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Tratto da I TESORI PIÙ PREZIOSI

Per Agostino un’arca con un tripudio di popolo


San Pietro in Ciel d’oro a Pavia


di Giuseppe Frangi


Varcare la soglia di San Pietro in Ciel d’oro a Pavia è come ritrovarsi sulla poppa di una nave. Dall’alto di una dozzina di gradini si domina tutta l’ampia navata-ponte, con i grandi e massicci archi che la delimitano; ma lo sguardo è subito attratto dalla prua di questa nave-chiesa: in fondo alla navata due scale salgono al presbiterio, che è nettamente sopraelevato ed è dominato, al centro, da un fiorire di marmi bianchi. È l’arca che custodisce i resti di sant’Agostino.
Niente ori, niente candele. Quel primo sguardo lascia impressa una sensazione di nudità. Ci sono i muri, le pietre, l’abbondante laterizio proprio delle chiese lombarde; ci sono le pareti per lo più spoglie; c’è quel formidabile e rude tiburio che si alza squadrato e dal quale piove una luce tersa e tranquilla. Insomma, nessun effetto speciale per Agostino. Eppure, salire quei gradini dal presbiterio e scorgere sotto l’altare la semplice cassa nera che custodisce i resti del santo è una cosa che commuove. Ci si può quasi chinare e toccare la grata protettiva, si può girarle attorno mentre qualche sparuto turista o fedele si avvicina ignaro e incuriosito. Unico segnale che si tratta di un luogo speciale, sono le lampade votive che, lungo il perimetro largo del presbiterio, rappresentano l’omaggio delle province agostiniane di tutto il mondo al loro padre.
Agostino riposa qui da circa 1285 anni. Lo portò un re longobardo, Liutprando, tra il 720 e il 725. Pavia in quegli anni era una vera capitale; Liutprando durante il suo regno era riuscito a mettere in riga gli altri duchi longobardi, aveva respinto le pretese di Bisanzio di allargare all’Italia l’offensiva iconoclasta, muovendo le sue truppe contro Ravenna. Ma la spedizione più importante Liutprando la fece in Sardegna. Come racconta Beda il Venerabile nella sua Chronica de sex aetatibus mundi: «Venendo a sapere Liutprando che i Saraceni, depredata la Sardegna, stavano per profanare anche quei luoghi dove erano state deposte le ossa di sant’Agostino vescovo, già trasportate là a causa delle devastazioni dei barbari, mandò a redimerle a gran prezzo, le prese e le trasportò a Pavia. Qui le ricompose con gli onori dovuti a così gran Padre».
Beda, nel suo racconto, allude a un’altra situazione di emergenza, nell’anno 430 a Ippona. I Vandali, sbarcati sulle sponde africane l’anno prima, erano alle porte della città e il vescovo, ormai settantacinquenne, stava vivendo i suoi ultimi giorni. Racconta il suo biografo Possidio: «Un giorno, mentre pranzavamo con lui e parlavamo di questi argomenti, egli ci disse: “Sappiate che in questi giorni della nostra disgrazia ho chiesto a Dio questo: o che si degni di liberare la nostra città dall’assedio dei nemici; o, se la sua volontà è diversa, che renda forti i suoi servi per poter sopportare questa volontà; ovvero che mi accolga presso di sé, uscito dal mondo”». Quando la malattia lo costrinse a letto, «fece trascrivere i salmi davidici che trattano della penitenza – sono molto pochi – e fece affiggere i fogli contro la parete, così che stando a letto durante la sua infermità li poteva vedere e leggere, e piangeva ininterrottamente». Possidio, testimone di quei giorni drammatici, racconta anche di un miracolo avvenuto. Un malato, premonito in sogno, si era avvicinato al capezzale chiedendo ad Agostino che gli imponesse le mani. Il vescovo lo fece e il fedele guarì. Ma Possidio riferisce anche la prima risposta disincantata di Agostino: se avesse potuto fare qualcosa in casi simili, prima di tutto lo avrebbe fatto per sé. Mai miracolo ebbe una dinamica tanto defilata; quasi possiamo immaginare il pensiero del santo: «Che c’entro io? Senza di Lui non possiamo far nulla, figuriamoci i miracoli…».
Secondo la tradizione il corpo del santo sarebbe stato portato in Sardegna dai vescovi scappati all’assedio dei Vandali (così riferisce una lettera di Pietro Oldrado a Carlo Magno); ma gli storici sono più propensi a pensare che le spoglie del santo avessero attraversato le sponde del Mediterraneo all’epoca dell’offensiva araba nel nord Africa, cioè alla fine del settimo secolo. Liutprando in questo modo avrebbe completato l’opera portando il corpo di Agostino in un luogo più sicuro: la sua Pavia.
Il viaggio è raccontato, come in un concitato fumetto intagliato nel marmo, su una delle formelle dell’arca che sovrasta ancor oggi la tomba. Non se ne conosce l’autore, anche se si sa che a volerla, nell’ultimo scorcio del Trecento, fu Gian Galeazzo Visconti, primo duca di Milano, e che la mano è indiscutibilmente quella di scalpellini lombardi. Ebbene, nelle due formelle sul lato di destra, la missione di Liutprando è narrata per figure, con dettaglio di particolari. In alto si vede la nave del re che approda sulle coste sarde; a bordo la delegazione è dei massimi livelli: oltre a Liutprando si riconosce il vescovo Pietro di Pavia e si vede un religioso agostiniano con abito e cuffia. Più in basso la stessa nave a vele spiegate, e le corde tese, solca le acque portando a bordo i resti venerati: il vescovo Pietro li veglia, con il pastorale in mano.
