: «Se uno è in grazia, senza un aiuto speciale della grazia, non può rimanere in grazia». Capite come tutta la vita cristiana è sostenuta dalla Sua iniziativa? Se uno è in grazia, senza uno speciale aiuto della grazia che si può domandare, senza un’attrattiva che si rinnova, non rimane in quell’attrattiva. Non si può vivere di un amore passato, non si può vivere dell’attrattiva di ieri, neppure dell’attrattiva di un istante fa. Non si può. Si vive solo del presente. Quindi se uno è in grazia, per rimanere in grazia occorre il rinnovarsi di questo speciale aiuto]. Il popolo cristiano per secoli è stato benedetto e confermato nell’essere proteso alla salvezza, io credo, specialmente da una cosa: il Santo Rosario». È semplice la vita cristiana, è semplice. Dopo decenni di tante parole, di tante lotte, di tante sfide… C’era un Angelus di papa Luciani che diceva: «Meno battaglie e più preghiere». Il popolo cristiano è stato benedetto e confermato, io credo, da una cosa: la recita del Santo Rosario.
E finisco leggendo alcuni versi della poesia di Péguy con cui ho iniziato. Descrive il rimanere in questa grazia. «Ecco il luogo del mondo dove tutto diviene facile». Facile anche il peccato, anche il tradimento, come Pietro. Facile anche la tentazione di correr dietro alla lussuria, all’usura e al potere. Ma facile essere riabbracciati. E piangere di gratitudine. Più facile. La differenza è che chi non ne fa esperienza non sa questa cosa più facile. Sa tutte le altre cose, ma non sa questa cosa più facile. Più facile, più bella, più semplice. Tutto diviene facile. «Il rimpianto, la partenza e anche l’avvenimento». Anche il riaccadere di quello stupore è facile: in Paradiso sarà perenne, qui è facile, qui è facile che riaccada, non perenne. E dice ancora sant’Agostino: il Signore anche ai Suoi eletti, ai Suoi santi può non dare in alcuni momenti l’attrattiva avvincente a Sé perché così, sperimentando di essere peccatori, pongano in Lui la speranza e non in loro stessi. Facile. «E l’addio temporaneo, la separazione, / Il solo angolo della terra dove tutto si fa docile. […]Ciò che dappertutto altrove richiede un esame / Qui non è che l’effetto di un’inerme giovinezza». Ciò che dappertutto altrove richiede un esame per cui devi dimostrare di essere bravo. Anche in casa è così, tante volte. Devi dimostrare di essere bravo. E non puoi essere un povero peccatore. Devi dimostrare di essere bravo. Così, al fatto di essere peccatore come tutti, aggiungi anche l’ipocrisia, che è peccato più grave, quello dei farisei. «Ciò che dappertutto altrove richiede un esame / Qui non è che l’effetto di un’inerme giovinezza. / Ciò che dappertutto altrove chiede un rinvio / Qui non è che una presente fragilità. // Ciò che dappertutto altrove richiede un attestato / Qui non è che il frutto di una povera tenerezza. / Ciò che dappertutto altrove chiede un tocco di destrezza / Qui non è che il frutto di un’umile inettitudine […].Ciò che dappertutto altrove è costrizione di regola / Qui non è che un impeto e un abbandono». Come dice Giussani. Solo l’impeto della preghiera, solo l’impeto della domanda. Come il bambino che durante la giornata può rompere tante volte un bicchiere. Lo rompesse anche mille volte e mille volte dicesse “mamma, aiutami a non romperlo”, questo è l’uomo cristiano. “Mamma, aiutami a non romperlo”. Ed è più facile, più felice per il bambino dire in braccio alla mamma: “Mamma, aiutami a non romperlo”, che neanche rompere il bicchiere.«Ciò che dappertutto altrove è costrizione di regola / Qui non è che un impeto e un abbandono; / Ciò che dappertutto altrove è una dura penale / Qui non è che una debolezza che viene sollevata. […] Ciò che dappertutto altrove sarebbe un duro sforzo / Qui non è che semplicità e quiete; / Ciò che dappertutto altrove è la scorza rugosa / Qui non è che la linfa e le lacrime del tralcio. […]Ciò che dappertutto altrove è un bene deperibile / Qui non è che quiete e veloce disimpegno; / Ciò che dappertutto altrove è un impettirsi / Qui non è che una rosa e un’impronta sulla sabbia. […] Ce ne han dette tante, o Regina degli Apostoli / Abbiamo perso il gusto per i discorsi / Non abbiamo più altari se non i vostri / Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice». Buon Natale.