Nella formella a fianco, l’ignoto scultore, con identica vivacità, racconta la sequenza conclusiva del viaggio. Il corpo di Agostino è portato a spalle da otto monaci mentre il re Liutprando segue sostenendo il capo mitrato del santo. Il corteo sta attraversando la porta delle mura di Pavia; più sopra, nell’identica formazione, lo vediamo invece arrivato all’ingresso della Basilica. Cioè alla meta, dove ancor oggi si trova.
San Pietro in Ciel d’oro era la chiesa più importante di Pavia, per quanto posta fuori dalle mura; era sorta sul luogo in cui subì il martirio Severino Boezio, ucciso nel 525 da quello stesso imperatore Teodorico di cui era stato consigliere. I resti di Boezio sono ancor oggi custoditi nella cripta. Non resta ovviamente nulla di quell’edificio che Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, descriveva già nell’anno 604. Ma di quell’antica chiesa, devastata come tutta Pavia dal tremendo sacco degli Avari del 924, restano le ossa dei morti illustri: Agostino, Boezio e anche il re Liutprando, sepolto ai piedi del presbiterio.
La facciata, larga, accogliente, così pacifica e così lombarda, risale al momento della rinascita della Pavia comunale nel XII secolo. È una facciata tutta in laterizio, perché qui non si usavano i fasti delle pietre e dei marmi. È una facciata ospitale, con i suoi grandi spioventi a capanna; se notate, il portale non sta al centro, ma è leggermente spostato a destra perché tra facciata e interno c’è un leggero disassamento: un tocco di imperfezione che ci fa sentire subito a casa. Una sensazione rafforzata da quei piatti di ceramica, che scintillano al sole, in contrasto con i mattoni che invece se ne imbevono. Sono piatti di manifattura islamica, dicono le guide. E ci si può tranquillamente credere, perché su una facciata così e in una chiesa così c’è posto davvero per tutti.
Ma, a dispetto di un impianto tanto pacifico, la storia di San Pietro è travagliatissima. Nel 1780, al tempo della soppressione, gli agostiniani vennero allontanati e le navate usate come palestra per gli artiglieri. Con Napoleone, vent’anni dopo, andò anche peggio: la demolizione del convento provocò il crollo della navata, mentre la chiesa divenne deposito di legna e di fieno. In quegli anni cupi le reliquie di Agostino, rinchiuse nell’urna d’argento voluta dal re Liutprando, erano state trasferite in Duomo. Mentre la grande arca, con le sue 95 statue e i 50 bassorilievi, se ne stava solitaria in sagrestia dove l’avevano lavorata e costruita gli scalpellini di Gian Galeazzo Visconti. Il ricongiungimento avvenne solennemente il 7 ottobre 1900. Nel frattempo la chiesa era stata restaurata e l’arca portata dove oggi la vediamo, nel cuore del presbiterio.
C’è un che di affettuosamente esagerato in questo sepolcro che fa convergere attorno al santo un intero popolo; il marmo pullula di figure e di scenette, che raccontano la storia di Agostino. Gente normalissima, donne, bambinetti che si mescolano con la sua vita; come lui guardano a faccia in su il grande Ambrogio che predica dal pulpito. Lo stesso Ambrogio torna nella scena culminante della consegna dell’abito da catecumeno: Agostino inginocchiato piega il collo per facilitare l’operazione. A destra e a sinistra, con la massima compunzione, la madre Monica e Simpliciano seguono il rito. Ritroviamo Monica nella scena del proprio funerale, il corpo portato a braccio dai monaci sta per fare il suo ingresso nella chiesa di Ostia che ne accolse provvisoriamente le spoglie (oggi custodite nella chiesa di Sant’Agostino a Roma): con il tocco di quei due pini marittimi che si alzano alle spalle del corteo, lo scultore ci fa capire che non siamo più in Padania.
Ma le due scene più belle sono nelle cuspidi che raccontano i miracoli del santo. Sul lato minore di destra Agostino passeggia con il libro sotto braccio e incontra un gruppo di pellegrini sciancati tutti forniti di grucce. Indica loro la chiesa, che è proprio quella di San Pietro, come si vede nella scena successiva. La facciata è inconfondibilmente quella, con le sue arcatelle cieche e i suoi spioventi larghi. I pellegrini sono già usciti e non hanno più grucce perché il miracolo è avvenuto davvero, tanto che uno non ce la fa a tenere la notizia e si allontana più in fretta per dare a tutti l’annuncio. Un altro assembramento lo ritroviamo nella scena del priore guarito che celebra la festa di sant’Agostino: la gente si accalca alle porte della chiesa, i rami degli alberi sembrano contagiati anche loro dalla gioia, mentre con minuzia lo scultore ha voluto tirare fuori nel piccolissimo spazio anche la sagoma delle due campane che sembrano suonare in piena festa, come quelle manzoniane che accoglievano il cardinal Federigo.
La festa è un po’ la chiave di questa tomba che non ha nulla di tombale, né di funereo. Le dimensioni spropositate infatti di quest’arca non sono dettate da un desiderio di celebrazione o di enfasi ma da un dover far posto a tutti quelli che volevano partecipare alla festa del santo vescovo. Volti e corpi di un cattolicesimo lombardo. Di un cattolicesimo contento d’aver avuto un padre come Agostino.


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